Capitolo
Due – Estate
Aspettavo.
Aspettavo,
sperando sempre che la Queen
of Pirates comparisse all’orizzonte.
Tuttavia,
una domanda
velenosa affondava sovente le zanne nel mio cuore.
E
se un giorno
non dovesse presentarsi? Se un giorno mi trovassi sulla spiaggia,
vecchio e
appassito, a cercare il fantasma di un vascello tra le onde?
Arthur
era
sempre tornato. Ma non era una garanzia sufficiente. Anche il sole, un
giorno,
potrebbe decidere di non sorgere più. Il passato non
è un’assicurazione sul
futuro: un avvenimento può essersi verificato milioni di
volte, ma non si ha
mai la certezza assoluta che capiterà ancora una volta.
Fu
con quello
spirito che salutai la Queen
of Pirates, e rimasi ad osservarla
finché non rimasero
che onde gibbose ad increspare la superficie del mare.
La
calura estiva
cominciava a pizzicare l’aria, e gli odori stuzzicanti della
stagione più
vivace invadevano la strada.
Almeno
per quel
giorno, rimasi estraneo alla vitalità che pulsava nelle vene
della città. Il
mare lo aveva rapito di nuovo, e il mio buonumore era salpato assieme a
lui.
Il
giorno dopo,
ero di nuovo l’anima dell’atelier e delle taverne,
dove gli osti e gli
avventori pretendevano di sapere la fine della storia tra i due
innamorati
spagnoli e la malefica Inquisizione.
In
fondo, per
quante cose spiacevoli possano avvenire, la vita continua. Sarebbe da
stupidi
non vedere i suoi doni perché si hanno gli occhi pieni di
lacrime.
Ed
io ero ben
deciso a scrollarmele di dosso prima che l’estate scorresse
senza che io
l’avessi vissuta fino in fondo.
Un
sole rovente splendeva implacabile sul mare.
Dalle
onde si sollevava un’afa soffocante, e l’oceano era
trapuntato da una trama di luccichii accecanti.
Gli
uomini si erano ritirati sottocoperta per evitare il
rischio di disidratarsi o di prendersi un’insolazione. Il
capitano inglese e il
navigatore spagnolo avevano resistito al massimo delle loro
possibilità, ma si
erano dovuti arrendere alla tirannide del sole: si erano rifugiati
nello
stretto corridoio che collegava la cabina del comandante a quelle degli
ufficiali di rango più alto, le camicie appiccicate per il
sudore e il volto
arrossato dalla calura.
«Avevo
quasi dimenticato quanto fosse tremendo il sole di
questa stagione» sbuffò Antonio, allargando i
bordi della camicia per respirare.
Arthur
annuì, debilitato. Avrebbe voluto che la regina
rimandasse di qualche mese quel viaggio, ma la sovrana era stata
irremovibile.
Così la Queen of Pirates
era partita,
le vele incalzate dal vento e un brulicare di volenterosi marinai sul
ponte.
Nulla come una giornata di afa opprimente poteva smorzare
l’entusiasmo con altrettanta
celerità.
«Aspetteremo
che il picco sia passato, poi torneremo sul
ponte» gli ricordò il capitano.
Antonio
annuì, passando una mano sulla vecchia cicatrice. La
previsione del medico di Arthur non si era ancora avverata del tutto:
aveva
pronosticato che, nel giro di qualche mese, si sarebbe assuefatto al
dolore e
non vi avrebbe più badato. Invece, sebbene il fastidio fosse
meno intollerabile
rispetto ai primi giorni, poteva ancora avvertire distintamente ogni
nervo
gemere.
Ad
Arthur non sfuggì quel gesto, e la sua mente, per quanto
bollita dal sole, ricollegò immediatamente la cicatrice al
motivo per cui
Antonio aveva deciso di prendere nuovamente il mare.
«Lovino
non ti fa mai arrabbiare?»
Lo
spagnolo impiegò qualche secondo a capire il significato
della domanda e, cosa più importante, a comprendere che
fosse rivolta a lui.
«Oh,
certo. A volte mi fa arrabbiare moltissimo»
strascicò.
