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Autore: Leddy    17/02/2013    10 recensioni
Era un ciclo: ogni anno si cominciava, si viveva, si moriva, si finiva.
La capitale gioiva, i Distretti soccombevano senza potersi sottrarre.
Un solo vincitore, una sola voce.
Poi la primavera finiva.

-
La sessantatreesima edizione degli Hunger Games. I Giochi della Fame come non li avete mai visti.
Genere: Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





04. Capitolo quattro – Maschera






Ci sono delle volte in cui mentire è inevitabile, altre in cui ci fa star male e altre ancora in cui l’indifferenza verso il dire delle bugie è palese.
Mentire equivale a indossare una maschera: nessuno riesce a vedere il tuo vero volto, la verità.
Tutti i tributi indossano una maschera.
Quello che nell’arena sarà costretto a diventare un arciere a casa era un giovane figlio; quello che nell’arena sarà costretto a diventare un assassino a casa era un giovane fratello; quello che nell’arena sarà costretto a fingere a casa era un giovane fidanzato.
E gli impazienti capitolini, sui loro comodi divani, si divertono guardando quest’intricato gioco di maschere, mentre i tributi rischiano qualsiasi cosa pur di uscirne vivi.



La saletta degli strateghi era posta in alto, in modo che questi avessero potuto osservare con attenzione ogni tributo che passava sotto il loro esame, anche se ciò in realtà non avveniva. Preferivano di gran lunga bere del vino e chiacchierare tra di loro, mentre un maiale arrosto veniva servito su un ampio vassoio d’argento, contornato da verdure prelibate e frutta secca. In genere veniva portato da alcuni senza-voce che prestavano servizio al Centro Addestramento.
Cicero Feestage, il brillante e panciuto Capo-stratega dai cappotti maculati, si aspettava di tutto. Aveva già osservato in precedenza tutti i tributi, sia alle mietiture che durante l’allenamento a Capitol e aveva notato con piacere insieme ai suoi colleghi che il livello di quell’anno era molto alto. Per la maggior parte sembravano in gamba, disposti a tutto,  nonostante ci fossero anche quelli impauriti o rassegnati al proprio destino.
Voglioso d’iniziare, ordinò al suo secondo, Ionas Lightwood*, di aprire le danze con lo scalpitante Distretto 1.
Tutti gli strateghi si misero in posizione – dopotutto cominciavano a rilassarsi soltanto dopo aver esaminato i primi quattro ragazzi, i cosiddetti Favoriti.
Ionas chiamò il primo nome. – Yaacov Sherday.
Il ragazzo dai capelli corvini entrò con la sua solita espressione impassibile, dirigendosi senza preamboli verso la postazione delle spade.
Con abilità – come se fosse nato soltanto per quello – ne prese due e cominciò a rotearle in aria, finché non si scagliò verso dei poveri manichini sulla sinistra.
Menò dei fendenti tanto precisi da rasentare la perfezione, colpendo i punti vitali e abbattendo i bersagli con rapidità disarmante.
Era calmo, Yaacov, non lasciava trasparire nessuna emozione.
Non era arrabbiato, o compiaciuto. Neanche lontanamente preoccupato o nervoso.
Cicero e Ionas si stupivano ogni volta, come la prima volta, della sua freddezza senza pari.
Il ragazzo era una vera macchina da morte, il moderno Attila, un flagello, che era capace di torturare e infliggere dolore con facilità estrema.
Gli strateghi pensarono che i tributi avrebbero dovuto avere molta paura di lui e che se avessero preferito la sopravvivenza ad una morte atroce gli sarebbero dovuti stare alla larga, addirittura a chilometri di distanza.
Solo poche gocce di sudore gli imperlavano il viso dai tratti un po’ marcati, ma per il resto ostentava una concentrazione micidiale.
Dopo aver fatto letteralmente a pezzi una decina di manichini, si spostò verso i coltelli.
Cicero s’incuriosì di questa sua scelta, visto che chiaramente aveva maggiore potenziale con le armi che richiedevano uno scontro diretto, per cui rimase a guardare.
Anche in quel frangente fu impeccabile. Tirò coltelli da quasi dieci metri di distanza, colpendo i bersagli al cuore o al cranio.
Tutti i presenti erano impressionati.
Yaacov non aveva ancora finito: la sua ultima arma era la lancia.
Con questa ridusse a brandelli uno degli ultimi manichini a sua disposizione, ragion per cui gli strateghi si alzarono in piedi e lo applaudirono. Era il genere di tributo che più preferivano. Letale.
Il ragazzo non si scompose, non dando peso neanche alle acclamazioni, e dopo un veloce inchino si voltò e uscì.
Cicero si rivolse a Ionas. – Che voto gli diamo?
Il secondo rimase a riflettere per qualche secondo e meditò sulle possibili scelte. Dava voti ai tributi da oltre quarant’anni, non avrebbe mai dato un giudizio sbagliato. – Direi 11, Cicero.
Le parole erano da pari, ma un Capostratega esigeva sempre rispetto da chiunque.
– Perché non 12, Ionas?
– Credo che non ci abbia offerto nulla di nuovo e poi il suo atteggiamento non è dei migliori: non ha neanche reagito all’applauso. Però ha rasentato l’eccellenza.
– Quindi credi che lo dovremmo penalizzare di un punto? –
chiese Cicero pensoso, accarezzandosi il mento. – Ma sì, dopotutto ci offrirà molto più spettacolo nell’arena. Vada per 11.
Ionas segnò il voto su un taccuino, mentre chiamava al microfono il tributo femmina del Distretto 1: – Ibiza Velàsquez.

Gli strateghi erano molto incuriositi anche dalla quindicenne dalle origini iberiche e si aspettavano grandi cose da lei.
Tutto tranne quello, però.
Ibiza entrò sorridendo. Poteva sembrare strano, ma era radiosa, esattamente come una figura eterea. Voleva infondere buonumore tra i suoi esaminatori, cosa che le riuscì con facilità.
Era la prima tra le ragazze a mettersi alla prova e ciò le conferiva una punta d’orgoglio: avrebbe avuto la maggior parte dell’attenzione su di sé. Quale motivo migliore, allora, per effettuare la prova più estrema della sua breve vita?
All’inzio nessuno se ne accorse, ma aveva un sottile flauto di legno nella mano destra. Prima di usarlo, però, fece una richiesta che scioccò la maggior parte dei presenti. – Avrei una domanda, se non vi dispiace. Sarebbe possibile concedermi la presenza di dodici condannati a morte?
Ionas scosse la testa. Di sicuro nessuno, lì, voleva accontentare i capricci di una ragazzina. Era anche una Favorita, certo, ma…
– Che le siano concessi – disse Cicero lapidario, fissando Ibiza intensamente. – Voglio metterla alla prova.
Si levò un mormorio di dissenzo che si spense solo quando il Capostratega pronunciò queste esatte parole: – Non fatemelo ripetere di nuovo. Che le siano concessi.
Ibiza sorrise e ringraziò.
Uno degli strateghi – un certo Paul – uscì da una porticina sul lato e, dopo alcuni minuti, tornò con ben dodici senza voce. Non erano esattamente condannati a morte, ma questo la ragazza non poteva saperlo. Di certo non si sarebbe intromessa negli affari di Capitol.
Gli uomini, che variavano sia d’aspetto che d’età – probabilmente il più anziano doveva avere sui sessant’anni, mentre il più giovane era sulla quindicina – si guardavano intorno terrorizzati. Non avevano minimamente idea dell’inferno che li stava aspettando a braccia aperte.
Ibiza li fece disporre uno accanto all’altro e li distanziò con precisione. Doveva andare tutto secondo i suoi calcoli.
Si mise ad alcuni metri da loro e prese il suo flauto. Cominciò una dolce melodia, una di quelle adatte alle ninnananne o alle canzoni d’amore.
La melodia crebbe e crebbe, finché il primo senza-voce della fila cominciò a urlare istericamente. La ragazza non vi badò e continuò a suonare, mentre il presunto condannato a morte si contorceva sul pavimento e i suoi compagni lo guardavano in preda al panico.
Dopo alcuni istanti le urla del primo cessarono. Gli si era spaccato il cranio.
Gli strateghi si alzarono tutti in piedi per guardare meglio, con espressioni stupefatte.
Ibiza si voltò verso il secondo senza-voce. Premendo il secondo tasto del suo flauto, l’uomo iniziò a riempirsi di disgustose e orride pustole nere che lo facevano soffrire come se fosse stato punto da mille vespe contemporaneamente.
Anche lui cominciò a gridare, così forte da far rizzare i peli delle braccia alla ragazza che, però, continuava a suonare senza fermarsi.
Pur di smettere di soffrire, il secondo presunto condannato a morte corse per la sala con le sue ultime forze e prese una delle lance date in dotazione con cui si trafisse lo stomaco.
La terza cavia soffrì un po’ di meno. Ibiza, voltandosi verso di essa, premette il terzo tasto. L’uomo prese a tossire violentemente, facendosi sempre più pallido. Poi si accasciò a terra, soffocato.
Il quarto senza-voce tremava percettibilmente. Alla ragazza dispiaceva doverlo uccidere, ma tanto, si diceva, sarebbe comunque dovuto morire a breve.
Pertanto, si voltò verso di lui continuando a suonare la sua melodia infernale. All’inizio l’uomo non ebbe alcuna reazione, ma poi, quasi come se fosse mosso da una forza esterna, si diresse verso la postazione dei coltelli, dove ne prese uno e con questo si aprì il petto.
Gli strateghi, dall’alto della loro collocazione, erano sempre più sbalorditi, quasi inquietati.
Anche la sesta e la settima vittima morirono misteriosamente. Ad entrambi si aprì un fiore di sangue sulla gola che li fece stramazzare al suolo.
Ibiza continuava, seppur lievemente disgustata da se stessa.
Premendo il settimo tasto, la cavia corrispondente prese lentamente fuoco. E mentre la musica veniva sovrastata dalle incredibili urla dell’uomo, questi si contorceva in posizione disumane, finché la sua carne fu talmente bruciata dalle fiamme da porre fine alle sue sofferenze.
Dopo la settima vittima, la ragazza dell’1 premette in rapida successione l’ottavo, il nono e il decimo tasto, che provocò una paralisi ai condannati che aveva di fronte. Dopodiché, un taglio uscito da chissà dove aprì la loro vena femorale, uccidendoli tra gemiti terrorizzati.
Premendo l'undicesimo tasto, un piccolo forellino comparì come per magia sul collo della cavia, facendola precipitare in un breve attacco isterico e causandole la morte mentre quella recitava delle preghiere supplichevoli.
E, infine, sotto ormai la più completa incredulità degli spettatori, premendo il dodicesimo tasto, il cuore dell’ultimo senza-voce – il quindicenne, che probabilmente si aspettava di peggio, visto che aveva cominciato a piangere sommessamente –  semplicemente si fermerò, facendolo precipitare in un dolce quanto mortale sonno.
Dunque Ibiza interruppe la melodia.
Il silenzio allora fu tombale. Tutti erano troppo presi ad osservare il pandemonio a terra piuttosto che a notare le sue labbra sporche di tracce sanguigne o le sue unghie incrostate di sangue secco.
Uscì sempre con uno smagliante sorriso sulle labbra, dileguandosi il più in fretta possibile. Ci era riuscita. Aveva dato prova di sé.
Da quel momento dipendeva soltanto dal giudizio che le avrebbero conferito di strateghi.
Cicero, Ionas e gli altri si guardarono stupefatti, senza essere in grado di riuscire a proferire parola.
– 12 – disse semplicemente il Capostratega. – Segna 12, Ionas.
Nessuno ebbe nulla da obiettare**.

