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Autore: HamletRedDiablo    25/01/2013    5 recensioni
I corsari giunsero a Marsiglia. E fu l'inizio dell'ultima storia.
"Mio caro lettore.
O forse dovrei dire miei cari lettori. Non offenderti, tu che leggi queste righe, ma spero vivamente che non sarai il solo a soffermarsi su questa storia. Sono abbastanza conosciuto come l’aedo della Marsiglia, ma assai di rado mi sono dedicato alla scrittura. Ritengo che un racconto debba essere vissuto, assaporato, visualizzato, e niente meglio di una novella ben raccontata al tepore di una locanda può farlo.
Tuttavia, questa è una storia che voglio scrivere. Voglio che i miei lettori possano sapere come sono andate le cose anche quando la mia lingua sarà polvere nella terra consacrata. Voglio che questa storia mi sopravviva, e che il mito dei suoi protagonisti possa essere raccontato ancora e ancora, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in America, in tutti i luoghi che i personaggi di questo racconto hanno toccato."
[Pair: Spamano, FrUk]
[Seguito di Rosario Cuentas]
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Rosa de los Vientos'
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Capitolo Due – Estate

 

Aspettavo.

Aspettavo, sperando sempre che la Queen of Pirates comparisse all’orizzonte.

Tuttavia, una domanda velenosa affondava sovente le zanne nel mio cuore.

E se un giorno non dovesse presentarsi? Se un giorno mi trovassi sulla spiaggia, vecchio e appassito, a cercare il fantasma di un vascello tra le onde?

Arthur era sempre tornato. Ma non era una garanzia sufficiente. Anche il sole, un giorno, potrebbe decidere di non sorgere più. Il passato non è un’assicurazione sul futuro: un avvenimento può essersi verificato milioni di volte, ma non si ha mai la certezza assoluta che capiterà ancora una volta.

Fu con quello spirito che salutai la Queen of Pirates, e rimasi ad osservarla finché non rimasero che onde gibbose ad increspare la superficie del mare.

La calura estiva cominciava a pizzicare l’aria, e gli odori stuzzicanti della stagione più vivace invadevano la strada.

Almeno per quel giorno, rimasi estraneo alla vitalità che pulsava nelle vene della città. Il mare lo aveva rapito di nuovo, e il mio buonumore era salpato assieme a lui.

Il giorno dopo, ero di nuovo l’anima dell’atelier e delle taverne, dove gli osti e gli avventori pretendevano di sapere la fine della storia tra i due innamorati spagnoli e la malefica Inquisizione.

In fondo, per quante cose spiacevoli possano avvenire, la vita continua. Sarebbe da stupidi non vedere i suoi doni perché si hanno gli occhi pieni di lacrime.

Ed io ero ben deciso a scrollarmele di dosso prima che l’estate scorresse senza che io l’avessi vissuta fino in fondo.

 

Un sole rovente splendeva implacabile sul mare.

Dalle onde si sollevava un’afa soffocante, e l’oceano era trapuntato da una trama di luccichii accecanti.

Gli uomini si erano ritirati sottocoperta per evitare il rischio di disidratarsi o di prendersi un’insolazione. Il capitano inglese e il navigatore spagnolo avevano resistito al massimo delle loro possibilità, ma si erano dovuti arrendere alla tirannide del sole: si erano rifugiati nello stretto corridoio che collegava la cabina del comandante a quelle degli ufficiali di rango più alto, le camicie appiccicate per il sudore e il volto arrossato dalla calura.

«Avevo quasi dimenticato quanto fosse tremendo il sole di questa stagione» sbuffò Antonio, allargando i bordi della camicia per respirare.

Arthur annuì, debilitato. Avrebbe voluto che la regina rimandasse di qualche mese quel viaggio, ma la sovrana era stata irremovibile. Così la Queen of Pirates era partita, le vele incalzate dal vento e un brulicare di volenterosi marinai sul ponte. Nulla come una giornata di afa opprimente poteva smorzare l’entusiasmo con altrettanta celerità.