Credeva che il sole di Spagna lo avesse abituato al peggio, ma la caldo
secco
delle coste iberiche era certamente più clemente di
quell’umidità appiccicosa e
bollente.
Arthur
si accarezzò il mento, dove una barba ispida di
qualche giorno si stava espandendo. Anche Francis lo faceva infuriare:
i suoi
modi drammatici, le sue filippiche interminabili, la sua
vanità lo rendevano
una delle persone più insopportabili sulla faccia della
terra.
«E,
in quei momenti, non pensi mai di lasciarlo?» a quella
domanda, Arthur fu investito dalla dirompente risata dello spagnolo.
Antonio
riuscì a controllarsi solo qualche secondo più
tardi, quando lo sguardo serio
dell’inglese sottolineò come il capitano non fosse
intenzionato a scherzare.
«Mai»
rispose, recuperando la calma con un colpo di tosse
simulato. «I momenti in cui mi rende felice sono nettamente
superiori a quelli
in cui mi fa arrabbiare.»
Un
sopracciglio spesso si sollevò, confuso. Vivendo sulla
stessa nave, aveva avuto modo di osservare più da vicino la
vita dell’italiano
e dello spagnolo, e aveva potuto notare come la loro
quotidianità fosse
composta da dispute, più che da momenti di pace. Forse
Lovino era più accomodante
quando erano da soli, ed era a quei momenti che Antonio si riferiva.
Il
paragone tra lui e Francis sorse di nuovo spontaneo: il
francese lo stuzzicava continuamente, e lui reagiva bisbetico. E poi
c’erano le
occasioni in cui Francis abbandonava il suo costume da giullare e
diventava una
persona seria, persino piacevole. Era in quei frangenti, in cui il
francese era
un uomo e non un attore da commedia, che il capitano era veramente
felice di
essere approdato a Marsiglia.
«E
se un giorno i momenti in cui ti fa arrabbiare dovessero
aumentare? Se dovessero diventare più numerosi di quelli in
cui ti rende
felice?» sondò Arthur.
Credeva
che Antonio avrebbe meditato, prima di rispondere a
quella domanda. Chiunque si sarebbe sentito in imbarazzo di fronte ad
un simile
quesito. Invece lo spagnolo rispose con la massima
tranquillità:
«Questo
è impossibile: Lovino mi rende felice anche quando
non ne è consapevole» fece schioccare la lingua
nella bocca asciutta e spiegò,
notando il viso interrogativo dell’inglese: «Aveva
scelto di abbandonare il
mare e di restare alla locanda. E, in seguito, ha abbandonato la
locanda per il
mare. E l’ha fatto sempre per essere al mio fianco. Mi basta
vederlo
passeggiare sul vascello per ricordarmi perché
è qui e non in una taverna spagnola. E amo ogni suo passo su
questa nave.»
Arthur
ritorse il viso come se gli avessero incollato le
labbra con del miele particolarmente dolce.
«Mi
pento di avertelo chiesto» sancì brusco.
«Sei diventato
una donnicciola, ex-capitano della Reina.»
Antonio
sorrise, per nulla offeso dal commento.
«Sono
un’anima semplice» minimizzò.
«Mi basta vederlo per
essere contento di stare accanto a lui.»
«Il
candore non si addice molto a chi ha un passato come il
nostro» notò Arthur.
A
quelle parole, il sorriso dello spagnolo tremolò come una
candela colpita dal vento.
Gli
avversari contro cui aveva combattuto per difendere la sua
nave e la sua ciurma non lo avrebbero di certo definito
“candido”. Ricordava
ancora lo strillo di quel mozzo, prima che gli tagliasse la gola:
“Es el diablo!”.
La stessa versione di
Nicolas: Antonio Fernandez Carriedo discendeva dai gironi infernali.
Sospirò,
passando una mano sulla fronte sudata. Perfino un
diavolo come lui aveva diritto di redimersi, anche se la purificazione
gli era
stata imposta con la forza dal proiettile che lo aveva colpito alla
gamba.