– Nathaniel Darko – annunciò Ionas dopo aver fatto sgomberare il pavimento dai corpi dei dodici morti. Erano ancora presenti tracce di sangue e di cenere un po’ ovunque, ma tutti assentirono che nessuno dei seguenti tributi vi avrebbe badato.
Nathaniel, infatti, non calcolò minimamente la confusione e si diresse con decisione verso le spade in bella mostra sulla sinistra.
Si sentiva pronto quanto mai prima d’ora. Dopotutto mettersi alla prova gli era sempre riuscito bene. Nathaniel non sbagliava mai.
Soppesò una delle spade più pesanti e con movimenti a dir poco fluidi la portò con entrambe le mani sopra la testa. Poi si scaraventò verso dei manichini poco distanti, impugnando saldamente l’arma.
Cominciò a combattere come un vero guerriero – o gladiatore, che dir si voglia –, tant’è vero che Cicero lo associò, come aveva fatto la sua compagna di distretto alcuni giorni prima, ad Eracle, il leggendario eroe della mitologia greca.
Il Capostratega pensò con un ghigno soddisfatto che fosse perfetto per l’arena che aveva ideato.
Nathaniel iniziò a mozzare le teste dei manichini, facendole volare una per una in aria. Ionas contò quindici teste, compiaciuto.
Di certo se quei bersagli fossero stati vivi non avrebbero avuto alcuno scampo.
Era questo che gli strateghi amavano dei Favoriti: la loro inumana spietatezza. Quasi riuscivano a dare spettacolo anche solo restando fermi, con i loro corpi allenati e i visi curati e dall’espressione soddisfatta.
Non a caso, riuscivano sempre a guadagnare orde urlanti di sponsor.
Dopo appena soli cinque minuti di sessione, il ragazzo cambiò postazione, calpestando persino i manichini che erano caduti a terra, ai suoi piedi.
Lanciò un paio di coltelli, che andarono entrambi a segno.
Infine, prese una lancia e, distanziandosi dal bersaglio che si era prefissato, la lanciò, colpendolo in pieno petto.
Nate si volse verso la saletta degli strateghi. Fece loro un occhiolino, sorridendo, tanto che l’unica stratega donna – Sandra – annunciò subito di volergli assegnare il punteggio più alto.
Il tributo lasciò l’ambiente con orgoglio, tra modesti applausi soddisfatti.  
– Allora – disse Sandra, accavallando le gambe. – Per me merita 12, come la ragazzina di prima.
Paul, seduto accanto a lei, scosse la testa. – A Yaacov abbiamo dato 11 perché non ha fatto nulla di nuovo, ricordi? Perché dovremmo premiare lui?
La donna s’indispettì, ma non ribatté. Dopotutto il collega aveva ragione.
– Io dico 10 – fece il Capostratega, accarezzandosi il mento – gesto molto usuale per lui, d’altronde.
Il vociare della discussione s’interruppe.
– Stavo per dire la stessa cosa, Cicero – disse Ionas. – Purtroppo per lui, è venuto subito dopo Ibiza.
– Esattamente – assentì l’altro. – Segna 10.
Sia Sandra che Paul pensarono che fosse un’ingiustizia.
Ma, dopotutto, da quando gli strateghi erano giusti?

– Adesso è il turno di… – Ionas sfogliò velocemente il suo taccuino, – …Hydra Devine.
La ragazza, dopo soli pochi istanti, entrò con la sua solita espressione maliziosa.
Aveva le sopracciglia inarcate, in un vago gesto di superiorità.
Si guardò brevemente intorno, decidendo l’arma da scegliere, che fu la sua adorata cerbottana caricata con aghi intrisi in un potente veleno.
La prese con decisione, dopodiché, portandosela alle labbra, cominciò a correre in tondo.
In quel giro mortare – era talmente veloce che i suoi capelli rossicci si libravano nell’aria – lanciò gli aghi, che si abbatterono in massa su dei manichini in dotazione.
Molti di questi caddero per l’impatto, altri persero qualche arto.
Continuò per circa cinque minuti, del cui totale ne restavano altri dieci, finché, gettata la cerbottana in un angolino, si arrampicò su una parete, vicino alla saletta degli strateghi, che la osservavano ammirati.
La ragazza fece loro un occhiolino, poi saltò, rotolando sino ad un cespuglio anonimo, dove si nascose.
Gli strateghi non avevano assistito a tutta la scena, in quanto si erano voltati per fare qualche commento compiaciuto. Nel voltarsi nuovamente verso il tributo, però, furono stupiti di trovare il nulla.
Era scomparsa. Quasi si era dissolta.
Hydra non aveva calcolato che gli strateghi non si accorgessero del suo nascondiglio, quindi prese la palla al balzo, facendogli credere di essersene andata.
Cicero cercò in giro con lo sguardo. Non aveva sentito la porta chiudersi, quindi non se n’era andata. Ma dove diavolo…?
I restanti dieci minuti passarono velocemente, mentre i presenti si prodigavano per trovare la quindicenne tra gli attrezzi della grande sala.
– Dov’è finita? – chiese Paul stizzito. – Il tempo è scaduto!
Hydra, accovacciata sotto il cespuglio, sorrise nell’udire le parole degli strateghi. Aveva colto nel segno.
Ionas controllò l’orologio. – In effetti è vero – disse, avvicinandosi al microfono. – Hydra, i quindici minuti a tua disposizione sono scaduti. Sei pregata di uscire.
La ragazza pensò che fosse giunto il momento di mostrarsi.
Quando uscì proprio sotto i loro occhi con un balzo, la maggior parte degli strateghi si spaventò.
– Grazie per la vostra attenzione – fece, con gli occhi luminosi, dopodiché uscì lasciando a bocca aperta i presenti.
– Quella ragazza è sfacciata – disse Sandra alzando gli occhi al cielo. – Non saprei proprio che voto darle.
I suoi colleghi concordarono.
– Per la sua prova 11, ma per l’atteggiamento le diamo 10 –  concluse Cicero.
– Ma è lo stesso voto che abbiamo dato a Nathaniel, lei merita di meno! – protestò Sandra indignata.
Ionas scosse la testa e, quando la discussione si fu conclusa, segnò 10 sul suo taccuino.

Dopo pochi istanti, Jesse Chletter entrò nella sala con sguardo cupo. Si sarebbe giocato il tutto per tutto in quel momento, sotto il giudizio degli strateghi.
Avrebbe rappresentato il suo distretto e, non meno importante, affinato il già labile confine tra la vita e la morte.
Era pronto.
– Jesse Chletter, Distretto 3 – si annunciò, calcando il tono sul proprio luogo di provenienza. Sperò con tutto il cuore che quegli stolti si ricordassero di suo fratello Clay.
Vide Cicero Feestage incrociare le braccia, disposto a osservarlo, mentre i suoi colleghi si dedicavano ad altro. A loro importava solo dei distretti favoriti, d’altronde.
Sarebbe stato al gioco, non avrebbe dato soddisfazione a nessuno, menché meno a Capitol City.
Jesse non era un burattino. E neanche una pedina o un ornamento.
Jesse era libero, arrabbiato.
L’avrebbe dimostrato a tutti.
Iniziò una breve corsa intorno a dei manichini, che non sfiorò nemmeno. Mentre le sue gambe robuste si muovevano, veloci e resistenti, i suoi occhi fissavano l’arco posto in un angolo vicino a delle faretre piene di frecce. Lo desiderava, tanto da sentirsi prudere le mani, ma non l’avrebbe toccato neanche di striscio.
Dopotutto quella era la sua strategia: far credere di essere debole, quando invece non lo era affatto. Jesse ne era ben consapevole, e per questo avrebbe ingannato tutti, strateghi compresi. Nell’arena sarebbe diventato una bomba ad orologeria, pronta a scoppiare e provocare una potente esplosione.
Saltò qualche ostacolo con nonchalance, calibrando la forza dei suoi polpacci per non cadere.
Poi, dopo una decina di minuti, si diresse verso la zona delle piante, a destra.
Prese alcune foglie con cura, le sciacquò e le mangiò, anche se non avevano un bell’aspetto. Con Clay aveva imparato che quelle con l’aspetto più invitante erano da evitare perché decisamente letali.
Fece lo stesso accurato lavoro con delle radici grigiastre.
Prima che potessero annunciare la fine del tempo, Jesse salutò gli strateghi con un sarcastico – E’ stato un piacere –, abbandonando l’ambiente per uscire dalla stessa porta da cui era entrato.
Cicero scosse la testa e Ionas lo imitò.
– Non è stato un granché – decretò Sandra osservandosi le lunghe unghie laccate di rosso.
– Già. Non ha fatto niente di speciale – assentì il Capostratega.
– Mi aspettavo di meglio – aggiunse Ionas. – Il fisico ce l’ha… probabilmente non vuole un voto troppo alto per evitare l’attenzione dei Favoriti.
I pochi che lo stavano ascoltando annuirono all’unisono.
– Accontentiamolo, allora – fece Cicero accarezzandosi la barba del mento. – 4.

– Lyla Miltak –
chiamò Ionas leggendo il nome della ragazza sul suo taccuino.
Lyla entrò cercando di sembrare tranquilla, cosa che non era affatto. Aveva paura di sbagliare o di rovinare tutto il suo lavoro.
Aveva i lunghi capelli castano noce raccolti in una coda bassa, come al suo solito. Preferiva legarseli in quel modo quando non aveva un cappuccio sotto il quale nascondersi. Dopotutto le bastava tenerli ordinati e pace.
Non era vanitosa, quindi figurarsi se ci teneva a curare ossessivamente il proprio aspetto esteriore.
Senza indugiare, andò verso la postazione delle lance, dove ne prese una; immediatamente dopo si fiondò verso le componenti elettroniche.
Non voleva sprecare il tempo a sua disposizione, per cui cominciò a lavorare velocemente, muovendo le mani su piccoli oggetti in silicio dei quali probabilmente neanche gli strategh stessi conoscevano l’utilizzo.
In fondo lei veniva dal distretto della tecnologia, cos’altro avrebbe potuto fare se non modificare un’arma a proprio piacimento? Eppure li avrebbe stupiti.
Li avrebbe stupiti per quello che avrebbe fatto dopo.
La modifica della lancia impiegò la maggior parte del quarto d’ora che le era concesso, ma durante l’addestramento si era esercitata proprio per evitare sprechi di tempo inutili.
Dopo averla soppesata per un secondo e dopo aver tristemente notato che gli strateghi avevano smesso di guardarla già da un bel pezzo, camminò fino ad alcuni manichini vicini.
Non degnò loro neanche un po’ di attenzione, che li graffiò uno ad uno con la lancia. All’inizio non accadde niente, ma all’improvviso, quando mancavano giusto una manciata di secondi alla fine della prova, questi presero fuoco di botto, come se fossero stati incendiati dall’interno.
Le fiamme divamparono, alte, portando con sé della puzza di stoffa bruciata – ovvero quella che era la pelle dei bersagli.
Tutti i presenti, animati da una curiosità e uno stupore immensi, si voltarono di scatto verso l’incendio, ammirandone le direttive.
Li ho colpiti, pensò Lyla in quel momento con un sorriso gioioso e soddisfatto. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Ce l’ho fatta! Deak sarà contento!
– Il tempo è scaduto – disse Ionas dall’altoparlante, indicando a un paio di senza-voce di spegnere le fiamme con alcuni secchi d’acqua.
La ragazza fece un veloce inchino e uscì a testa alta, orgogliosa di se stessa, e con un ampio sorriso stampato sul volto.
Gli strateghi cominciarono a consultarsi.
– Ma prima di provocare l’incendio… – cominciò Sandra, – … cos’ha fatto?
– Ha modificato la lancia –
rispose l’aiuto-stratega. – Ho controllato io.
– Ah –
fece la donna. – Allora per me merita 7.
– Per me 8 –
disse Paul soddisfatto. – Molto meglio del suo compagno, quel Chletter.
– Già, almeno si è impegnata.
Cicero rimase a riflettere per qualche istante. – Segna 9, Ionas.
– 9?! –
esclamarono gli altri due in contemporanea.
– Esatto – replicò il Capostratega. – Credo che i Favoriti lo apprezzeranno – disse ironico. Il suo obiettivo risultò evidente a tutti, allora. Mettere la ragazza contro i Favoriti per dare più spettacolo. Nonostante il voto se lo meritasse appieno, gli strateghi le avrebbero dato la possibilità di utilizzarlo come un’arma a doppio taglio.
Proprio come la sua lancia.
– E 9 sia, allora – concluse Ionas.