«Aspetteremo che il picco sia passato, poi torneremo sul ponte» gli ricordò il capitano.

Antonio annuì, passando una mano sulla vecchia cicatrice. La previsione del medico di Arthur non si era ancora avverata del tutto: aveva pronosticato che, nel giro di qualche mese, si sarebbe assuefatto al dolore e non vi avrebbe più badato. Invece, sebbene il fastidio fosse meno intollerabile rispetto ai primi giorni, poteva ancora avvertire distintamente ogni nervo gemere.

Ad Arthur non sfuggì quel gesto, e la sua mente, per quanto bollita dal sole, ricollegò immediatamente la cicatrice al motivo per cui Antonio aveva deciso di prendere nuovamente il mare.

«Lovino non ti fa mai arrabbiare?»

Lo spagnolo impiegò qualche secondo a capire il significato della domanda e, cosa più importante, a comprendere che fosse rivolta a lui.

«Oh, certo. A volte mi fa arrabbiare moltissimo» strascicò. Credeva che il sole di Spagna lo avesse abituato al peggio, ma la caldo secco delle coste iberiche era certamente più clemente di quell’umidità appiccicosa e bollente.

Arthur si accarezzò il mento, dove una barba ispida di qualche giorno si stava espandendo. Anche Francis lo faceva infuriare: i suoi modi drammatici, le sue filippiche interminabili, la sua vanità lo rendevano una delle persone più insopportabili sulla faccia della terra.

«E, in quei momenti, non pensi mai di lasciarlo?» a quella domanda, Arthur fu investito dalla dirompente risata dello spagnolo. Antonio riuscì a controllarsi solo qualche secondo più tardi, quando lo sguardo serio dell’inglese sottolineò come il capitano non fosse intenzionato a scherzare.

«Mai» rispose, recuperando la calma con un colpo di tosse simulato. «I momenti in cui mi rende felice sono nettamente superiori a quelli in cui mi fa arrabbiare.»

Un sopracciglio spesso si sollevò, confuso. Vivendo sulla stessa nave, aveva avuto modo di osservare più da vicino la vita dell’italiano e dello spagnolo, e aveva potuto notare come la loro quotidianità fosse composta da dispute, più che da momenti di pace. Forse Lovino era più accomodante quando erano da soli, ed era a quei momenti che Antonio si riferiva.

Il paragone tra lui e Francis sorse di nuovo spontaneo: il francese lo stuzzicava continuamente, e lui reagiva bisbetico. E poi c’erano le occasioni in cui Francis abbandonava il suo costume da giullare e diventava una persona seria, persino piacevole. Era in quei frangenti, in cui il francese era un uomo e non un attore da commedia, che il capitano era veramente felice di essere approdato a Marsiglia.

«E se un giorno i momenti in cui ti fa arrabbiare dovessero aumentare? Se dovessero diventare più numerosi di quelli in cui ti rende felice?» sondò Arthur.

Credeva che Antonio avrebbe meditato, prima di rispondere a quella domanda. Chiunque si sarebbe sentito in imbarazzo di fronte ad un simile quesito. Invece lo spagnolo rispose con la massima tranquillità:

«Questo è impossibile: Lovino mi rende felice anche quando non ne è consapevole» fece schioccare la lingua nella bocca asciutta e spiegò, notando il viso interrogativo dell’inglese: «Aveva scelto di abbandonare il mare e di restare alla locanda. E, in seguito, ha abbandonato la locanda per il mare. E l’ha fatto sempre per essere al mio fianco. Mi basta vederlo passeggiare sul vascello per ricordarmi perché è qui e non in una taverna spagnola. E amo ogni suo passo su questa nave.»

Arthur ritorse il viso come se gli avessero incollato le labbra con del miele particolarmente dolce.

«Mi pento di avertelo chiesto» sancì brusco. «Sei diventato una donnicciola, ex-capitano della Reina

Antonio sorrise, per nulla offeso dal commento.