E
poi aveva incontrato Lovino. E non c’era stato altro da
aggiungere.
«Come
mai tutte queste domande, Arthur?» chiese di rimando
Antonio.
L’inglese
si sventagliò pigramente con il cappello da
capitano prima di bofonchiare:
«Deve
essere colpa di questo sole maledetto. Mi ha cotto il
cervello.»
Lo
spagnolo accettò con un sorriso devitalizzato dalla
calura la risposta dell’amico.
Arthur
esibiva quel tono particolarmente acido e
particolarmente ritroso solo quando parlava di faccende private. E le
sue
sopracciglia si aggrottavano tanto solo quando le suddette faccende
riguardavano la sfera sentimentale. Si strinse nelle spalle,
arrendendosi alla
sua scontrosità.
«Siamo
pari adesso, giusto?» patteggiò il capitano.
Antonio
si passò una mano sulla faccia, nascondendo il
ghigno che avrebbe sicuramente irritato l’amico. Arthur aveva
cambiato
improvvisamente discorso: dunque le faccende sentimentali scottavano.
«Cosa
intendi con “siamo pari”?» prese tempo lo
spagnolo.
«Lo
sai» brontolò Arthur.
Antonio
chiuse gli occhi.
Il
corsaro della Queen
of Pirates si riferiva ai fatti di quindici anni prima.
La
Reina, che
all’epoca veleggiava sotto un altro capitano, era stata
attaccata dai pirati.
L’arrembaggio era finito tragicamente, per gli incauti
criminali: il comandante
e il suo equipaggio li avevano sgominati, anche se con qualche perdita.
Antonio
aveva pianto nel togliere Joyce, il bucaniere che gli raccontava sempre
di quanto
fossero belle le terre d’Oriente, dal timone su cui si era
accasciato dopo
essere stato colpito al petto.
Il
capitano aveva dato ordine di ripulire la nave dei
pirati, e di lasciarla al suo destino una volta saccheggiata. In fondo,
tutti
gli oggetti presenti sul vascello erano stati rubati in precedenza: non
vi era
colpa nel togliere la refurtiva da un veliero di ladri.
Una
delle conquiste dei manigoldi tremava nel ponte
sottocoperta, i polsi legati da corde ruvide e strette. Nessuno si era
spiegato
la presenza di un ragazzino inglese su quella nave: forse apparteneva
ad una
famiglia benestante, ed era stato rapito per chiedere una refurtiva. O
forse
era stato preso per la tenera età: i giovani come lui erano
importanti sui
galeoni che potevano non vedere una donna per mesi interi.
Antonio
era giunto sulla nave mentre uno dei marinai urlava,
la mano serrata dal morso violento del piccolo ostaggio.
A
distanza di tanti anni, ancora non aveva capito cosa lo
avesse spinto a chiedere l’allora tredicenne Arthur Kirkland
per sé. La causa
poteva essere imputata alla vicinanza di età – lui
aveva sedici anni, a quel
tempo -, o all’aver scorto in quel ragazzino abbandonato tra
le merci rubate un
riflesso di se stesso, gettato nell’umido di una cella
dell’Inquisizione.
Il
capitano aveva soppesato la sua richiesta per alcuni
lunghissimi minuti, e aveva accettato con grande sforzo, e solo per il
talento
che Antonio aveva mostrato da quando si era imbarcato, tre anni prima,
e che
gli aveva fruttato il posto di timoniere.
«Mi
hai quasi cavato gli occhi, quando ti ho portato in
cabina» ricordò lo spagnolo.
«Eri
l’unico a biascicare qualcosa di inglese»
rifletté
Arthur.
«Avevo
imparato qualcosa durante gli scali» ammise lo Antonio,
e ribadì: «Ciò non toglie che hai
cercato di cavarmi gli occhi.»
«Si
è trattato di legittima difesa»
minimizzò Arthur,
gettandosi il cappello sul viso. «Pensavo che fossi un
maniaco.»
«Avevo
sedici anni.»
«Un
giovane
maniaco, allora.»