E dopo il fuoco, venne l’acqua.
Il distretto 4, quello del mare e della pesca.
– Sennar Heeter – annunciò Ionas, sempre leggendo sul suo fidato taccuino.
Il ragazzo entrò con lo sguardo color del mare vacuo, spento. Fissava dritto un punto indefinibile dinanzi a sé, con i pugni chiusi.
Odiava essere osservato in quel modo, odiava dover sottostare agli ordini di Capitol City.
Odiava se stesso, in quel momento, perché avrebbe volentieri preso a calci tutto.
– Sono pronto – si disse, più a se stesso che agli strateghi che lo fissavano impazienti.
La prima cosa che toccò fu una rete grezza, come quelle che intrecciava ogni giorno al porto.
Passò una mano sulle corde che la componevano e poi cominciò il suo lavoro: la lavorò per circa dieci minuti, costruendo una trappola pericolosa e mortale.
Era un ablissimo intrecciatore, Sennar, glielo dicevano spesso anche i colleghi di suo padre. Sua sorella lo chiamava adorabilmente “una vecchio lupo di mare”, al che il ragazzo solitamente sorrideva alzando gli occhi al cielo.
Elle era diventata la sua unica ragione di vita. Sarebbe tornato a casa per lei, o l’avrebbe lasciata da sola. E, d’altronde, come avrebbe potuto un’undicenne procurarsi da vivere senza l’aiuto di nessuno?
Lui l’aveva fatto, certo, con le sue sole forze quando anche suo padre era morto, ma Elle era diversa. Aveva bisogno di qualcuno, o sarebbe diventata un essere brusco e taciturno come lui.
La ragazzina non meritava un simile destino.
Dopo aver costruito la rete, Sennar prese di peso un manichino qualsiasi e lo gettò con forza nella trappola, che si chiuse attorno ad esso come un bozzolo.
Poi si dotò di una lancia e, con una rabbia che neanche lui sapeva di possedere, iniziò a colpire furiosamente il bersagio catturato, frantumandogli l’addome e le gambe con la punta di ferro smussato.
La sua espressione era concentrata, ma lasciava trasparire tutta la collera verso il mondo in cui era cresciuto troppo in fretta.
Sennar era diventato un adulto ancor prima che lo diventasse un adolescente qualsiasi, e gli Hunger Games confermavano questa tesi.
Sennar era un ragazzo arrabbiato. Con chiunque, in quel momento.
Ma più di tutti con se stesso.
– Il tempo è scaduto – disse Ionas dall’altoparlante.
Il tributo si ridestò, osservando i brandelli del manichino ai suoi piedi. Non si volle domandare quale sarebbe stata la sua reazione se la vittima fosse stata una persona in carne ed ossa. Con un cenno del capo si congedò e uscì esattamente da dove era entrato.
– A me è piaciuto – disse Sandra una volta che il ragazzo se ne fu andato. – Ha dimostrato forza, rabbia e capacità. Io gli darei 10.
– Io 9 –
le fece eco Paul, con cui non di solito non si trovava d’accordo. – Bravo, sì, ma non come Yaacov o Nathaniel.
– Concordo –
disse Cicero sbrigativo, voglioso di andare avanti con le sessioni. – 9 è un buon voto, per lui.
Ionas, senza aggiungere obiezioni, segnò il voto sul taccuino.

Fu quindi il turno del tributo femminile.
– Samantha Blanchette – chiamò Ionas dall’altoparlante come con i tributi precedenti.
La ragazza, entrando, sbuffò sonoramente.
Aveva le mani nella tasca di un’ampia felpa verde che aveva sotituito a quella della tuta, inutile e incolore a suo parere.
In realtà non era sua, ma di Sennar, perché indumenti del genere non potevano trovarsi nell’armadio di una ragazza perbene a Capitol City. Le stava, quindi, molto larga. Però era il suo stile.
Non c’era voluto molto per convincere Sennar, ad ogni modo, che al suo – Heeter, mi presteresti una felpa? – aveva risposto con un cenno affermativo del capo e con una scrollata di spalle. – Prendi quello che ti pare, preferisco tenermi i miei vestiti – aveva detto.
Per Samantha quell’indumento era la cosa che la potesse far sentire più vicina a casa. Quasi immaginava la sua sorellina Greta che le correva incontro e cominciava a farle il solletico. Fece un sorriso amaro a questo pensiero.
Se non avesse vinto, l’incolumità della bambina sarebbe stata messa davvero a rischio da suo padre, che l’aveva obbligata a offrirsi.
La sua espressione cambiò di botto pensando a lui.
Quell’essere spregevole.
Poi scosse la testa, preferendo concentrarsi sulla prova, anche se non aveva alcuna voglia di compiacere quegli stupidi strateghi che la osservavano di sottecchi, mentre per intrattenersi mangiavano interi vassoi di pietanze prelibate.
Non aveva idea di cosa fare, in realtà. Dopo qualche minuto passato a gironzolare tra gli attrezzi della sala, si accorse infastidita che nessuno le stava più prestando attenzione.
Certo, non aveva neanche salutato e si era mostrata annoiata, ma ciò non significava che non avessero dovuto calcolarla minimamente.
Si bloccò, schiarendosi la voce per richiamare l’attenzione. Nessuno le rispose, se non il vociare fitto che permeava la saletta degli strateghi. Notò che era appena arrivata una fontana di cioccolato fondente, trasportata sulle spalle di due senza-voce.
Tossicchiò, ma nessuno parve intenzionato a guardare la sua prova, troppo preso dal dessert.
– Egregi signori – disse, marcando il suo tono sprezzante di cattivo sarcasmo. – Sareste così gentili da degnarmi un po’ di fottuta attenzione?
Le risposero nuovamente le chiacchiere futili degli strateghi.
Aguzzò lo sguardo verso un uomo alto e allampanato che sembrava ridere di lei sotto i baffi. Senza pensare a nulla che non fosse l’espressione beffarda di quello stratega, fece una breve corsa e con un balzo si arrampicò sul muro, arrivando sino alla saletta stessa.
I presenti si zittirono, nel vederla saltare addosso a Paul con un coltello di piccole dimensioni puntatogli nell’occhio.
– Che hai da ridere? – gli chiese con un soffio, la frangia albina che le copriva gli occhi accesi di rabbia.
– Sicurezza! – sbraitò l’uomo con i denti digrignati. Immediatamente due guardie robuste e forzute l’alzarono di peso e Samantha stavolta ritené prudente – per quanto le era possibile – evitare di reagire in modo sconsiderato.
– Che cosa avevi intenzione di fare, ragazzina? – gli chiese quello alla sua destra.
– Stava ridendo di me – disse, riferendosi allo stratega e strattonando lievemente il braccio, chiuso in una presa ferrea.
Quando la riportarono giù attraverso una scala di sicurezza e la lasciarono libera, Samantha si rese conto di essere stata congedata ma, prima che la potessero cacciare con la forza, afferrò una balestra e fece un tiro preciso vestro un bersaglio posto sulla parete opposta a lei.
La freccia gli centrò lo spazio in mezzo agli occhi.
– Tempo! – disse Ionas. La ragazza buttò la balestra in un angolo e uscì esattamente com’era entrata: con un sonoro sbuffo.
– Che disastro – fece Sandra con un sospiro. – Non merita neanche di essere valutata, quella ragazza.
– Invece io credo che con lei potremmo divertirci –
ribatté Cicero ridendo. – E’ impulsiva, mi piace. Nell’arena ci riserverà sicuramente tantissime sorprese.
Nessuno riusciva a proferire parola quando il Capostratega parlava in quel modo, assorto nei suoi pensieri ingegnosi.
– Ma ha tentato di uccidermi! – protestò lo stesso Paul, adirato.
– Ionas – disse Cicero ingnorando l’ultimo intervento del collega. – Segnale un bell’8.

– Julian More – chiamò Ionas.
Il ragazzo entrò dalla porta principale con sguardo determinato, nonostante fosse anche un po’ nervoso per la prova imminente.
Fece un respriro profondo prima di cominciare.
Il suo cuore batteva lento e quasi ne riusciva a percepire ogni battito, vista l’agitazione.
Chiuse gli occhi verd’azzurri e li riaprì.
Deciso, andò verso la postazione delle spade, scegliendo quella più adatta alla sua altezza e più simile a quelle che usava di solito durante il suo allenamento privato.
Prima di uccidere qualche manichino, però, fece una cosa alquanto insolita che incuriosì gli strateghi dapprima annoiati o impegnati in conversazioni futili tra colleghi.
Sparse sulla lama della benzina e con un accendino dato in dotazione la incendiò, lasciando libera l’impugnatura per non scottarsi, nonostante il calore del fuoco sul ferro gli facesse comunque sudare copiosamente le mani che tenevano salda la presa.
– Che sta facendo? – domandò Paul stupefatto, affacciandosi dalla saletta per vedere meglio.
Julian, concentrato, si diresse verso le sue prossime vittime: i manichini.
Con la sua spada infuocata ne decapitò uno, ma poiché aveva calibrato la forza per far sì che non prendesse fuoco, il corpo cadde a terra senza essere in fiamme.
Ci furono mormorii di incredulità.
Il tributo del 5 decapitò con la stessa, terribile e misteriosa tecnica altri nove manichini, arrivando ad un totale di dieci teste tagliate finite sul pavimento, poco lontane dai suoi piedi.
Soddisfatto, il ragazzo spense le lama della spada immergendola in un catino d’acqua.
Qualche scintilla gli aveva scottato le dita, ma a parte quello, tutti erano usciti indenni dalle fiamme.
C’è ancora altro tempo, pensò Julian guardandosi intorno. Un’idea lo colse all’improvviso: poteva ancora dimostrare qualcosa.
Un altro manichino isolato aveva catturato la sua attenzione. Si scricchiolò le dita e preparò i muscoli. Se non ci fosse riuscito probabilmente avrebbe calato l’interesse nei suoi confronti da parte degli strateghi; stava rischiando grosso.
Posso farcela, si disse per farsi forza. A Julian non mancava mai.
Afferrò il busto del manichino da dietro e gli staccò le braccia, poi si dedicò alla testa che finì sul pavimento esattamente come le altre. Stava usando solamente la forza nelle sue mani, il che colpì molto gli stratehghi, che avevano rinunciato ad ogni pietanza che i senza-voce stavano servendo per godersi lo spettacolo.
Le gambe del manichino, esattamente come gli altri arti, furono smembrate con egual vigore.
Julian ebbe il tempo di ansimare giusto un secondo prima che Ionas annunciasse lo scadere del tempo.
Uscì dalla sala con orgoglio.
Un altro passo in più per tornare a casa da Lucy.
– Che voto gli diamo? – domandò Cicero ai suoi colleghi. Stranamente, era la prima volta che lo chiedeva. Dopotutto era lui che prendeva le decisioni e non sempre aveva bisogno di sentire il parere degli altri, che fosse rilevante o meno non aveva importanza.
Qualcuno tentennò. – Secondo me 9 – propose Arian, un uomo sulla trentina dai capelli verdi e ondulati. – Se lo merita.
– Concordo –
assentì Paul. – Come alla ragazza del 3.
– Per me anche 10 –
disse Sandra, accavallando le gambe. – I ragazzi di quest’edizione sono incredibilmente affascinanti.
Arian alzò gli occhi al cielo. Nessuno lo sapeva, ma quella era solo una facciata: Arian era segretamente innamorato di Sandra, la bella donna dai capelli rossi come le fiamme.
– Io mi terrei più basso, Cicero – fece Ionas. – Non voglio che i distretti non favoriti si illudano di poter ottenere tutto ciò che vogliono.
– E’ quello che stavo pensando anch’io –
dichiarò il Capostratega. – Mi anticipi sempre, Ionas. Ricordami che devo offrirti da bere.
L’altro sorrise. – Sarà un piacere.
– Comunque, segna 8.
Qualcuno alle sue spalle brontolò. – Non ascolta mai quello che diciamo noi.
– Silenzio! –
esclamò Cicero, vagamente irritato. – Non mi rimangio mai la parola. Ionas, chiama il prossimo tributo.

