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Autore: Eloise_Hawkins    03/02/2013    1 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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H come ho paura, H come ho fallito

 

Diciotto anni – Scusami

 

Ero sola. Sola come sarei stata sempre, nella vita. Sola perché alla fine è da sola che, sempre, si deve affrontare questo mondo: nella vita vera non arriva nessun principe azzurro a salvarti nel momento del bisogno. E infatti, quel giorno, non c’era nessuno a tenermi la mano, anche se in quel momento mi sentivo tanto fragile da desiderare qualcuno a cui aggrapparmi.

Avrei voluto lui accanto, a rassicurarmi che tutto sarebbe andato per il verso giusto; in alternativa mi sarei accontentata anche di mia madre, che con le sue parole sapeva sempre come curare i miei mali, fisici o emotivi che fossero.

Mia nonna mi accompagnò fino alla Cittadella Universitaria, rischiando più di un incidente e violando parecchie regole del codice della strada. Quando si fermò davanti all’entrata, mi augurò buona fortuna, pregandomi di tranquillizzarmi.

Io avevo la nausea, e mi veniva da vomitare. Quando scesi dalla macchina avevo le gambe deboli. Ricordo che mi girai verso di lei, la guardai, spaesata, e le domandai: «E ora, che faccio? Dove devo andare?» Non riconobbi nemmeno la mia voce, flebile com’era. Lei non seppe darmi indicazioni, non seppe rispondere alla mia domanda. Mi lasciò sola, sola come non ero mai stata, sola come pensavo che sarei stata sempre di lì in avanti. Mentre camminavo a testa bassa lungo la strada, ero sola; mentre chiamavano l’appello ero sola; mentre marcivo dentro, corrosa dall’ansia, ero sola. Tremavo, e non sapevo come fermarmi; avevo la nausea, e non sapevo come fermare la testa, che girava vorticosamente.

Quando ebbi davanti quel test, cercai di dominare quell’ansia crescente, ma la solitudine aveva solo accresciuto quel mostro, e nessuna distrazione mi aveva aiutato a dominare quel senso di vertigine che mi aveva colto in modo così violento.

 

Il sole cocente sotto cui camminavo asciugava le mie lacrime. Potevo permettermi di piangere, tanto, ero sola anche mentre tornavo a casa, con la disperazione dentro il cuore. Sapevo di aver fallito, e la consapevolezza di quella sconfitta acuiva il mio senso di ansia e di vertigine. Desideravo solo sprofondare sotto terra e non riemergerne mai più. Non avevo voglia di affrontare la mia famiglia, non volevo sentire le domande di chi mi avrebbe chiesto com’era andata. Il mio sogno si era infranto, e mai nulla avrebbe potuto guarire le ferite del mio cuore a pezzi. Avevo persino rinunciato alla danza, pur di inseguire la mia passione, e sapere che il desiderio che da anni mi accendeva lo sguardo era sfumato come una nuvola al primo tocco di vente, si era sciolto come neve al sole, mi riempiva di una tristezza mai provata prima. Era la prima volta che mi scontravo davvero con il mondo reale, e vedermi cadere addosso quel palazzo mi fece sentire distrutta.

Ma, più di tutto, avevo paura di lui.

Quando il mio cellulare squillò, sulle prime decisi di non rispondere. Solo quando l’insistenza si fece tanto fastidiosa da diventare dolorosa, mi decisi a premere il tasto verde. Portai con estrema lentezza l’apparecchio all’orecchio, e quando sentii, dall’altra parte della cornetta, distante anni luce, la sua voce parlare, provai un’inspiegabile senso d’angoscia.

«Stellina, com’è andata?»

«Male» La mia voce lugubre e flebile non riuscì a fargli intendere la portata della mia frustrazione.

«Ma come male?» Sentii la delusione spezzargli la voce. E quella voce, mi spezzò il cuore.

Tutto quello che volevo, era renderlo felice, e orgoglioso di me. Renderlo consapevole che sarei stata capace di lottare per ciò che volevo, fino in fondo, e con successo. Quello l’avrebbe reso fiero.

«Scusami papà. Scusami se ti ho deluso»

Ma ti prometto che non lo farò mai più.

 

   
 
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