H come ho
paura, H come ho fallito
Diciotto
anni – Scusami
Ero sola. Sola come sarei stata sempre, nella vita. Sola
perché alla fine è da sola che, sempre, si deve affrontare questo mondo: nella
vita vera non arriva nessun principe azzurro a salvarti nel momento del
bisogno. E infatti, quel giorno, non c’era nessuno a tenermi la mano, anche se
in quel momento mi sentivo tanto fragile da desiderare qualcuno a cui
aggrapparmi.
Avrei voluto lui
accanto, a rassicurarmi che tutto sarebbe andato per il verso giusto; in
alternativa mi sarei accontentata anche di mia madre, che con le sue parole
sapeva sempre come curare i miei mali, fisici o emotivi che fossero.
Mia nonna mi accompagnò fino alla Cittadella Universitaria,
rischiando più di un incidente e violando parecchie regole del codice della
strada. Quando si fermò davanti all’entrata, mi augurò buona fortuna, pregandomi
di tranquillizzarmi.
Io avevo la nausea, e mi veniva da vomitare. Quando scesi
dalla macchina avevo le gambe deboli. Ricordo che mi girai verso di lei, la
guardai, spaesata, e le domandai: «E ora, che faccio? Dove devo andare?» Non
riconobbi nemmeno la mia voce, flebile com’era. Lei non seppe darmi
indicazioni, non seppe rispondere alla mia domanda. Mi lasciò sola, sola come
non ero mai stata, sola come pensavo che sarei stata sempre di lì in avanti. Mentre
camminavo a testa bassa lungo la strada, ero sola; mentre chiamavano l’appello
ero sola; mentre marcivo dentro, corrosa dall’ansia, ero sola. Tremavo, e non
sapevo come fermarmi; avevo la nausea, e non sapevo come fermare la testa, che
girava vorticosamente.
Quando ebbi davanti quel test, cercai di dominare quell’ansia
crescente, ma la solitudine aveva solo accresciuto quel mostro, e nessuna
distrazione mi aveva aiutato a dominare quel senso di vertigine che mi aveva
colto in modo così violento.
Il sole cocente sotto cui camminavo asciugava le mie lacrime.
Potevo permettermi di piangere, tanto, ero sola anche mentre tornavo a casa,
con la disperazione dentro il cuore. Sapevo di aver fallito, e la
consapevolezza di quella sconfitta acuiva il mio senso di ansia e di vertigine.
Desideravo solo sprofondare sotto terra e non riemergerne mai più. Non avevo
voglia di affrontare la mia famiglia, non volevo sentire le domande di chi mi
avrebbe chiesto com’era andata. Il mio sogno si era infranto, e mai nulla
avrebbe potuto guarire le ferite del mio cuore a pezzi. Avevo persino
rinunciato alla danza, pur di inseguire la mia passione, e sapere che il
desiderio che da anni mi accendeva lo sguardo era sfumato come una nuvola al
primo tocco di vente, si era sciolto come neve al
sole, mi riempiva di una tristezza mai provata prima. Era la prima volta che mi
scontravo davvero con il mondo reale, e vedermi cadere addosso quel palazzo mi
fece sentire distrutta.
Ma, più di tutto, avevo paura di lui.
Quando il mio cellulare squillò, sulle prime decisi di non
rispondere. Solo quando l’insistenza si fece tanto fastidiosa da diventare
dolorosa, mi decisi a premere il tasto verde. Portai con estrema lentezza
l’apparecchio all’orecchio, e quando sentii, dall’altra parte della cornetta,
distante anni luce, la sua voce parlare, provai un’inspiegabile senso
d’angoscia.
«Stellina, com’è andata?»
«Male» La mia voce lugubre e flebile non riuscì a fargli
intendere la portata della mia frustrazione.
«Ma come male?» Sentii la delusione spezzargli la voce. E
quella voce, mi spezzò il cuore.
Tutto quello che volevo, era renderlo felice, e orgoglioso di
me. Renderlo consapevole che sarei stata capace di lottare per ciò che volevo,
fino in fondo, e con successo. Quello l’avrebbe reso fiero.
«Scusami papà. Scusami se ti ho deluso»
Ma ti prometto che non
lo farò mai più.