Il Distretto 5 aveva ancora un altro asso nella manica da giocare.
– Skye Rothenberg – annunciò l’aiuto-stratega leggendo sul taccuino.
La bella ragazza dai boccoli bruni e il viso armonioso si presentò con un sorriso apparentemente benevolo e colmo di sicurezza.
– Buonasera – salutò cordialmente con un cenno della testa.
– Prego – le disse Ionas, indicando l’intera sala con un gesto eloquente della mano.
Skye inspirò: era pronta.
Prese velocemente una balestra. Aveva il tempo contato, non poteva prendersi attimi di relax.
Incoccò un dardo e, dopo aver preso la mira, centrò un bersaglio al cuore da venti metri di distanza.
Ripetè l’operazione altre due volte, con il risultato di altri due centri perfetti.
Dalle sue labbra fiorì un piccolo e soddisfatto sorriso.
Era indecisa se tentare un tiro con i coltelli o meno. Ci rimuginò su giusto un attimo, poi scelse di rischiare.
Si diresse verso la postazione, prendendo una lama e mirando alla parete opposta, verso un bersaglio di modeste dimensioni.
Qualcosa all’ultimo secondo però la distrasse. Dalla saletta degli strateghi intravide un ragazzino sciupato e mingherlino – probabilmente un giovane senza-voce – che somigliava incredibilmente a suo fratello Tyler.
Tyler…
Purtroppo per lei, non si rese conto di aver già tirato. Il bersaglio fu colpito solo di striscio.
Skye perse un battito, sia per il centro decisamente mancato, sia per quel bambino che l’aveva riportata bruscamente tra le calde mura di casa.
Un brivido la scosse da capo a piedi. Non sapeva se avrebbe mai rivisto suo fratello.
Non sapeva se l’avrebbe abbracciato ancora o coccolato davanti al camino durante le fredde serate di gennaio, se l’avrebbe ancora sentito ridere e raccontarle qualche sciocca barzelletta.
Skye evitò di pensarci. Per lei Tyler era tutto, ma in quel momento doveva concentrarsi o le possibilità di rincontrarlo si sarebbero ridotte ancora più drasticamente.
Poteva dimostrare ancora dell’altro.
Era agile, veloce, sinuosa. Dopo quell’istante di tentennamento, decise di rischiare il tutto per tutto.
Con una breve corsa andò nella direzione della parete d’arrampicata. Senza esitazioni scalò abilmente la zona apposita, dimostrando in parti eguali grazia e agilità.
Mentre scendeva con alcuni balzi eleganti, riflettè se era il caso di costruire o no una delle sue trappole meccaniche.
Preferì tenerselo per l’arena, avrebbe avuto un vantaggio su chi non se lo aspettava.
Inoltre, era scaduto il tempo.
– Grazie per l’attenzione – disse agli strateghi, voltando i tacchi e maledicendosi silenziosamente per il tiro andato a male.
Non tutti i presenti, comunque, erano rimasti a guardare la ragazza dopo la falla nella prova. Gli unici che avevano continuato a osservare la sessione erano stati Cicero, Ionas e Arian.
– Che ne pensate? –  domandò il Capostratega ai due colleghi.
– Non male… ma neanche bene –  fece Arian, sorseggiando la sua coppa di liquore.
– In termini di voti?
– 7 sarebbe appropriato –
disse Ionas.
– Precisamente – concordò l’altro. – Discreto.
– Se quel coltello avesse centrato il bersaglio avrebbe potuto prendere anche un 8… –
continuò Cicero riflettendo.
– Un voto alto solo per omaggiare la sua bellezza! – gridò Paul ridendo, seduto con altri colleghi. Probabilmente si erano ubriacati durante la prova.
E siamo solo al Distretto 5, pensò Ionas contrariato scuotendo la testa. Tributi o meno, il banchetto sarebbe continuato a lungo, anche dopo l’orario di chiusura del Centro.
Sandra arricciò le labbra. – Non è mica un granché… io l’ho trovata scialba.
La discussione si prolungò per qualche altro minuto.
– Allora? – domandò l’aiuto-stratega, con la penna pronta in mano. – Segno 7?
– Vada per 7, non abbiamo concluso niente di meglio.
Il voto fu segnato sul taccuino accanto al nome di Skye.  

Il Distretto 6 aprì le danze con il tributo maschile qualche minuto dopo.
– Adam Lawrence – annunciò Ionas autoritario.
Adam entrò con passo svelto. Desiderava togliersi quel peso il più in fretta possibile. Non era rilassato all’idea che una quindicina di strateghi l’avrebbero dovuto presto giudicare.
Nella sua vita aveva conosciuto molte persone che l’adulavano solo per il suo elegante aspetto fisico, che lo omaggiavano o si complimentavano per questioni futili.
Lui odiava questo tipo di gente. Odiava i falsi, gli impostori e gli ipocriti.
Durante l’adolescenza aveva creduto che nessuno lo apprezzasse realmente per ciò che era, eccetto la sua famiglia. Poi però aveva imparato a conoscere meglio Marcus, il suo migliore amico, e poi aveva incontrato Nike e Klaus, i figli di un ex-vincitore del suo distretto. Loro erano riusciti ad andare al di là dell’apparenza e lui li adorava per questo. Non sapeva cosa avrebbe fatto senza di loro.
Rincuorato vagamente dal pensiero dei suoi amici, si fiondò deciso verso la postazione delle lance.
Durante l’allenamento aveva imparato ad utilizzarle davvero bene.
Si posizionò a qualche metro di distanza da alcuni manichini. Tirò tre lance, perforando il torace a tre bersagli.
La punta smussata li aveva trapassati da parte a parte, nonostante non li avesse presi in pieno.
Non ancora soddisfatto, Adam si procurò qualche coltello e, a due alla volta, li lanciò nel cranio delle vittime, che per l’impatto stramazzarono al suolo, come se avessero avuto vita propria.
Il ragazzo si concesse solo un veloce sorriso prima di continuare la prova. C’erano ancora cinque minuti a disposizione.
Si alzò le maniche e si scricchiolò le dita e, con la sola forza delle braccia, spaccò il collo ai manichini che, se fossero stati umani, si sarebbero spenti velocemente con qualche gemito terrorizzato.
Adam non ci volle pensare: non sapeva come si sarebbe sentito ad uccidere, se avrebbe provato rimorso o disgusto verso se stesso o se avrebbe trovato nel sangue la sua pace.
Quel pensiero lo terrorizzò, per cui preferì congedarsi con uno sbrigativo cenno del capo. Si sarebbe tenuto le sue trappole magnetiche come asso nella manica.
Uscì sospirando.
Mancava poco all’inzio dei giochi veri e propri.
– Altro ragazzo affascinante – commentò Sandra versandosi del liquore, seguita a ruota da altri due colleghi. – Merita lo stesso voto di quello di prima.
– Quello di prima aveva un nome, Sandra –
sbuffò Arian passandosi una mano nei capelli.
– Non importa – ribatté la donna velocemente.
– Beh, effettivamente ha fatto una buona prova – disse Ionas, rivolgendosi direttamente a Cicero che si stava servendo il dessert.
– Sono d’accordo, merita 8 anche lui – assentì il Capostratega. – Oggi mi sento benevolo, ma dal prossimo tributo vediamo di non calcare troppo la mano.
Ionas non replicò, limitandosi a segnare il voto sul taccuino.

– Bleika Vidal – chiamò l’aiuto-stratega attraverso l’interfono.
Il tributo femminile del Distretto 6 entrò qualche istante dopo, concentrata.
Bleika si guardò intorno curiosa. Quell’ambiente era simile al Centro in cui aveva trascorso il tempo negli ultimi tre giorni e per qualche assurdo motivo le risultò familiare.
Ormai aveva imparato a riconoscere ogni suono e ogni profumo di quel luogo, quasi ne era rimasta colpita.
Prima di cominciare, si sciolse la lunga treccia che le aveva fatto la sua accompagnatrice, Gryhll, dicendole che le donava. Adorava quella pettinatura, ma in quel momento aveva bisogno del suo portafortuna, il nastrino di raso color del cielo – esattemente lo stesso dei suoi occhi – per allacciarlo attorno al polso.
Per qualche strana ragione le conferiva sicurezza, la faceva sentire vicina a casa sua, vicina a suo fratello Jilium, vicina ai suoi amici.
L’aveva trovato anni addietro, quando aveva solo cinque anni, sui binari del treno. Appena l’aveva visto se n’era innamorata e non aveva esitato un solo minuto per raccoglierlo. Si fiondò sulle rotaie senza pensarci, proprio quando da lontano si sentiva il fischio del treno in corsa. Solo il pronto intervento di suo fratello la salvò da una morte atroce. Quando risalì illesa sulla piattaforma, aveva quel delicato nastro azzurro tra le mani.
Da allora non se n’era più separata.
Legato il nastrino attorno al polso, quindi, fece un respiro profondo e fu pronta per cominciare la sessione.
La prima cosa che fece fu allineare ben dieci manichini uno accanto all’altro, proprio di fronte a lei, dopodiché si allontanò velocemente sino alla postazione degli archi, dove ne afferrò uno.
Lo impugnò saldamente e, dopo essersi procurata una faretra con esattamente dieci frecce, si mise in posizione.
Calcolò la distanza, incoccò la prima freccia, prese la mira e inspirò. Poi scoccò.
Centro perfetto.
Bleika aspettò prima di cantar vittoria. Contò fino a tre e incoccò una nuova freccia.
Altro manichino, altro centro.
La freccia si era conficcata proprio tra gli occhi.
Terzo tiro, disse tra sé. Uno… due… tre.
Un altro bersaglio era stato centrato in pieno. E anche il successivo, e quello dopo ancora.
Alla fine, tutti e dieci i manichini erano stati colpiti con un centro perfetto.
La ragazza sorrise, ma non aveva ancora terminato la sua prova.
Piena di adrenalina, posò l’arco sul pavimento e iniziò a correre per la sala, con i lunghi capelli scuri che le fluttuavano dietro.
Bleika era un fulmine, più di chiunque altro e correre era la sua passione, non avrebbe mai fallito proprio in quel campo.
Mantenendo la velocità costante, iniziò a saltare degli ostacoli, finché Ionas non chiamò il tempo.
La ragazza terminò l’ultimo salto con una veloce capriola.
– Arrivederci! – salutò con il fiatone, allegra. Ci aveva messo tutta se stessa e sperò con tutto il cuore che l’avrebbero premiata per quello.
Purtroppo per lei, però, gli strateghi avevano preferito fare ben altro, piuttosto che guardare la sua sessione. C’era chi si era ubriacato, chi aveva continuato a mangiare come se niente fosse, e chi ancora era uscito dalla sala per andare alla toilette.
Ionas era stato l’unico a rimanere concentrato e non si era fatto distrarre da nessuno.
– Allora, Ionas, com’è andata la ragazzina? – chiese Cicero già un po’ più brillo, mettendogli una mano sulla spalla.
– Bene – rispose, indicandogli i manichini trafitti dalle frecce. – Molto bene. Se posso permettermi, le darei un 9.
– 9?! –
domandò retoricamente il Capostratega ridendo, come se fosse una cosa assurda e fuori dal mondo. – Non esageriamo. Assegnale un 7 più che generoso.
– Come vuoi, Cicero –
replicò Ionas leggermente contrariato. Non osava mai contraddire il suo superiore, ma detestava arrivare a quel punto delle sessioni, dove tutti se ne infischiavano dei tributi.
Ora, anche per lui, arrivava la parte più difficile.
E 7 sia, si disse con un sospiro.
  
– E’ il turno di… – controllò Ionas. – Josh Gilmour.
Il ragazzo entrò con le mani in tasca, mentre cercava di concentrarsi. Ormai doveva mettersi in gioco, e tanto valeva la pena giocare, secondo lui. Aveva, comunque, ideato una strategia per non farsi prendere di mira dai Favoriti.
Non importava il fatto che con un voto basso avrebbe abbassato il numero dei possibili sponsor, si sarebbe rifatto durante l’intervista.
Certo, chiacchierare tranquillamente con qualcuno non era il suo forte, ma ci avrebbe provato. Non si sarebbe di sicuro arreso al primo ostacolo.
Josh odiava gli Hunger Games e, consecutivamente, odiava Capitol City, ma per salvare la propria pelle sarebbe dovuto scendere a compromessi: avrebbe dovuto stare al gioco, compiacerli e far credere loro di avere il coltello dalla parte del manico.
Non che fosse il contrario, comunque.
Per quanto duro fosse ammetterlo, Josh era solo una misera pedina.
Giochi o meno, era sotto il controllo della capitale, ne era ben consapevole.
Però, per quanto gli era possibile, avrebbe messo loro i bastoni tra le ruote, perché non era di certo uno stupido.
Con calma glaciale si posizionò accanto ad alcuni aggeggi elettronici e iniziò ad armeggiarli, senza neanche conoscere il loro vero utilizzo. Dopotutto il suo obiettivo era prendere un voto scarso.
Fabbricò una sottospecie di arma-trappola. Due casse piene di cavi separate da un lungo filo di rame.
Premette un pulsante. Non accadde nulla.
Quando però venne a contatto con la gamba di un manichino, l’aggeggio esplose, riempiendo di fuliggine il viso di Josh, che per poco non si mise a ridere.
Sembrava la scena di un film comico dell’era precedente a Panem.
Finse di essere mortificato e, passandosi una mano sul volto per pulirsi, salutò con la mano gli strateghi in un gesto ironico. Si accorse persino che quasi nessuno l’aveva guardato.
Ancora meglio, si disse uscendo dalla sala soddisfatto.
Ionas stava aspettando che Cicero gli rivelasse il voto adatto al tributo, ma il Capostratega stava bevendo allegramente con Jack e Hack, i due colleghi gemelli propensi all’acool.
– Cicero? – lo chiamò ugualmente, voglioso di passare al prossimo tributo. – Che voto devo mettere a Gilmour?
– Cosa? –
domandò di rimando l’altro, come se fosse stato svegliato bruscamente da un bellissimo sogno. – Ah, sì… Non lo so. 4 o 5, decidi tu.
Ionas scosse la testa. 4 o 5?
Ci riflettè un istante, poi decise di premiare il ragazzo e di non renderlo particolarmente svantaggiato.
Segnò 5 sul taccuino e si apprestò a chiamare il tributo femminile del Distretto 7.