Antonio
innalzò bandiera bianca una seconda volta: era
impossibile vincere contro la testardaggine ferrea dell’amico.
Gli
era stato chiaro fin dalla prima sera in cui gli aveva
parlato, alternando il suo stentato inglese a gesti e imitazioni per
farsi
comprendere. Arthur aveva parlato poco e a monosillabi, e si era
rivoltato come
una belva ogni volta che lo spagnolo aveva provato ad avvicinarsi.
Dopo
qualche ora di tentativi, Antonio si era stancato e si
era gettato sul letto, ordinandogli nella propria lingua madre di
dormire sul
pavimento. Quando si era svegliato, la mattina dopo, aveva trovato
l’inglese
ritto ai piedi del suo letto, intento a scrutarlo. Antonio non aveva
afferrato
la pistola che teneva sotto il cuscino per non scatenare una reazione
inconsulta nell’incomprensibile britannico, ma aveva trovato
particolarmente disturbante
l’idea che quel ragazzino non avesse chiuso occhio tutta la
notte solo per
fissarlo come un avvoltoio dalla spalliera del letto.
«Arthur»
aveva detto quello, continuando ad osservarlo con
gli occhi spalancati.
«Antonio»
aveva replicato lo spagnolo, alzandosi a sedere
sul letto.
«Arthur
Kirkland.»
«Antonio
Fernandez Carriedo.»
L’inglese
aveva storto il naso di fronte alla lunghezza
improponibile del cognome dell’altro.
«Antonio»
aveva accorciato Arthur, voltandogli bruscamente
le spalle e tornando a sedersi in un angolo della cabina.
Il
ragazzino era rimasto muto per tre giorni prima di aprire
di nuovo bocca. Non erano conversazioni propriamente amichevoli:
l’inglese
centellinava le parole, e lo spagnolo usava tutti i trucchi in suo
possesso per
strappargliene il più possibile.
Poi
avevano fatto scalo a Marsiglia. E lì Antonio lo aveva
liberato.
Avevano
aspettato che la ciurma fosse troppo addormentata o
troppo ebbra di festeggiamenti per accorgersi di loro;
lo aveva aiutato a sgattaiolare fuori dalla nave e a
nascondersi
in uno dei vicoli della città.
«Probabilmente
il capitano mi sgriderà» aveva bisbigliato,
con fare cospiratorio. «Ma non importa. Corri più
veloce che puoi, mi
raccomando.»
La
mano dell’inglese si era stretta sul suo gomito,
dubbiosa.
«Perché?»
aveva voluto sapere.
Antonio
gli aveva sorriso, ed era stata la prima volta in
cui il ragazzino aveva visto qualcosa di buono in uno dei diavoli
ispanici.
«Perché
è bello essere liberi» aveva gioito lo spagnolo,
con
una pronuncia indegna dell’inglese.
Arthur
non aveva deciso subito se considerare quel gesto
come un atto di misericordia o di follia da parte di Antonio. La sua
voce
bianca era risuonata ovattata ma chiara nel vicolo addormentato:
«Prima
o poi ripagherò il mio debito, Antonio.»
«Questo
significa che ci rivedremo» lo spagnolo gli aveva
scompigliato i capelli stopposi, esclamando a bassa voce: «Hasta luego, Arthur!»
Erano
spariti in due direzioni opposte, uno correndo verso
la nave e l’altro incontro ad una destinazione incerta, la
loro tacita promessa
che ancora alleggiava nel mezzo di quella via.
Il
viso di Arthur riemerse dal cappello.
«Ci
ho messo quindici anni per restituirti il favore»
valutò.
«Ognuno
ha i suoi tempi» catalogò Antonio.
«Quindici
anni di contrasti» sospirò l’altro,
ignorando
l’intervento dello spagnolo.
Nella
loro vita da corsari si erano trovati a volte sullo
stesso galeone, a volte su vascelli nemici, a volte su navi alleate,
finché
entrambi non si erano guadagnati l’agognata divisa da
capitano. Il loro era
sempre stato uno strano rapporto, indeciso tra un’amicizia
incendiata di competizione
e rivalità ammantata di rispetto. E, a discapito delle
differenze di cultura,
lingua, o bandiera, tra i due era sempre intercorsa
un’inspiegabile fiducia.
