V
come via
Diciassette anni
– Addio
Sulla
soglia di quella sala, guardavo. Vedevo le mie compagne ballare, ma io rimasi
esclusa da quel privato universo fatto di passi, specchi e odore di pece.
Ero
al quinto anno. Lo studio per la maturità avrebbe impegnato gran parte del mio
tempo, e lo stesso avrebbe fatto il corso che avrei seguito per prepararmi ai
test d’ingresso in medicina. Non ci sarebbe stato tempo per la danza, e lo
sforzo economico che i miei stavano sostenendo per permettermi di inseguire il
mio sogno aveva già prosciugato ogni finanza. Non ci sarebbe stato posto per la
danza. Non più.
Avevo
trascorso la mia vita dentro quella sala, e in quella ero cresciuta. Il mio
carattere e il mio corpo erano stati forgiati dagli anni di esercizi e
disciplina che lì dentro mi avevano imposto, e abbandonare quella sicurezza,
quell’ancora di salvezza in una vita di difficoltà, aveva il sapore amaro della
sconfitta. Mi sentivo una vigliacca ad abbandonare così la passione di una
vita, in funzione del sogno del futuro. Sapevo che era un distacco necessario,
ma non potevo fare a meno di piangere. Quelle lacrime che mi rigavano il volto
erano la naturale conseguenza di una vita vissuta in punta di piedi; scendere
da quel piedistallo significava mischiarmi ai comuni mortali.
Credo
che i miei genitori non abbiano mai davvero capito la portata del mio amore per
la danza. Quel giorno, mia madre mi accompagnò a parlare con la mia insegnante,
e mi guardava sorridendo, ma non era partecipe del mio dolore. Mio padre,
invece, sembrava semplicemente contento di essersi liberato di quella
distrazione che mi impediva di mangiare ciò che volevo – perché una ballerina
ha bisogno di un fisico leggiadro ed esile, e io non potevo e non volevo essere
da meno.
Ogni
giorno di quell’anno fu una stilettata al cuore. Era una prova difficile da
superare, e io stavo lentamente affondando. Studiavo per la scuola, studiavo
per il mio futuro, e non avevo altro sfogo che il pianto. Le lacrime bagnavano
ogni sera il mio cuscino, e la mancanza della danza, come valvola di sfogo o
semplice passatempo, rendeva tutto più difficile.
Forgiai
la mia volontà. Raggiunto l’obiettivo, forse avrei potuto ricominciare a fare
ciò che più desideravo: ballare.
Non
sono mai stata tanto illusa da pensare di poter diventare una ballerina, né ho
mai avuto questo desiderio, ma nonostante la consapevolezza che quello non
fosse lo scopo della mia vita, tutto ciò che volevo era continuare a ballare
fino alla fine dei miei giorni. Vivere senza la danza era come sopravvivere in
anaerobiosi: avevo continuamente fama d’aria, un senso d’ansia, bisogno
d’ossigeno. A volte non riuscivo davvero a respirare.
Mi domandavo
se la danza avrebbe mai potuto perdonarmi, per averla abbandonata a causa di mio
padre: l’amore per lui è sempre stato più forte di qualsiasi altra cosa, e
benché lei non mi avesse mai abbandonata, mai ferita, mai tradita, era stato
mio padre a desiderarmi, crescermi, amarmi. Era a lui che dovevo tutto.
Ma io, che
mi ero ripromessa di non cedere al suo sguardo, alla fine ho sacrificato il mio
enorme amore per lei. Quell’amore che credevo fosse più forte di qualsiasi
ostacolo, di qualsiasi sguardo, di qualsiasi tempo. E, forse, lo è davvero.
Ma il fatto
è, che la mia strada l’avevo già tracciata a sette anni, quando, danzando,
ho detto a una telecamera che mi vedeva come la stella più bella che da grande,
no, non avrei fatto la ballerina, ma la dottoressa.
Durante
quell’anno, sorridevo solo quando sognavo. Mi immaginavo molti anni dopo, con
un camice bianco indosso e uno stetoscopio attorno al collo, a guardare con
occhi lucidi una bimba stesa sul mio lettino, con le stesse passioni e gli
stessi sogni che avevo io alla sua età. La vedevo avvicinarsi a me impettita, sedersi
con la schiena dritta e rigida, e nell’attesa, con sguardo basso, stendere i
piedini mostrando il suo orgoglio. Lei è sempre stata il mio.
Essere una ballerina è un onore che non spetta molti.
Alla danza
avevo dato il mio cuore, nonostante tutte le lacrime che avevo versato per lei.
Mi mancava nonostante fosse una lotta da superare, mi mancava nonostante il
dolore, mi mancava nonostante il sudore, nonostante la stanchezza, nonostante
la voglia che qualche volta ho avuto di mollare. Mi mancava nonostante
quell’errore, mi mancava per quella presa mai fatta, mi mancava per quel doppio
giro mai riuscito. Mi mancava soprattutto per tutte queste cose, e perché lei
era ancora lì.
Quello sarebbe stato il mio rimpianto più grande, per
sempre.
Durante
quell’anno, ho avuto voglia di strapparmi l’anima ballando; sarebbe stato
meraviglioso, morire di lei.
Credo
che i miei genitori non abbiano mai capito la mia passione, eppure non
rimpiango quell’anno senza la danza: mi ha aiutata a capire cosa fosse giusto,
a mettere ordine alle mie priorità; mi ha costretta a vivere senza la mia
passione, e questo non solo mi ha reso più forte, ma ha anche accresciuto il
mio amore. Quando dissi addio alla danza, salutai per sempre anche la mia
adolescenza. Da quel momento in poi, la strada sarebbe solo stata in salita.