– Luna Woodey – disse tramite interfono.
La ragazzina entrò in sala avvolta in una grande sciarpa colorata come l’arcobaleno. Era una delle poche cose che aveva portato da casa, insieme alle scarpette nere regalatele dalla nonna e un blocco da disegno.
Non le piacevano molto gli abiti che le avevano messo a disposizione; erano tutti troppo appariscenti o eccentrici.
Lei si sentiva bene solo con i suoi vestiti. Davvero non sapeva come avrebbe fatto senza, nell’arena. Non si sarebbe sentita protetta o a casa neanche per un istante.
Quell’aspetto dei giochi era quello che le faceva più paura: se non ti senti a casa ti senti perduto e non riesci più ad orientarti.
Fece un giro per la sala, fischiettando una vecchia canzoncina che era solita cantare con Charlie nei boschi.
La tranquillizzava pensare a lui; dopotutto era l’unico amico che aveva.
Alzò lo sguardo verso la saletta degli strateghi, da cui proveniva un intenso vociare, probabilmente non diretto a lei.
Si sentivano risate, brindisi e quant’altro.
Forse si stanno divertendo, pensò facendo spallucce. Avrebbe voluto essere felice come loro in quel momento, ma non ci riusciva.
Si appollaiò su un finto tronco d’albero poco lontano, con le gambe incrociate e il mento appoggiato su una mano.
Continuò a canticchiare e a osservare gli strateghi, curiosa.
C’era un grande tavolo al centro della saletta, ricolmo di ogni pietanza, molte delle quali aveva avuto modo di vedere e assaggiare per la prima volta durante quei giorni di permanenza nella capitale.
Attorno al tavolo, tre uomini ridevano di alcune battute e continuavano a fare brindisi per ogni sciocchezza. Sentì persino un – Alla fantastica arena di quest’anno! – e un – Al nostro Capostratega!
Nulla comunque che riguardasse i tributi.
Poco più in là c’era un uomo che beveva in disparte, alto e allampananto con degli occhiali rotondi che quasi gli pendevano dal naso adunco. Sembrava divertirsi lo stesso comunque, nelle spire dell’alcool.
Alla sua destra un avvenente uomo dai capelli verde smeraldo ondulati stava battibeccando con una bellissima donna dai capelli color delle fiamme. Sembravano due fidanzati che amavano bisticciare.
L’amore non è bello se non è litigarello, pensò con un sorriso, ricordandosi di quello che le diceva sua nonna da piccola a proposito di suo nonno. Lui era un po’ burbero, lei molto dolce, ma si amavano davvero tanto.
Luna sperava di diventare come sua nonna, un giorno. Felice.
Ancora più in disparte c’era un uomo non troppo eccentrico, con un taccuino in mano e una penna. Era l’unico che sembrava prestarle attenzione.
La osservava intedetto, domandandosi forse perché non stesse facendo nulla.
Luna non aveva una risposta. Osservare – e capire – le persone era la cosa che sapeva fare meglio, dopotutto.
Di quell’uomo, capì che era profondamente infelice. Non sapeva perché, ma c’era qualcosa nel suo sguardo di… rimpianto.
– Tempo – chiamò questi, controllando l’orologio. I quindici minuti erano scaduti.
Luna scese dal tronco con un piccolo balzo e si arrotolò ancora di più la sciarpa attorno al collo.
Uscì dalla sala saltellando.
Ionas non sapeva cosa pensare di quella ragazzina. Era strana, ma con i suoi occhi verdi e grandi era riuscito a guardare dentro di lui. Le ricordava un po’ sua figlia, Lahri.
Lahri non c’era più e forse molto presto non ci sarebbe stata più neanche Luna.
Gli si strinse il cuore a quel pensiero, ma per prassi doveva sottomettersi al giudizio di Cicero.
– Bah… se non ha fatto nulla di speciale tutto quello che si merita è un 2.
Ionas non voleva metterle quel terribile voto, ma fu costretto con grande risentimento a segnarlo sul taccuino.
Scusami, ragazzina.

Fu quindi il turno del Distretto 8.
Ionas, prima di chiamare il nome del tributo, inspirò profondamente. Non voleva ripetere affatto la scena precedente.
– Everett Hughes.
Everett non voleva darlo a vedere, ma era abbastanza nervoso. La sessione gli aveva messo una strana ansia addosso.
Sentiva come se stesse ripercorrendo esattamente gli stessi, identici passi di suo padre.
Lui però aveva vinto. Non aveva mai voluto dirgli come, ma aveva vinto.
Everett non ne era sicuro, ma sospettava che Lowell avesse qualche segreto che non aveva mai voluto rivelargli.
Sua madre una volta, quando era molto piccolo, prima di morire si era fatta sfuggire che prima di vincere suo padre aveva ucciso un dodicenne.
Forse era per quello che, prima di conoscerla, aveva sperperato tutto il denaro vinto in cose futili, per sotterrare il dolore e il rimorso.
Quando erano rimasti soli, Everett era stato costretto ad andare a lavorare in fabbrica, perché suo padre, disperato, non era più in ottime forze.
Era diventato un adulto a soli quattordici anni, quando un comune adolescente dovrebbe essere nel pieno della spensieratezza.
Per fortuna, però, aveva incontrato delle persone capaci di comprenderlo: Alisha e Blaze. Senza di loro le sue giornate sarebbero state completamente vuote, monotone, incolori.
Dopotutto c’era un motivo se erano i suoi migliori amici.
Con un sorriso se li immaginò mentre facevano il tifo per lui, il che gli diede la forza per affrontare quest’ennesima prova.
Sono pronto, si disse, avviandosi verso la postazione che aveva imparato a considerare come quella più familiare: gli aghi.
Durante le giornate di allenamento con suo padre aveva imparato a utilizzarli alla perfezione, in qualsiasi modo gli fosse possibile. Erano la sua arma.
Prima di lanciarne qualcuno verso un manichino a qualche metro di distanza, sollevò il viso in direzione degli strateghi.
L’unico che lo stava osservando era l’uomo che l’aveva chiamato per interfono. Degli altri si sentivano soltanto le fitte chiacchiere.
Everett ripose tutte le sue speranze in quello stratega. Non sapeva perché, ma gli ispirava fiducia.
Prese cinque aghi per mano. Fece un respiro e con uno scatto li lanciò tutti e dieci verso il manichino, a cui perforarono il petto violentemente.
Non ancora soddisfatto, decise di mostrare un’altra sua specialità: la mimetizzazione.
Anche quella l’aveva imparata con suo padre.
Nella postazione apposita, cominciò a coprirsi di terriccio ed erbe varie, fino ad assomigliare ad un cespuglio rado. Quando si unì ad altri cespugli, il risultato sembrò perfetto.
– Tempo scaduto – dichiarò Ionas, al che Everett abbandonò la sala abbastanza  contento.
– Cicero, che te n’è parso? – domandò quindi l’aiuto-stratega con dell’ironia velata. Era chiaro che il Capostratega non avesse seguito neanche un minuto della sessione.
– Dagli la sufficienza, ne ho già abbastanza di questi tributi… ci serve altro liquore! – E qui Jack e Hack cominciarono a ridacchiare, brilli come non mai.
A dir poco esasperato, Ionas segnò un 6 accanto al nome di Everett.

– Makaira Win – fu il successivo nome.
Makaira sentiva l’adrenalina scorrere nel suo corpo. Era pronta, pronta come non mai.
E, non di meno, non vedeva l’ora di entrare nell’arena.
Il destino le stava dando l’opportunità di vendicare sua sorella Camilla, morta tra gli ultimi quattro due anni prima in uno stupido incidente.
Makaira odiava i terremoti, da quel giorno, e odiava gli strateghi che l’avevano provocato. Erando subdoli, meschini e senza scrupoli.
Difficilmente sarebbe riuscita a digerire uno dei suoi giudici, ma era costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
Poteva tenere la sua furia da parte, almeno per compiacere gli sponsor.
Aveva sentito dire dalla sua accompagnatrice, Ilyan, che orde di capitolini stavano già facendo le file giorno e notte dinanzi alle sale per le scommesse, affamati di Hunger Games.
Gli daremo tutto ciò che vogliono, pensò serena ma spietata.
Senza riflettere un altro secondo, si fiondò sulla postazione dei coltelli. C’erano centinaia di lame: seghettate, corte, affilate, lunghe, flessibili, dal manico intagliato…
Davvero non seppe quale scegliere. I coltelli erano i suoi migliori amici e per un attimo rimase quasi incantata dalla vastità dei modelli.
Ne prese un paio a caso, visto che la scelta era decisamente ampia. Se li caricò in una cintura apposita, insieme ad altri di diverso genere. I suoi preferiti erano quelli ricurvi.
Iniziò a correre per la sala, lanciandone in giro due alla volta. Molti centravano i bersagli, altri le pareti o i tronchi degli alberi.
Makaira era una belva, non sembrava neanche lei, quando maneggiava i coltelli.
Per tutta la sua prova lanciò quelle lame, in corsa, finché alla fine non ebbe il fiatone.
Era soddisfatta, ad ogni modo. Il distretto sarebbe stato fiero di lei se avesse preso un punteggio alto, nonostante nessuno dei suoi concittadini l’avesse mai apprezzata.
Esattamente come Camilla, l’avrebbero considerata “una favorita nata nel distretto sbagliato”. E lo era, lo era davvero.
Quasi sentì bruciare come un marchio il tatuaggio che aveva sulla spalla.
Oh, sì, sarò una spietata favorita, si disse. E vincerò, per vendicare mia sorella.
Alzò lo sguardo color della pece sugli strateghi. Per un attimo la sua sicurezza vacillò.
Nessuno l’aveva osservata, eccetto l’uomo che l’aveva chiamata per interfono.
Lo fissò negli occhi e questi ne fu quasi spaventato.
Con gli occhi quasi lo minacciò di morte se non le avesse messo un voto decente.
Lanciò un ultimo coltello verso un quadro della saletta, ma nessuno ci fece caso, continuando a ridere e a bere.
– Tempo – disse Ionas quasi timoroso.
Makaira grugnì e buttò la cintura dei coltelli a terra, mentre si allontanò quasi calpestando il pavimento.
Ionas si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Quella ragazzina era inquietante, l’aveva sempre pensato. Troppo strana per appartenere al Distretto 8.
Ricordava vagamente la storia di sua sorella e poté intuire che tutto il suo odio era stato coltivato per vendicarla. Magari prima di veder morire la persona per lei più importante al mondo era diversa, timida e silenziosa.
– Che voto le metto? – chiese ai colleghi, ma nessuno gli rispose.
Tossicchiò, ma il risultato fu uguale.
– Che voto le metto? – ripeté, stizzito.
Solo Arian lo calcolò, stavolta, distogliendosi per un attimo dalla discussione accesa con Sandra. – 6, come al suo compagno.
– E perché? –
domandò.
– Mettiglielo e basta, Lightwood! – sbraitò Sandra, prima di prendere il viso di Arian tra le mani e baciarlo con passione.
L’altro, sbalordito, sembrò la persona più felice del mondo.
Ionas si mise una mano sul volto. Mancavano ancora quattro distretti.
Con risentimento – lo sguardo di Makaira gli aveva davvero fatto paura – segnò 6 sul taccuino.