«Sono un’anima semplice» minimizzò. «Mi basta vederlo per essere contento di stare accanto a lui.»

«Il candore non si addice molto a chi ha un passato come il nostro» notò Arthur.

A quelle parole, il sorriso dello spagnolo tremolò come una candela colpita dal vento.

Gli avversari contro cui aveva combattuto per difendere la sua nave e la sua ciurma non lo avrebbero di certo definito “candido”. Ricordava ancora lo strillo di quel mozzo, prima che gli tagliasse la gola: “Es el diablo!”. La stessa versione di Nicolas: Antonio Fernandez Carriedo discendeva dai gironi infernali.

Sospirò, passando una mano sulla fronte sudata. Perfino un diavolo come lui aveva diritto di redimersi, anche se la purificazione gli era stata imposta con la forza dal proiettile che lo aveva colpito alla gamba.

E poi aveva incontrato Lovino. E non c’era stato altro da aggiungere.

«Come mai tutte queste domande, Arthur?» chiese di rimando Antonio.

L’inglese si sventagliò pigramente con il cappello da capitano prima di bofonchiare:

«Deve essere colpa di questo sole maledetto. Mi ha cotto il cervello.»

Lo spagnolo accettò con un sorriso devitalizzato dalla calura la risposta dell’amico.

Arthur esibiva quel tono particolarmente acido e particolarmente ritroso solo quando parlava di faccende private. E le sue sopracciglia si aggrottavano tanto solo quando le suddette faccende riguardavano la sfera sentimentale. Si strinse nelle spalle, arrendendosi alla sua scontrosità.

«Siamo pari adesso, giusto?» patteggiò il capitano.

Antonio si passò una mano sulla faccia, nascondendo il ghigno che avrebbe sicuramente irritato l’amico. Arthur aveva cambiato improvvisamente discorso: dunque le faccende sentimentali scottavano.

«Cosa intendi con “siamo pari”?» prese tempo lo spagnolo.

«Lo sai» brontolò Arthur.

Antonio chiuse gli occhi.

Il corsaro della Queen of Pirates si riferiva ai fatti di quindici anni prima.

La Reina, che all’epoca veleggiava sotto un altro capitano, era stata attaccata dai pirati. L’arrembaggio era finito tragicamente, per gli incauti criminali: il comandante e il suo equipaggio li avevano sgominati, anche se con qualche perdita. Antonio aveva pianto nel togliere Joyce, il bucaniere che gli raccontava sempre di quanto fossero belle le terre d’Oriente, dal timone su cui si era accasciato dopo essere stato colpito al petto.

Il capitano aveva dato ordine di ripulire la nave dei pirati, e di lasciarla al suo destino una volta saccheggiata. In fondo, tutti gli oggetti presenti sul vascello erano stati rubati in precedenza: non vi era colpa nel togliere la refurtiva da un veliero di ladri.

Una delle conquiste dei manigoldi tremava nel ponte sottocoperta, i polsi legati da corde ruvide e strette. Nessuno si era spiegato la presenza di un ragazzino inglese su quella nave: forse apparteneva ad una famiglia benestante, ed era stato rapito per chiedere una refurtiva. O forse era stato preso per la tenera età: i giovani come lui erano importanti sui galeoni che potevano non vedere una donna per mesi interi.

Antonio era giunto sulla nave mentre uno dei marinai urlava, la mano serrata dal morso violento del piccolo ostaggio.

A distanza di tanti anni, ancora non aveva capito cosa lo avesse spinto a chiedere l’allora tredicenne Arthur Kirkland per sé. La causa poteva essere imputata alla vicinanza di età – lui aveva sedici anni, a quel tempo -, o all’aver scorto in quel ragazzino abbandonato tra le merci rubate un riflesso di se stesso, gettato nell’umido di una cella dell’Inquisizione.

Il capitano aveva soppesato la sua richiesta per alcuni lunghissimi minuti, e aveva accettato con grande sforzo, e solo per il talento che Antonio aveva mostrato da quando si era imbarcato, tre anni prima, e che gli aveva fruttato il posto di timoniere.