«Quindici
anni di divertimento» confutò Antonio.
«Come
abbiamo fatto a rimanere in contatto per tutto questo
tempo?» si sorprese Arthur.
La
fronte dello spagnolo si sollevò, sorpresa
dall’ovvietà
di quella domanda.
«Perché
siamo amici» rispose, tranquillo. «O meglio,
perché
io ho una grande capacità di sopportazione e tu una grande
voglia di
pavoneggiarti con qualcuno.»
«Ti
ricordo che posso ancora dare ordine ai miei uomini di
gettarti ai pescecani» ringhiò Arthur, buttandosi
di nuovo il cappello in
faccia.
Antonio
scosse la testa, rassegnato e spensierato.
Aveva
capito quanto fossero profonde le radici dell’ostinazione
nell’animo dell’inglese da quando un tredicenne
indolenzito e malnutrito era
rimasto in piedi una notte intera a fissarlo.
Non
si sarebbe di certo offeso per il suo brutto carattere
dopo tutto quel tempo.
***
Rientrò
in cabina a notte fonda, e non si sorprese nel
trovare il letto già occupato. Una zazzera scarmigliata
emergeva dalle coperte
e affondava nel cuscino.
Antonio
si sedette sul letto, ed afferrò con due dita il
più
ribelle tra tutti i ciuffi ramati. Dalle pieghe del cuscino ruzzolarono
fuori
alcuni rimbrotti seccati, di cui Antonio riuscì a cogliere
solo l’ultima parte:
“bastardo”. Continuò a giocherellare con
la ciocca prigioniera finché dalle
lenzuola non spuntò un pugno diretto al suo stomaco.
«Ho
detto di lasciarmi in pace, bastardo» brontolò
assonnato
Lovino. Le coperte mulinarono nell’aria, scalciate
dall’italiano che si rizzò a
sedere sul materasso, gli occhi gonfi e l’espressione
corrucciata.
«Ho
fatto tardi» si scusò Antonio. «Non
c’era bisogno che mi
aspettassi alzato.»
«Stavo
dormendo, finché qualcuno non ha cominciato a tirarmi
i capelli» si risentì l’italiano.
Lo
spagnolo perse tempo per ridere della sua solita acidità,
e il ragazzo approfittò di quella distrazione per studiarlo
meglio.
Durante
la loro navigazione, aveva parlato spesso con i
mozzi della nave. Aveva scoperto che i marinai adoravano raccontare
storie,
specie se truculente. In molte delle loro favole da bucanieri il
protagonista
era Antonio.
Osservò
le dita dell’uomo, rovinate dagli anni per mare e dal
lavoro alla locanda. Quelle dita non erano mai state meno che gentili
con lui:
gli avevano curato le ferite sulla schiena, inferte dal suo precedente
padrone,
e lo avevano accarezzato sul letto dell’ex-capitano, senza
mai procurargli il
minimo dolore. Eppure, aveva udito storie terribili su quante volte
quelle
stesse mani si fossero bagnate di sangue.
«Lovino?»
lo chiamò Antonio, vedendolo assorto.
Il
ragazzo si riscosse con uno scatto, come un gatto
selvatico.
Non
riusciva a conciliare l’idea del corsaro spietato con la
faccia premurosa e preoccupata che lo fissava, così come non
era riuscito a
collegare l’immagine aitante del capitano della Reina con il locandiere bonaccione, la
prima volta che lo aveva
visto. Non riusciva nemmeno a credere che il Nicolas che
l’aveva tormentato e
l’amico d’infanzia di Antonio fossero la stessa
persona. Lui stesso era
cambiato enormemente, dall’arrivo in Spagna
all’incontro con il suo amante.
Non
conosceva il corsaro dei racconti, il capitano senza
paura, ma aveva vissuto con il locandiere sempre allegro e,
soprattutto, era
stato conquistato dall’uomo innamorato. Ed era il solo a
conoscere quell’ultima
gradazione dell’anima di Antonio.