Il Distretto 9 fu annunciato con il tributo maschile.
– Alec Lewis.
Il ragazzo che entrò in sala aveva decisamente un fisico ben piazzato, con spalle larghe e petto ampio, braccia possenti e gambe muscolose di chi corre o cammina tutto il giorno per i campi di grano.
Alec era in combutta con se stesso: aveva paura, ma era anche carico, pronto.
Detestava quella situazione, ma non aveva altra scelta che combattere fino alla fine.
Se Greg fosse stato al suo posto, probabilmente sarebbe stato spacciato sin dall’inizio. L’unico luogo in cui sarebbe stato avvantaggiato era il palco delle interviste. A differenza sua, Greg aveva un’ottima parlantina e riusciva ad addolcire chiunque, anche senza fare per forza riferimento alla sua sedia a rotelle.
Alec ricordava ancora come la malattia si era portato via le sue gambe, all’inizio scattanti e robuste come le proprie.
Quando erano ancora bambini, amavano giocare con alcuni coetanei a guardia e ladri sulle colline, durante le pause mattutine. Il sole li riscaldava, il vento quasi li faceva volare.
Correvano come matti sino a rotolare sull’erba e scoppiare a ridere. Erano stati probabilmente i momenti più belli della loro vita, perché poi tutto era degenerato.
Erano rimasti migliori amici, ma i doveri della vita se li erano portati verso l’età adulta ancor prima che se ne accorgessero.
Alec, oltre a lavorare ogni giorno nei campi, voleva diventare un medico.
Sogno impossibile, gli dicevano in molti, sua madre compresa, che era una semplice erborista. Quel mestiera era il massimo a cui poteva aspirare un ragazzo come lui, residiente in uno dei distretti più poveri.
Aiutare le persone lo faceva sentire bene, in qualsiasi caso, e lo faceva senza neanche chiedere favori o per sentirsi adulare.
Pensava che in qualche modo era un metodo per contrastare la supremazia di Capitol City. Alec medicava le persone frustate dai Pacificatori, curava i bambini con il raffreddore, aiutava gli anziani che non riuscivano ad attraversare la strada. Senza secondi fini.
Aveva imparato molto, e tutto da solo, soprattutto grazie all’eperienza.
In giro lo chiamavano “il medico del grano”, appellativo che si era conquistato con orgoglio.
Dopo aver riflettuto su cosa potesse fare alla sessione, aveva deciso di dedicarsi alle falci, che normalmente utilizzava ogni giorno per falciare il grano.
Dimostrare le sue abilità curative non sarebbe servito a molto e poi preferiva rischiare, almeno in quel frangente. Di solito non era una persona precipitosa, impulsiva o fiera. Semplicemente faceva tutto quello che doveva fare.
Prese una falce dalla postazione, impugnandola saldamente.
Si avvicinò ad alcuni manichini inermi. E, mirando alle loro teste, cominciò a tranciarle una ad una, con colpi secchi e precisi che recidevano il capo dal resto del corpo violentemente.
Ionas, rassegnatosi ormai all’idea di essere il solo a seguire le ultime sessioni, contò diciassette teste.
Alec, alla fine dei quindici minuti, ansimava, ma era abbastanza soddisfatto.
– Tempo scaduto – disse lo stratega, guardando l’orologio da polso.
Il ragazzo lo salutò educatamente e uscì con un mesto sorriso.
A nulla valsero i tentativi di Ionas per smuovere gli altri colleghi dai loro intenti e convincerli ad aiutarlo.
– Cicero, questo tributo ha falciato le teste di diciassette manichini – disse all’ubriaco Capostratega che, nonostante fosse più che brillo, continuava a ingurgiatre bicchieri di liquore.
Cicero gli rispose con una risata. – Che bravo ragazzo! – esclamò gioviale. – 8! Un 8 è più che assicurato – E poi continuò a chiacchierare con Jack e Hack.
Ionas, felice che quel ragazzo fosse stato risparmiato dalla furia dei voti bassi, segnò 8 accanto al suo nome sul taccuino.

– Lorelei Uk – chiamò Ionas. Gli pareva che fosse l’unica dodicenne in gara quell’anno.
La ragazzina dai capelli color del grano entrò titubante nella sala, ma comunque con sguardo determinato.
Era vogliosa di mettersi in gioco, ma anche abbastanza nervosa.
Aveva deciso la sua strategia in precedenza: si sarebbe mimetizzata in modo discreto, per non ottenere un voto altissimo. Così tutti l’avrebbero creduta più ingenua del dovuto.
Grosso errore, pensò con un sorriso. Non si sottovalutano mai le persone. Persino i tuoi più grandi amici potrebbero tradirti quando meno te lo aspetti.
Lorelei l’aveva testato sulla sua pelle, quando suo padre, dopo averla selvaggiamente picchiata, se n’era andato.
Suo padre, Stan, l’uomo che sarebbe dovuto starle accanto per sempre.
Ogni volta che gli rivolgeva il pensiero, le prudevano le mani dalla rabbia. Avrebbe voluto ucciderlo, tant’era grande l’odio che provava.
Lorelei non era più una bambina; forse non lo era mai stata. Era stata privata della sua innocenza molto tempo addietro, ancor prima che si potesse rendere davvero conto quanto crudele fosse il mondo.
Era arrabbiata con tutti, certo, e sembrava che l’odio fosse l’unico sentimento che riuscisse a provare senza autodistruggersi. Eppure, il suo cuoricino raggrinzito era triste.
Lorelei non piangeva mai. Non l’aveva più fatto, dopo che Stan era scappato.
Il suo animo, però, piangeva per lei. Perché era tutto troppo, dannatamente difficile.
Era difficile guardare sua madre singhiozzare ogni sera accanto al camino; era difficile guardare i suoi fratelli rimpiangere e ripudiare al contempo la presenza del padre; era difficile guardare Brick negli occhi sapendo che per vincere aveva dovuto ammazzare delle persone; era difficile ascoltare tutte le parole di conforto di June e vederla rincorrere impossibili sogni ad occhi aperti.
Lorelei stessa era difficile, o quasi impossibile.
Ma quella sessione non lo era. E neanche l’arena, se messa a confronto con tutti i guai che aveva passato e con tutti i sorrisi falsi a cui era stata costretta a credere.
L’avrebbe affrontata con dignità, come si addiceva ad una piccola guerriera come lei.
O meglio, come a un piccolo falco reale.
– Salve – disse più ironicamente che gentilmente. Notò che la maggior parte degli strateghi non si era neanche accorta della sua presenza. Poco male.
Giunse velocemente alla postazione di mimetismo.
Avrebbe tanto voluto ricreare tutto quello che aveva fatto durante quei tre giorni di addestramento, ma si trattenne.
Le sue vere capacità, che non si limitavano al travestirsi da cespuglio, sarebbero affiorate pian piano durante i Giochi veri e propri.
Prese della pittura marrone e con un grosso pennello cominciò a tingersi la pelle candida, non curandosi neanche di tenere i vestiti immacolati.
Voleva imitare un albero, ma, appositamente, sbagliò colore e aggiunse del blu sul volto e del rosso sulle mani.
Infine, si ornò le braccia e le gambe di ramoscelli e foglie varie, trovate in giro per la postazione.
Guardò il risultato e ne fu compiaciuta. Un – quasi – totale disastro.
– Ho finito – disse. E, ancor prima che fosse scaduto il tempo, se ne andò lasciando sbigottiti i pochi che la stavano guardando. – Arrivederci.
Ionas non riusciva neanche a esprimere un giudizio su di lei. La sua prova era durata solo cinque minuti!
Per fortuna un senza-voce aveva osservato la sessione con lui, dal suo angolino e con un vassoio d’argento in mano.
Gli venne in mente una malsana idea. – Tu che voto le daresti?
L’uomo andò in panico, sentendosi paradossalmente chiamato in causa. Scosse la testa con gli occhi sbarrati dall’imbarazzo.
Ionas si passò una mano sul volto, già stanco di tutto ciò.
Riflettè come avrebbe riflettuto Cicero, perché era l’unica cosa che poteva fare in quel momento, visto che il Capostratega era momentaneamente assente, essendosi diretto ai bagni.
Probabilmente starà vomitando anche l’anima, disse disgustato. Rispettava il suo superiore, ma proprio non capiva perché cadesse così in basso durante le sessioni.
Riluttante, segnò 5 sul taccuino accanto al nome di Lorelei.
Forse i suoi colleghi le avrebbero assegnato anche un 4, ma non potevano di certo sapere che la ragazzina era andata così male.
Resterà tra me e te, le disse con il pensiero, anche se poi si diede dello stupido perché si rese conto che Lorelei non avrebbe mai saputo del suo gesto benevolo, in qualsiasi caso.
 
– Zefren Leris – disse Ionas tramite interfono, chiamando un altro scalpitante tributo.
Zefren aveva la testa altrove. O meglio, dappertutto meno che concentrata sulla sessione. Aveva già deciso cosa fare in precedenza, ma la sua determinazione era calata quando aveva cominciato a pensare a Thanatos.
Non ricordava bene che punteggio avesse preso suo fratello alla prova con gli strateghi – ricordava forse un 5 –, ma quello che importava era che Thanatos non era più tornato, nonostante gli sponsor che si erano fatti addolcire dalla sua triste storia con Amber, per giunta tributo femminile di quell’anno.
Amber era stata uccisa da un Favorito, dopo che Thanatos aveva cercato di proteggerla con il suo corpo.
Zefren si rendeva ben conto che gli sponsor servissero a poco: il problema principale dell’arena era cercare di non farsi ammazzare dagli altri tributi.
Non immaginava in che modo il fratello avesse dato prova di sé durante la sessione, ma aveva una mezza idea che verteva sui coltelli.
Anche per quello Zefren aveva deciso di usare quell’arma. Si era offerto per riscattare l’anima di Thanatos, in qualsiasi modo gli fosse possibile.
Ricordava ancora bene le ultime parole che si erano scambiati…

– Mi raccomando, cercate di morire mano nella mano alla Cornucopia – aveva detto Zefren a suo fratello, riferendosi anche ad Amber.
Thanatos lo aveva guardato con occhi afflitti dal dolore. – Zef, lo sai che mi dispiace… ma io sono innamorato di Amber. Mi sono offerto per proteggerla.
Zefren aveva stretto i pugni in una morsa ferrea. – E ora questo tuo stupido amore ti porterà nella tomba!
– Stupido?! –
urlò l’altro ragazzo, frustrato. – Anche tu sei ancora innamorato di lei!
– Sciocchezze! –
gridò Zefren di rimando. E, senza neanche salutarlo e ancor prima che un Pacificatore lo venisse a chiamare, se ne andò sbattendo la porta del Palazzo di Giustizia.

Zefren aveva rimpianto quell’addio per sempre.
In quel momento era solo accecato dalla rabbia e non era stato neanche in grado di salutare suo fratello. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Certo, entrambi erano realmente innamorati di Amber, ma l’amore o l’odio non giustificavano nulla.
Distratto dai suoi pensieri, non notò che nessuno stratega lo stava osservando, eccetto Ionas, che aveva preso a cuore la sorte dei tributi di quell’anno.
Andò con calma verso la postazione dei coltelli e, mirando un manichino non troppo lontano, cominciò a lanciarli due alla volta.
I primi colpirono le mani, i secondi l’addome e i terzi gli occhi.
Continuò con lo stesso ritmo su altri bersagli e, nonostante qualche tiro andasse a vuoto, alla fine della sessione era abbastanza soddisfatto di se stesso. Dopotutto non desiderava neanche un voto eccellente.
Abbandonò la sala persino prima che il tempo fosse definitivamente scaduto.
Ionas si accarezzò il mento, pensoso.
Non aveva idea di che voto potesse meritare il ragazzo del Distretto 10.
Forse un 7, o magari un 6…
Girò il volto verso i suoi colleghi, ancora occupati in altre faccende.
Qualcuno lo chiamò toccandogli una spalla. Voltandosi, riconobbe lo stesso senza-voce di qualche istante prima.
L’uomo con le dita indicò un sei.
Ionas annuì e segnò quel voto. Almeno finalmente aveva trovato un alleato in quell’assurda situazione.