«Mi hai quasi cavato gli occhi, quando ti ho portato in cabina» ricordò lo spagnolo.

«Eri l’unico a biascicare qualcosa di inglese» rifletté Arthur.

«Avevo imparato qualcosa durante gli scali» ammise lo Antonio, e ribadì: «Ciò non toglie che hai cercato di cavarmi gli occhi.»

«Si è trattato di legittima difesa» minimizzò Arthur, gettandosi il cappello sul viso. «Pensavo che fossi un maniaco.»

«Avevo sedici anni.»

«Un giovane maniaco, allora.»

Antonio innalzò bandiera bianca una seconda volta: era impossibile vincere contro la testardaggine ferrea dell’amico.

Gli era stato chiaro fin dalla prima sera in cui gli aveva parlato, alternando il suo stentato inglese a gesti e imitazioni per farsi comprendere. Arthur aveva parlato poco e a monosillabi, e si era rivoltato come una belva ogni volta che lo spagnolo aveva provato ad avvicinarsi.

Dopo qualche ora di tentativi, Antonio si era stancato e si era gettato sul letto, ordinandogli nella propria lingua madre di dormire sul pavimento. Quando si era svegliato, la mattina dopo, aveva trovato l’inglese ritto ai piedi del suo letto, intento a scrutarlo. Antonio non aveva afferrato la pistola che teneva sotto il cuscino per non scatenare una reazione inconsulta nell’incomprensibile britannico, ma aveva trovato particolarmente disturbante l’idea che quel ragazzino non avesse chiuso occhio tutta la notte solo per fissarlo come un avvoltoio dalla spalliera del letto.

«Arthur» aveva detto quello, continuando ad osservarlo con gli occhi spalancati.

«Antonio» aveva replicato lo spagnolo, alzandosi a sedere sul letto.

«Arthur Kirkland.»

«Antonio Fernandez Carriedo.»

L’inglese aveva storto il naso di fronte alla lunghezza improponibile del cognome dell’altro.

«Antonio» aveva accorciato Arthur, voltandogli bruscamente le spalle e tornando a sedersi in un angolo della cabina.

Il ragazzino era rimasto muto per tre giorni prima di aprire di nuovo bocca. Non erano conversazioni propriamente amichevoli: l’inglese centellinava le parole, e lo spagnolo usava tutti i trucchi in suo possesso per strappargliene il più possibile.

Poi avevano fatto scalo a Marsiglia. E lì Antonio lo aveva liberato.

Avevano aspettato che la ciurma fosse troppo addormentata o troppo ebbra di festeggiamenti per accorgersi di loro; lo aveva aiutato a sgattaiolare fuori dalla nave e a nascondersi in uno dei vicoli della città.

«Probabilmente il capitano mi sgriderà» aveva bisbigliato, con fare cospiratorio. «Ma non importa. Corri più veloce che puoi, mi raccomando.»

La mano dell’inglese si era stretta sul suo gomito, dubbiosa.

«Perché?» aveva voluto sapere.

Antonio gli aveva sorriso, ed era stata la prima volta in cui il ragazzino aveva visto qualcosa di buono in uno dei diavoli ispanici.

«Perché è bello essere liberi» aveva gioito lo spagnolo, con una pronuncia indegna dell’inglese.

Arthur non aveva deciso subito se considerare quel gesto come un atto di misericordia o di follia da parte di Antonio. La sua voce bianca era risuonata ovattata ma chiara nel vicolo addormentato:

«Prima o poi ripagherò il mio debito, Antonio.»

«Questo significa che ci rivedremo» lo spagnolo gli aveva scompigliato i capelli stopposi, esclamando a bassa voce: «Hasta luego, Arthur!»

Erano spariti in due direzioni opposte, uno correndo verso la nave e l’altro incontro ad una destinazione incerta, la loro tacita promessa che ancora alleggiava nel mezzo di quella via.

Il viso di Arthur riemerse dal cappello.