La
sua fronte si appoggiò alla spalla dell’uomo con
un tonfo
sordo.
«Sono
stanco» notificò.
Le
braccia del compagno si avvolsero attorno alla sua
schiena affaticata, con quella gentilezza che solo lui conosceva.
Nessuno di
quei marinai avrebbe potuto inserirla nei suoi racconti.
Si
adagiarono entrambi sul materasso, Lovino ancora premuto
conto il petto dell’amante.
«Buona
notte» sussurrò Antonio, baciandogli la fronte.
L’italiano
rumoreggiò qualcosa prima di acquietarsi.
Era
rimasto quasi sconvolto dalla leggerezza con cui aveva
sorvolato quei racconti di sangue. Avrebbero dovuto sconvolgerlo,
invece non lo
avevano quasi sfiorato, come se non riguardassero l’uomo con
cui era giaciuto
tante volte.
All’immagine
di un Antonio crudele, si sovrapponeva il viso
che diventava radioso solo per lui; al pensiero di un corsaro senza
coscienza,
si affiancava il racconto di un bambino braccato dal suo migliore
amico.
Chiuse
gli occhi per lasciarsi avvinghiare dal calore
dell’uomo e dal battito del suo cuore.
Antonio
gli aveva parlato qualche volta dei suoi trascorsi
in mare. E non era mai stato estremista come quei marinai. Avrebbe
dovuto
prevederlo: i bucanieri erano le comari del mare. Gonfiavano i racconti
come le
pettegole inventavano maldicenze: una comune battaglia diventava una
guerra
epica, e un capitano capace diventava un demone vomitato
dall’Inferno.
Loro
non conoscevano l’Antonio nato dopo aver dato
l’addio
al mare, il locandiere aggrappato ad un bastone da passeggio. E nemmeno
avrebbero potuto farlo.
Morse
le labbra, come se da esse potesse uscire
inavvertitamente quel pensiero imbarazzante: era diventato
tremendamente
possessivo nei confronti del suo amante, da quando erano sulla nave e
aveva
notato l’aura di costante ammirazione in cui Antonio si
muoveva.
Aveva
quasi riso della paura dello spagnolo di vedere il suo
compagno molestato o corteggiato dai marinai, e ora si trovava a
tremare per lo
stesso timore.
Scosse
la testa, affondando il naso sul declivio del collo
dell’uomo.
Erano
entrambe paure senza ragione di esistere: Antonio non
avrebbe abbandonato la sua occasione, e Lovino non avrebbe rinnegato la
sua
scelta.
Si
strinse più forte al suo compagno, nonostante il caldo
torrido. E Antonio ricambiò l’abbraccio.
Non
rividi la Queen
of Pirates fino
all’autunno successivo.
E
molte cose
erano cambiate.
Eccoci
approdate
al secondo capitolo XD
Non
mi aspettavo
che questa storia avrebbe ricevuto un’accoglienza
così calorosa *w* È stata
una graditissima sorpresa<3<3<3
Grazie di nuovo a tutti voi *offre biscotti a tutti i lettori*<3
Mi
sono
divertita a descrivere il primo incontro/scontro di Arthur e Antonio XD
Era una
cosa che progettavo dai tempi di Rosario *la mente malata della Red non
si
ferma mai u.u*… e alla fine è uscita fuori XD
Spero vi sia piaciuta<3
Dirigiamoci
senza indugi verso il terzo capitolo che, nei miei progetti, se non
vengono
rallentati da esami/pulizie/modulistica/finedelmondoposticipata,
sarà
pubblicato tra una settimana :D
A
presto<3
Red
P.S. I banner di questa fanfic sono opera di Clau-tan<3<3<3
Bacheca:
Streghe di Zucchero e Segreti di famiglia (Fandom: Harry Potter; Pair: ScorpiusAlbus, RoseNuovoPersonaggio)
Quello che vedi nella tela (Fandom: Hetalia; Pair: GerIta)
Deimos - Il Peccato Irrazionale (Fandom: Originali, Sovrannaturale, Angeli e Demoni)