Fu poi il turno del tributo femminile del Distretto 10.
– Karité Oyzis.
La ragazza che entrò in sala aveva sedici anni, un’altezza nella media e un corpo sottile come un giunco. Teneva inoltre i capelli rossicci in una treccia arrotolata all’altezza della nuca. Probabilmente, se sciolti, dovevano essere veramente lunghi, sino ai fianchi e più.
Aveva un atteggiamento titubante e camminava guardandosi intorno con i suoi occhi grandi e lucidi come quelli di un cerbiatto.
Con fare timoroso si avvicinò quanto più possibile alla saletta degli strateghi e con tristezza notò che erano completamente distratti da altre cose.
Ionas, insieme al senza-voce, era l’unico che l’osservava con l’intenzione di giudicarla.
Karité si rivolse direttamente a lui. – Avrei bisogno di un favore.
La sua voce era sottile e bassa, ma lo stratega pensò che fosse dovuto solo alla timidezza e al nervosismo. Non poteva di certo conoscere la storia della ragazza, d’altronde.
Con stupore ricordò di non averla mai sentita parlare prima, per cui con un cenno del capo la pregò di continuare.
Karité si guardò ancora intorno, come se sentisse di essere spiata da qualcuno. – Mi servirebbe un animale.
Ionas corrucciò lo sguardo. – Che tipo di animale?
– Un animale di piccola taglia, per la prova.
Lo stratega riflettè sulla sua richiesta. Ad Ibiza avevano concesso i condannati a morte, ma se un tributo di un distretto povero l’avesse chiesto al Capostratega, questi avrebbe rifiutato di sicuro.
Secondo Cicero, nessun tributo poteva dare più spettacolo di un Favorito, infatti.
Ionas, però, che era d’animo buono, volle metterla alla pari della ragazza del primo distretto. Pertanto, chiese al senza-voce di portargli uno dei conigli che avrebbero dovuto cucinare a breve.
Karité quasi sembrò sollevata, poi però prese a torcersi le mani.
Qualche minuto dopo, il senza-voce tornò con un coniglio ingabbiato di medie dimensioni.
Lo portò sino accanto a lei, scendendo da una scala di sicurezza.
Karité lo liberò e lo mise a terra, accanto ai propri piedi. Se prima il coniglio sembrava spaventato, alla presenza della ragazza appariva tranquillo.
Prese ad accarezzarlo lentamente, accucciandoglisi vicino. Alle carezze la bestiola rispondeva con entusiasmo, rilassata.
– Andrà tutto bene – gli diceva Karité, passando le sue mani affusolate sulla testolina pelosa. – Andrà tutto bene – ripeté, addolcendo il tono.
Senza che il coniglietto se ne accorgesse, da una tasca prese un piccolo coltellino affilato e con l’altra mano continò ad accarezzarlo.
– Andrà tutto… – disse nuovamente, piantandogli con un gesto repentino ed eppure delicato la lama nella gola. – …bene.
Il fiotto di sangue che spruzzò macchiò le mani di Karité, che rabbrividì e inspirò, ricordandosi di cosa quel colore sarebbe stato capace di sprigionare in lei.
Cercò di controllarsi. Con le mani macchiate, si avvicinò ad una parete e con le dita rosse scrisse delle lettere sull’intonaco.
Ionas la osservava esterrefatto. – N… – lesse. – A… H… E… Che significa?
La ragazza non rispose, tornando accanto alla bestiola morta.
Con lo stesso coltellino che aveva usato prima iniziò a scuoiare il coniglio, mentre alcune lacrime facevano capolino sul suo viso.
Karité non avrebbe voluto farlo, ma se l’era imposto.
Dopo alcuni minuti la pelle dell’animaletto finì in un angolino, dimenticata. Avrebbe potuto confezionare qualcosa con quella, ma preferì tralasciarla per guadagnare tempo.
Aveva ancora all’incirca tre minuti, non poteva perdere attimi preziosi.
Accese velocemente un fuoco, sfregando due pietre con la giusta velocità. E, infine, appeso il coniglio ad un’asta, iniziò a cuocerlo.
– Tempo scaduto – fu poi costretto a chiamare Ionas.
Nonostante il coniglio fosse ancora mezzo crudo, Karité spense il fuoco e, con le mani ancora sporché di sangue uscì dalla sala.
Gli strateghi non potevano saperlo, ma appena fu fuori la ragazza pianse a lungo, disgustata da se stessa. Non sarebbe mai stata in grado di uccidere, nell’arena.
Probabilmente avrebbe fatto la fine di quel coniglietto, ucciso con l’inganno.
Ionas era stupefatto. Karité era stata capace di riassumere tutto quello che era necessario saper fare nell’arena. Procurarsi del cibo, sopravvivere. Ingannare.
Aveva notato le lacrime della ragazza e capì che doveva essere in combutta con se stessa. Eppure non si spiegava le lettere sul muro… N, A, H, E. Dovevano essere le iniziali di qualcuno per lei importante. O qualche messaggio criptato.
Scosse la testa, e segnò 7 sul taccuino.
Per una volta aveva le idee chiare. Il senza-voce, accanto a lui, annuì.
Arian si avvicinò, curioso a causa del sangue che aveva notato sul pavimento e a cause dell’odore di carne e fumo.
– Dov’è Sandra? – gli chiese ironico Ionas.
– Oh, è andata a fumarsi una sigaretta – ripose l’altro. – Piuttosto, che ha fatto ‘sta ragazzina di tanto macabro?
– Ha scuoiato un coniglio e l’ha cucinato –
ribatté il secondo stratega.
– Ah! – esclamò l’uomo dai capelli verdi. – Che tributa ingegnosa! E quanto le hai messo?
– 7 –
disse Ionas, senza aggiungere altro.
– Magnifico, Ios!
Ionas si passò una mano sul volto, esasperato.

Il nome successivo fu: – Vladimir Pochka.
Vladimir, o meglio Vladi, era un ragazzino sempre allegro e che difficilmente metteva il broncio per qualche stupido motivo. Sin dalla mietitura si era dimostrato coraggioso e sorridente, cercando di non cadere nello sconforto.
Lo faceva per farsi forza, perché per lui era inconcepibile avvilirsi o abbattersi facilmente.
Anche quando entrò in sala aveva un gioviale sorriso stampato sul volto abbronzato, dovuto alle intere giornate di sole passate nei campi.
Era un’abilità naturale, quella che aveva. Sorridere. Quasi contagiosa.
Ionas, nel vederlo, provò un moto d’affetto.
Vladi era dotato di tratti ancora infantili e il suo modo di porsi lo rendeva simpatico a molti. I capitolini, ad esempio, che erano da sempre propensi a sponsorizzare o i più piccoli o i super-favoriti, l’avevano adorato sin dal primo istante.
Forse, da un lato, lui ne era persino consapevole e cercava di sfruttare questa sua dote per tornare a casa, dal suo fratellone Ivan, dalla pestifera sorellina Dana e dal migliore amico Vlandislav.
Vladi sentiva la mancanza di tutti loro. Detestava la solitudine e il silenzio, per questo stava cercando di studiare gli altri tributi per scegliersi almeno un alleato.
Ibiza, ad esempio, l’aveva colpito da subito. Era dolce, solare, simpatica.
Completamente l’opposto della classica ragazza del Distretto 1.
Si erano trovati bene già dall’allenamento, quando avevano provato a mimetizzarsi insieme, riuscendoci solo in parte. Anzi, avevano concluso quella giornata con una bella risata.
Inoltre, custodiva gelosamente nella tasca della tuta un foglietto che gli aveva donato Vlandislav alla mietitura con tutte le firme dei suoi amici.
Gli ricordava casa, i campi, il sole e la spensieratezza. Sarebbe stato il suo portafortuna, il suo tesoro più prezioso nell’arena.
Si avvicinò alla saletta degli strateghi, che salutò animatamente con la mano.
Dopodiché, cominciò ufficialmente la sua sessione.
Dalla postazione degli archi ne prese uno alla sua portata, né troppo grande, né troppo flessibile. Con esso, si munì di due frecce.
Mirando a un manichino abbastanza distante, ne incoccò una e la lanciò volutamente troppo in altro e, mentre questa compiva un giro in aria, scoccò anche l’altra.
Entrambe si piantarono nella testa del bersaglio contemporaneamente.
Bramoso di approvazione, si voltò verso gli strateghi. Con grande disappunto notò che solo uno l’aveva guardato.
Infastidito, si portò due dita alla bocca e fischiò, cercando di richiamare l’attenzione di tutti. Fortunatamente, altri due strateghi si voltarono verso di lui, più un senza-voce dall’aria interessata.
Era sicuramente meglio di nulla, visto che la maggior parte dei presenti era troppo attratta dal banchetto e dall’alcool per giudicare la sua prova.
Vladi si accontentò e ripeté l’operazione con l’arco, ottenendo qualche commento di assenso.
Infine, si spostò in direzione di un altro manichino e fece qualcosa di simile con i coltelli, solo centrandogli il petto.
Sorrise soddisfatto, salutò educatamente e uscì più rilassato, stringendo il foglietto che aveva in tasca.
A Ionas quella prova era piaciuta. Trovava quel ragazzino gradevolmente impertinente.
Si voltò verso Arian e Seen, gli altri due colleghi che al fischio si erano voltati.
– Che ne pensate? – domandò loro, entusiasta.
– Prova carina, ma gli altri tributi hanno fatto di meglio – rispose l’impassibile Seen, incrociando le braccia.
– Concordo – assentì Arian. – Per me merita 6.
Ionas cambiò subito espressione, deluso che quei due avessero una considerazione così bassa di Vladimir. – Perché non 7, come alla ragazza di prima? – provò.
– 6 anche secondo me – rispose Seen. – Dopotutto viene pur sempre dal Distretto 11.
Ionas, vagamente dispiaciuto, fu costretto a segnare 6 sul taccuino.
Purtroppo la maggioranza vince sempre, pensò rassegnato.

– America Wilson – chiamò allora Ionas, annunciando il tributo femminile del Distretto 11.
America, con i suoi lunghi capelli biondi – vera particolarità per il suo distretto – e gli occhi grigioazzurri, sembrava davvero un angelo. Uno di quelli che raccontano le religioni, che con le ali spiccano il volo pronti per solcare i cieli e far regnare la pace.
Ma America, oltre all’aspetto, non aveva nulla di angelico. Era una ragazza pratica, anche leggermente acida.
Non si faceva problemi a dire quello che pensava, né a raggiungere i propri scopi a qualsiasi costo.
Lo scopo di quel momento era vincere gli Hunger Games. Per tornare a casa da Lucas, dalla madre Tiffany e per rendere orgogliosa l’anima di suo padre, deceduto vincitore.
Non si era offerta per nulla, dopotutto. America era ben cosciente che ogni cosa avesse un prezzo, e ciò valeva anche per il suo gesto.
Al Palazzo di Giustizia il fratellino Lucas, piangendo, le aveva detto di essere stata una stupida. Le era molto affezionato, e per niente al mondo avrebbe voluto vederla morire.
– Stupida, stupida! – Quelle parole disperate le rimbombavano ancora in testa, come un’eco. L’aveva abbracciata a lungo e le aveva fatto promettere di ritornare.
Anche per lui avrebbe vinto, o la sua promessa sarebbe stata vana.
America manteneva sempre le promesse, nonostante a volte costassero caro.
Devo vincere, si diceva per farsi forza. La stoffa ce l’ho, d’altronde. E, Lucas, ti dimostrerò che non sono una stupida, che i Wilson possono avere ancora un vincitore.
Era abbastanza sicura di se stessa, ma sapeva che negli Hunger Games nulla è prevedibile.
Aveva fatto persino delle ipotesi sull’arena, ma non aveva concluso niente.
Una landa ghiacciata? O una foresta di latifoglie?, pensava ancora, rimuginando sulle diverse possibilità. O ancora una spiaggia desolata? Magari una montagna rocciosa…
Scosse la testa. Era comunque preparata ad ogni evenienza.
Dopotutto il suo distretto godeva di diversi climi per ogni determinato periodo dell’anno. Forse, se la sorte fosse stata dalla sua parte, sarebbe stata anche avvantaggiata.
Preferì concentrarsi sulla sessione. Aveva preparato un numero speciale per gli strateghi.
Rimarrano colpiti, si disse orgogliosa.
Per prima cosa, si avvicinò a un tavolo di legno con delle erbe mediche. Non curandosi minimamente di queste ultime, le gettò a terra rovesciando il ripiano in modo da avere la parte rettangolare di fronte a sé.
Si allontanò un istante, recuperando un arco, una faretra di frecce e una cintura di coltelli. Si mise velocemente tutto in spalla, tornando a qualche decina di metri dal tavolo rovesciato.
I primi furono i coltelli. Li lanciò uno ad uno sul legno, a debita distanza l’uno dall’altro, qualcuno più in alto e qualcuno più in basso.
Ionas e qualche altro collega che si era avvicinato per curiosità si domandavano quali fossero le intenzioni della ragazza. Non sarebbe stato meglio se avesse utilizzato dei manichini, come tutti gli altri?
America continuò la sua opera sino ad esaurire i coltelli della cintura. Dopodiché, la gettò in un angolino e passò alle frecce.
L’arco era probabilmente l’arma che amava di più. Incoccò una freccia con precisione e mirò poco sopra a un coltello che aveva lanciato in precedenza. Scoccò e la punta si andò a piantare proprio doveva aveva premeditato.
Continuò la stessa operazione anche con le frecce, finché non le esaurì e fece un sorriso puramente e pienamente soddisfatto.
Gli strateghi, dall’alto della loro saletta, poterono capire finalmente la prova della ragazza. Sul tavolo ora, con frecce e coltelli allineati, si poteva chiaramente leggere il nome “America”.
– Arrivederci – disse la ragazza, a metà tra il sarcastico e l’arrogante, quando il tempo fu terminato.
Qualcuno la applaudì.
– In gamba, questa ragazzina, per essere dell’11 – disse Arian con approvazione. – Le darei un bell’8, che ne dite?
Seen ed altri colleghi annuirono.
– Ionas, segna 8, su – gli intimò l’uomo dai capelli verdi.
Ionas odiava quando a dargli ordini non era Cicero ma uno dei suoi pari. Visto che comunque era d’accordo, però, si limitò a imprecare in silenzio, segnando quel voto accanto al nome di America.