«Ci ho messo quindici anni per restituirti il favore» valutò.

«Ognuno ha i suoi tempi» catalogò Antonio.

«Quindici anni di contrasti» sospirò l’altro, ignorando l’intervento dello spagnolo.

Nella loro vita da corsari si erano trovati a volte sullo stesso galeone, a volte su vascelli nemici, a volte su navi alleate, finché entrambi non si erano guadagnati l’agognata divisa da capitano. Il loro era sempre stato uno strano rapporto, indeciso tra un’amicizia incendiata di competizione e rivalità ammantata di rispetto. E, a discapito delle differenze di cultura, lingua, o bandiera, tra i due era sempre intercorsa un’inspiegabile fiducia.

«Quindici anni di divertimento» confutò Antonio.

«Come abbiamo fatto a rimanere in contatto per tutto questo tempo?» si sorprese Arthur.

La fronte dello spagnolo si sollevò, sorpresa dall’ovvietà di quella domanda.

«Perché siamo amici» rispose, tranquillo. «O meglio, perché io ho una grande capacità di sopportazione e tu una grande voglia di pavoneggiarti con qualcuno.»

«Ti ricordo che posso ancora dare ordine ai miei uomini di gettarti ai pescecani» ringhiò Arthur, buttandosi di nuovo il cappello in faccia.

Antonio scosse la testa, rassegnato e spensierato.

Aveva capito quanto fossero profonde le radici dell’ostinazione nell’animo dell’inglese da quando un tredicenne indolenzito e malnutrito era rimasto in piedi una notte intera a fissarlo.

Non si sarebbe di certo offeso per il suo brutto carattere dopo tutto quel tempo.

 

***

 

Rientrò in cabina a notte fonda, e non si sorprese nel trovare il letto già occupato. Una zazzera scarmigliata emergeva dalle coperte e affondava nel cuscino.

Antonio si sedette sul letto, ed afferrò con due dita il più ribelle tra tutti i ciuffi ramati. Dalle pieghe del cuscino ruzzolarono fuori alcuni rimbrotti seccati, di cui Antonio riuscì a cogliere solo l’ultima parte: “bastardo”. Continuò a giocherellare con la ciocca prigioniera finché dalle lenzuola non spuntò un pugno diretto al suo stomaco.

«Ho detto di lasciarmi in pace, bastardo» brontolò assonnato Lovino. Le coperte mulinarono nell’aria, scalciate dall’italiano che si rizzò a sedere sul materasso, gli occhi gonfi e l’espressione corrucciata.

«Ho fatto tardi» si scusò Antonio. «Non c’era bisogno che mi aspettassi alzato.»

«Stavo dormendo, finché qualcuno non ha cominciato a tirarmi i capelli» si risentì l’italiano.

Lo spagnolo perse tempo per ridere della sua solita acidità, e il ragazzo approfittò di quella distrazione per studiarlo meglio.

Durante la loro navigazione, aveva parlato spesso con i mozzi della nave. Aveva scoperto che i marinai adoravano raccontare storie, specie se truculente. In molte delle loro favole da bucanieri il protagonista era Antonio.

Osservò le dita dell’uomo, rovinate dagli anni per mare e dal lavoro alla locanda. Quelle dita non erano mai state meno che gentili con lui: gli avevano curato le ferite sulla schiena, inferte dal suo precedente padrone, e lo avevano accarezzato sul letto dell’ex-capitano, senza mai procurargli il minimo dolore. Eppure, aveva udito storie terribili su quante volte quelle stesse mani si fossero bagnate di sangue.

«Lovino?» lo chiamò Antonio, vedendolo assorto.

Il ragazzo si riscosse con uno scatto, come un gatto selvatico.

Non riusciva a conciliare l’idea del corsaro spietato con la faccia premurosa e preoccupata che lo fissava, così come non era riuscito a collegare l’immagine aitante del capitano della Reina con il locandiere bonaccione, la prima volta che lo aveva visto. Non riusciva nemmeno a credere che il Nicolas che l’aveva tormentato e l’amico d’infanzia di Antonio fossero la stessa persona. Lui stesso era cambiato enormemente, dall’arrivo in Spagna all’incontro con il suo amante.

