G
come giusto
Diciassette
anni – Sciocchi, diamanti e pezzi di vetro
La
prima delusione d’amore giunse a diciassette anni, e mia madre era lì a
sorreggermi. Non seppe mai quanto importanti furono le sue parole, e che ruolo
determinante ebbe lei nel sancire la mia guarigione.
L’emotività
che fin da bambina mi aveva sempre seguita come un’ombra fastidiosa, anche
quella volta aveva avuto la meglio. Lui mi aveva lasciata, e io non riuscivo a
farmene una ragione. Faceva male, di un male diverso da tutti quelli saggiati
fino a quel momento.
Non
riuscivo a mangiare, non riuscivo a studiare, non riuscivo a concentrarmi a
lungo su qualcosa, e il fatto che il giorno dopo dovessi sostenere un esame di
maturità non mi aiutava nell’impresa.
Fino
a pochi giorni prima andava benissimo, poi lui aveva deciso che non stava più
bene con me, e mi aveva lasciata.
Eravamo stati insieme solo un mese, ma era stato un mese intenso e pieno di
sentimento. Non era ancora amore, ma la sensibilità con cui il mio cuore
tendeva a legarsi a qualcuno aveva fatto sì che quell’affetto si trasformasse
in qualcosa di selvaggiamente profondo. Era crudele, quel dolore che sentivo.
Mia
madre venne nella mia camera quando ormai era sopraggiunta la sera. Faceva
caldo, ma io ero lo stesso rintanata sotto le coperte, il libro di filosofia
aperto sulle gambe e la mente sgombra da ogni nozione scolastica. Piangevo,
anziché studiare, e sapevo che lei aveva il cuore spezzato almeno quanto il
mio. Si sedette sul bordo del mio letto, e mi accarezzò piano la testa. Io non
riuscii più a trattenermi, e un singhiozzo acuto mi sfuggì dalle labbra, prima
ancora che le lacrime cominciassero a scorrere copiose sul mio volto.
Lei
mi abbracciò, e io la strinsi forte, e mi sentii di nuovo una bambina dentro
quelle braccia calde e morbide.
«Mamma,
perché deve fare così male?» chiesi tra le lacrime. Non ebbi mai risposta. Lei
mi guardò, stringendo le labbra e continuando a carezzarmi i capelli.
«Non
era quello giusto» disse, invece di replicare alla mia domanda. Fu laconica, e
quella frase mi sorprese tanto da sospendere per qualche minuto il mio dolore.
Mi scostai un poco da lei, per guardarla in volto: sorrideva.
«Come?»
chiesi, incerta e perplessa. Non riuscivo a capire a cosa si riferisse, e cosa
l’avesse portata a fare quell’affermazione. Eppure, il peso che mi opprimeva lo
stomaco divenne appena meno soffocante.
«Quando
l’ho visto accanto a te, ho avuto subito questa sensazione. Non era quello
giusto» continuò placidamente. La guardai negli occhi, cercando in quelle iridi
azzurre una traccia di bugia, o di falsità: non ne trovai. Il suo sguardo era
limpido e sincero come solo quello di una madre in pena può esserlo. Sapeva ciò
che diceva, ed era sicura delle sue parole.
Avevo
visto mia madre debole e spaventata, ma questo non mi aveva impedito di
considerarla sempre superiore a me. L’avevo sempre ammirata, fino a quando non
l’avevo vista piangere; ma anche allora, ho conservato fin dall’infanzia quel
senso di inspiegabile insicurezza che solo lei poteva placare, con le sue
parole. Ho sempre creduto che i miei genitori avessero ogni risposta, e sapere
da lei che la sua sensazione fosse quella, mi rassicurò. Mi sentii di nuovo
serena.
Più
tardi, nella mia stanza, riuscii a farmi entrare in testa qualcosa prima dello
scoccare della mezzanotte. Il giorno dopo avrei dovuto sostenere la terza
prova, e nonostante ora fossi decisamente più tranquilla, il mio fisico era
stato provato da una lunga ansia, e un prolungato digiuno, per cui mi sentivo
debole e intorpidita. Quando il mio cellulare squillò, sulle prime non feci
attenzione a quel particolare. Solo molti minuti più tardi mi ricordai di quel
suono, e lessi il messaggio che mi era arrivato.
“Lo sciocco può barattare il
diamante per un pezzo di vetro, ma il diamante rimane la cosa più pura e
preziosa esistente in natura”.
Me
lo mandava mia madre.