Giunse il turno dell’ultimo distretto, il 12, che chiudeva le danze.
Il tributo maschile fu chiamato da Ionas, come tutti gli altri, tramite interfono. – Richard McIntyre.
Il ragazzo entrò svogliatamente nella sala, con le mani intasca e l’espressione annoiata.
Per lui tutta quella storia era solo un’altra seccatura. A cosa servivano i voti degli strateghi se poi un Favorito ti avrebbe ucciso nella notte, quando tutto tace?
A nulla, ecco a cosa.
La storia dei voti era solo un altro modo per attirare sponsor e, consecutivamente, audience. Inutile.
Fissò dritto in volto l’unico stratega che lo stava guardando, quello che l’aveva chiamato. Questi ricambiò lo sguardo, interdetto.
Controvoglia, Richard si avvicinò a qualche manichino indifeso.
Prese un respiro profondo e, sgranchendosi le dita delle mani, cominciò a prenderli a pugni.
Sembrava un incontro di boxe, con l’unica differenza che gli avversari non si muovevano, né reagivano. Inoltre, Richard non aveva i guanti appositi e se non fosse stato abbastanza abile, avrebbe anche potuto rompersi qualche dito.
Continuò con lo stesso ritmo per qualche minuto, finché non prese a mandare dei calci dritti nelle cosce dei manichini, che li fecero cadere a terra uno ad uno.
Richard non lo stava facendo per dare prova di sé, ma per sfogarsi.
Immaginava di picchiare tutte le persone che lo infastidivano, di farle fuori con solo la forza delle sue braccia. Degli strateghi se ne stava infischiando altamente.
Quando nel voltarsi, però, vide che nessuno oltre all’uomo di prima l’aveva osservato, un moto di rabbia si fece largo dentro di lui.
Organizzavano tutta quella farsa e poi non lo calcolavano neanche di striscio?
Richard strinse i pugni e socchiuse le palpebre in un gesto minaccioso.
Certo, lui poteva permettersi di maltrattare le persone, ma gli altri non potevano permettersi di maltrattare lui. Quella era la sua filosofia.
Giusta o sbagliata che fosse non importava.
– Tu, damerino! – disse, chiamando Ionas.
Lo stratega gli rivolse uno sguardo interrogativo e paziente al contempo.
– Chiama i tuoi colleghi, voglio che mi prestino attenzione!
A quelle parole, anche Arian e Seen si voltarono.
– Non siamo autorizzati a fare quello che dici tu, Distretto 12 – lo ammonì il primo con tono infastidito.
– Beh, fareste meglio a darmi ascolto… o preferite ingozzarvi di quella merda? – fece retoricamente il ragazzo, riferendosi a tutto l’alcool che stavano consumando.
– Modera i termini, ragazzo – gli disse Ionas, ma Richard non ne volle sapere nulla.
– Io faccio quello che cazzo mi pare e non saranno di certo degli strateghi senza palle a fermarmi!
Seen fu il primo a prendere dei provvedimenti. – Sicurezza! – chiamò.
Gli stessi uomini che avevano recuperato Samantha scesero da una scala di sicurezza e lo costrinsero a uscire, mentre Richard ancora urlava: – Andate tutti a fanculo!
Ionas scosse la testa. Aveva capito già dalla mietitura che quel ragazzo fosse ingestibile, ma non pensava fino a quel punto.
Sperò per il suo bene che gli strateghi non lo prendessero di mira.
Una volta finita la discussione, Arian disse: – Questo idiota non merita neanche di essere giudicato.
– Dobbiamo pur farlo, ha fatto comunque qualcosa –
replicò Ionas.
– E cosa? Prenderci a parole? – domandò l’altro retoricamente.
Ionas indicò i manichini che aveva preso a pugni, a terra e danneggiati. – Gli abbasseremo il voto per la sua inadeguatezza, ma dobbiamo comunque darglielo.
– E quanto, 1?
– Un 4 è più che sufficiente –
si limitò a dire Seen.
Ionas preferì non allungare ulteriormente la discussione e segnò 4 sul taccuino. Forse gli era andata bene.

Fu quindi il turno dell’ultimo tributo, quello femminile del Distretto 12.
– Evelyn Gray – annunciò Ionas, voglioso di concludere finalmente quelle sessioni.
La ragazza, il cui fisico minuto e agile rimandava a quello di un grazioso folletto dai capelli corti, entrò con sguardo determinato.
Era una ragazza estremamente ambiziosa, Evelyn, e per quella prova – l’ennesima, nella sua vita – aveva premeditato di dare il meglio di sé.
L’arco era l’unica arma a cui si fosse affezionata nel tempo. Le altre non le usava con la stessa passione, né con la stessa abilità.
Preferiva non domandarsi cosa sarebbe accaduto se non avesse trovato un arco nell’arena. Forse avrebbe potuto nascondersi, lontano da assassini e occhi indiscreti, e poi saltare fuori al momento adatto ed esplodere come una bomba ad orologeria.
Era ingegnosa, furba e pratica. Difficilmente non trovava una soluzione ai problemi e anche quelli dell’arena si sarebbero rivelati, per lei, risolvibili.
Doveva vincere, perché non voleva sprecare così la sua vita. Le carte in regola le aveva e presto le avrebbe schierate tutte in tavola, lasciando a bocca aperta avversari e spettatori.
Il suo distretto sarebbe stata fiera di lei.
Forse dopo sessantatré anni il Distretto 12 avrà un terzo vincitore, pensò con gli occhi dorati che le brillavano. Certo, Haymitch non le era di grande aiuto, ma avrebbe potuto farcela anche da sola.
Perché era stata sempre da sola nella sua vita, dopotutto. Non cambiava molto, nell’arena o a casa.
L’unico sostegno che aveva era Tellie, ma era morta due anni prima alla Cornucopia.
Gli altri suoi amici o suo fratello Jae non avrebbero mai potuto rimpiazzarla.
Era anche per lei che avrebbe vinto, per riscattarla.
Tellie non meritava di morire, era una ragazzina dolcissima. Più di quanto chiunque potesse immaginare.
E, pur essendo un anno più piccola di lei, era stata in grado di insegnarle molte cose, come riconoscere le piante benefiche, trovare l’acqua e piazzare qualche trappola.
Anche se involontariamente, Evelyn era in debito con lei.
Non notò neanche il trambusto che avevano lasciato ventitré tributi prima di lei, quindi prese un arco, concentrata e determinata.
Aveva ideato una prova speciale. Forse gli strateghi l’avrebbero premiata per quello.
Mirò ad alcuni bersagli a muro, con forma umana. Le parti vitali erano indicate da alcuni cerchi rossi sul cranio, sul petto e sull’addome.
Evelyn, però, aveva altri piani.
Tirò le prime frecce, che andarono a colpire mani e piedi dei bersagli. Sentì qualche sporadica risata, al che anche lei fece un piccolo sorriso sarcastico. Non avevano idea di quello che avrebbe fatto.
Per non far calare l’attenzione che aveva ottenuto, scoccò le successive frecce il più rapidamente possibile, centrando stavolta i punti vitali.
Passati dieci minuti abbondanti, Evelyn posò l’arco e uscì facendo un inchino irrisorio.
Gli strateghi videro ciò che in realtà lei aveva realmente fatto.
Le frecce, sui bersagli allineati, formavano un grande e spesso 12.
Ionas aveva già pensato a un possibile voto, ma aspettò di ascoltare le opinioni di Seen e Arian, che avevano deciso di guardare con lui l’ultima prova.
– Un po’ simile alla prova della ragazza dell’11… – commentò il primo, pensoso. – Ho sentito dire che si sono alleate.
– Non credo si siano messe d’accordo –
fece Arian. – Sarebbe controproducente per entrambe, no?
Ionas annuì e s’inserì nel dibattito. – Proporrei di assegnarle un 7. Ma solo perché America ha tirato anche i coltelli, mentre Evelyn solo frecce.
Gli altri due colleghi furono d’accordo e dissero: – Vada per 7.


Le sessioni si conclusero che era già tardi.
Gli strateghi ubriachi si erano abbattuti e si erano ritirati nei propri appartamenti stanchi e con i sintomi della sbornia. Tra questi c’erano anche Cicero, Jack e Hack, quelli che avevano consumato i liquori più pregiati di tutta Panem.
Arian e Sandra dormirono insieme; Paul fu rimproverato aspramente dalla moglie; Seen andò a giocare a pocker con un paio di colleghi.
Ionas, invece, non chiuse occhio tutta la notte. Sapeva che solo uno di quei tributi sarebbe tornato a casa e che gli altri ventitré sarebbero morti e non avrebbero più rivisto i loro parenti.
Ionas pensò tutta la notte a sua figlia Lahri, morta di malattia a dodici anni.
Era bellissima.
Quasi senza volerlo, si ritrovò a pensare che i genitori dei tributi dovevano sentirsi allo stesso modo, se non peggio.
Immaginò Lahri sbranata dagli ibridi, Lahri morta assiderata, Lahri che affrontava i pericoli mortali della nuova arena di Cicero. E pianse, a lungo.
Quella notte, Ionas si vergognò del proprio lavoro, ma, soprattutto, di se stesso.

 
Tutti i tributi indossano una maschera. […]
Ma c’è chi ha il coraggio di mostrarsi al mondo? C'è chi affronterà la morte con il proprio, vero viso?
























*Ionas è un personaggio di AriiiC_ ♥
**Fidatevi, la prova di Ibiza ha delle spiegazioni umane, ma eviterò di rivelarvele per non rovinare lo spettacolo!








Leddy’s Corner:
Buonasera, ragazzi. Per prima cosa, ci tengo a scusarmi in ginocchio per il colossale ritardo con cui sto pubblicando. Avrei dovuto farlo tempo prima, ma sono stata davvero impegnata (sembrerebbe una scusa alquanto banale, ma, credetemi, è così). Tra università, amici, famiglia e quant'altro non ci sto capendo più nulla. Siete voi, però, che mi spingete a portare avanti questa storia, perché senza di voi tutti non sarebbe neanche nata. 
Ci tenevo quindi a ringraziarvi di cuore. Per tutte le bellisime, entusiaste e prolisse recensioni che mi lasciate; per la vostra partecipazione; per tutti i vostri incoraggiamenti e per tutti i complimenti che mi fate e che non mi merito affatto... Grazie. Questa storia è vostra, ed è per questo che cercherò di non abbandonarla mai, trattarla con i guanti e renderla speciale. 
Siete la mia gioia, vi adoro con tutta me stessa ♥
Non ho nient'altro da dire, ma spero che continuiate a seguirmi e che il capitolo vi sia piaciuto (pensate che è anche più lungo delle mietiture... più di 30 pagine di Word! Sono sconvolta da me stessa xD).


PS: Purtroppo non ha tutti ho potuto assegnare il voto che mi avevate richiesto, ma non potevo sbilanciarmi con valutazioni troppo alte. Siamo pur sempre a Capitol City, d'altronde.
PPS: Non si sponsorizza finché non si è entrati nell'arena, ovvero fra due capitoli. Il prossimo sarà sulle interviste, poi potrete sbizzarrirvi u_u


Un bacio enorme, 



Leddy



 

  
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