Non conosceva il corsaro dei racconti, il capitano senza paura, ma aveva vissuto con il locandiere sempre allegro e, soprattutto, era stato conquistato dall’uomo innamorato. Ed era il solo a conoscere quell’ultima gradazione dell’anima di Antonio.

La sua fronte si appoggiò alla spalla dell’uomo con un tonfo sordo.

«Sono stanco» notificò.

Le braccia del compagno si avvolsero attorno alla sua schiena affaticata, con quella gentilezza che solo lui conosceva. Nessuno di quei marinai avrebbe potuto inserirla nei suoi racconti.

Si adagiarono entrambi sul materasso, Lovino ancora premuto conto il petto dell’amante.

«Buona notte» sussurrò Antonio, baciandogli la fronte.

L’italiano rumoreggiò qualcosa prima di acquietarsi.

Era rimasto quasi sconvolto dalla leggerezza con cui aveva sorvolato quei racconti di sangue. Avrebbero dovuto sconvolgerlo, invece non lo avevano quasi sfiorato, come se non riguardassero l’uomo con cui era giaciuto tante volte.

All’immagine di un Antonio crudele, si sovrapponeva il viso che diventava radioso solo per lui; al pensiero di un corsaro senza coscienza, si affiancava il racconto di un bambino braccato dal suo migliore amico.

Chiuse gli occhi per lasciarsi avvinghiare dal calore dell’uomo e dal battito del suo cuore.

Antonio gli aveva parlato qualche volta dei suoi trascorsi in mare. E non era mai stato estremista come quei marinai. Avrebbe dovuto prevederlo: i bucanieri erano le comari del mare. Gonfiavano i racconti come le pettegole inventavano maldicenze: una comune battaglia diventava una guerra epica, e un capitano capace diventava un demone vomitato dall’Inferno.

Loro non conoscevano l’Antonio nato dopo aver dato l’addio al mare, il locandiere aggrappato ad un bastone da passeggio. E nemmeno avrebbero potuto farlo.

Morse le labbra, come se da esse potesse uscire inavvertitamente quel pensiero imbarazzante: era diventato tremendamente possessivo nei confronti del suo amante, da quando erano sulla nave e aveva notato l’aura di costante ammirazione in cui Antonio si muoveva.

Aveva quasi riso della paura dello spagnolo di vedere il suo compagno molestato o corteggiato dai marinai, e ora si trovava a tremare per lo stesso timore.

Scosse la testa, affondando il naso sul declivio del collo dell’uomo.

Erano entrambe paure senza ragione di esistere: Antonio non avrebbe abbandonato la sua occasione, e Lovino non avrebbe rinnegato la sua scelta.

Si strinse più forte al suo compagno, nonostante il caldo torrido. E Antonio ricambiò l’abbraccio.

 

Non rividi la Queen of Pirates fino all’autunno successivo.

E molte cose erano cambiate.

 

 

 

 

 

 

Eccoci approdate al secondo capitolo XD

Non mi aspettavo che questa storia avrebbe ricevuto un’accoglienza così calorosa *w* È  stata una graditissima sorpresa<3<3<3 Grazie di nuovo a tutti voi *offre biscotti a tutti i lettori*<3

Mi sono divertita a descrivere il primo incontro/scontro di Arthur e Antonio XD Era una cosa che progettavo dai tempi di Rosario *la mente malata della Red non si ferma mai u.u*… e alla fine è uscita fuori XD Spero vi sia piaciuta<3

Dirigiamoci senza indugi verso il terzo capitolo che, nei miei progetti, se non vengono rallentati da esami/pulizie/modulistica/finedelmondoposticipata, sarà pubblicato tra una settimana :D

A presto<3

Red

P.S. I banner di questa fanfic sono opera di Clau-tan<3<3<3

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