NdT: Questo capitolo era interminabile. Mi scuso nuovamente, comunque credo che non faccia molta differenza dover aspettare ora o più tardi, visto che l'autrice non è ancora andata oltre al capitolo 5, sebbene abbia annunciato che ce ne saranno in tutto 7. E fidatevi di me, quando vi troverete a dover aspettare, finito il capitolo 5, vi mangerete le mani. Ancora un po' e dovranno rinchiudere anche me.
Ed ora che vi ho terrorizzati, buona lettura!!
EDIT: L'autrice ha gentilmente acconsentito a rispondere alle vostre domande! Pubblicherò un altro annuncio anche nel prossimo capitolo, ma siccome ha l'aria di essere mostruoso non garantisco sulla sua puntualità neanche stavolta, pertanto se volete iniziare a mandare le vostre domande, fate pure! Potete inviarle a questo account. Le risposte verranno pubblicate nell'ultimo capitolo (7)
Sherlock
era sdraiato sul sottile materasso della sua cella spoglia, gli occhi chiusi
contro il blu abbagliante della luce sopra di lui. Poteva udire i gorgoglii e
gli schiocchi delle lampadine fluorescenti come unghie su una lavagna, troppo
flebili per la maggior parte delle orecchie, ma l’udito di Sherlock era
eccellente e facilmente adattabile e in quel clima silenzioso aveva già
imparato a cogliere lievi, insignificanti suoni.
John
era venuto e se n’era andato quella mattina, ma questo era stato ore prima, e Sherlock aveva già
rimuginato su quell’incontro un numero di volte sufficiente per ciò che credeva
fosse prudente per quel giorno. La cosa più sensata da fare per un uomo con del
tempo illimitato e niente da fare con esso era di non sprecare i propri
ricordi. Altrimenti, questi lo avrebbero reso pazzo.
Udì
dei passi, affaticati e oberati dal lavoro, un inserviente, dunque.
Sherlock
calcolò le ore e realizzò che era ora di cena. L’odore del cibo da ospedale lo raggiunse
allora, seguito dal leggero odore di sudore di Dimmock, che portava un nuovo
dopobarba.
“’Sera,”
disse Dimmock e Sherlock lo sentì posizionare il vassoio del cibo nella scatola
scorrevole, e poi ci fu un fruscio di grandi fogli di carta. Un giornale.
“Pensavo
che lo scopo di questo esercizio fosse quello di privarmi di stimoli mentali,”
disse Sherlock freddamente.
Sentì
lo strascichio nervoso di Dimmock. “Il dottor Smith vuole che tu lo abbia.”
“Davvero.” Sherlock si stiracchiò e
rotolò giù dal letto, colmando i pochi metri che lo speravano dalla scatola
scorrevole. Dimmock si dileguò silenziosamente, non ansioso spendere più del
tempo necessario di fronte alla cella di Sherlock, quando Sherlock raccolse una
mela dal vassoio e prese in mano il giornale, aprendolo.
LA
POLIZIA CONSULTA UN ASSASSINO campeggiava a gran voce sulla prima pagina
dell’edizione della sera del quotidiano, e più in basso, in caratteri più
piccoli: “Sherlock Holmes aiuta la polizia nelle indagini dell’emulatore
cannibale”.
Eccitante.
I segreti stavano iniziando a emergere. Sherlock si lasciò cadere sulla branda
e prese un avido morso dalla mela, gettando uno sguardo alla pagina.
Illustravano
la storia con una fotografia di John a quella che sembrava una conferenza
stampa, la sua figura minuta parzialmente oscurata dalle guardie di sicurezza
della polizia mentre tentava di ignorare i giornalisti che gli erano sciamati
attorno. Il suo volto era di profilo, gli occhi abbassati e un’espressione
forzatamente neutra. La didascalia lo definiva senza espressione, ma Sherlock
pensò a ‘di pietra’. Riusciva a
cogliere il panico nella tensione della sua mandibola, nelle sue labbra tirate.
L’angolazione era perfetta per ammirare la lunghezza delle sue ciglia bionde,
ridotte, in stampa, a una delicata macchia di inchiostro sopra al suo zigomo.
Sembrava
che la conferenza stampa non fosse andata esattamente come avevano pianificato.
Invece
che consigli al pubblico su come evitare il killer, come avrebbe voluto la
polizia, l’articolo favoriva il dramma, focalizzandosi su John come colui che
era l’unico sopravvissuto agli attacchi di Holmes e che quindi poteva
raccontare nuovamente quelle storie vecchie di cinque, clamorosi anni. C’era un
riassunto del caso Holmes e del crollo della polizia, accompagnato dalla
consueta foto di Sherlock fuori dal tribunale nel suo abito nero dal taglio
stretto, fiancheggiato dalle guardie del corpo. Usavano sempre quella. Contro
il cielo pallido, la figura di Sherlock sembrava quasi una silhouette. Sherlock
invidiava il suo vecchio se stesso in tutto quello spazio.
In
tono cospiratore, il giornale documentava come John si fosse presentato,
mentendo, come un ufficiale di polizia al dottor Culverton Smith (il quale
sorrideva con aria di sufficienza nella sua fotografia prima che Sherlock la
strappasse via) con lo scopo di garantirsi un accesso a Holmes.
Infine,
c’erano i fatti. I corpi delle prime tre vittime erano stati scoperti nel
Tamigi e una era stata identificata come la figlia da lungo scomparsa di un
politico. Sherlock sfogliò i propri ricordi come pagine con una risata. I
metodi del killer erano stati indovinati, lo scrittore si dilungava sui
pericoli dell’era tecnologica, e, più importante, su come la telecamera e il
microfono di un computer potessero essere facilmente manomessi dall’esterno.
Più
in fondo nella pagina c’era una foto di Sherlock che non era mai stata stampata
prima, di lui e John, tagliata da una fotografia dell’intero gruppo felice e
vagamente ubriaco al pub. Era successo dopo un caso chiuso con successo.
Sherlock appariva superbo e annoiato, consentendo riluttante ad essere
fotografato, mentre John sorrideva liberamente all’obbiettivo con il braccio di
un Greg non inquadrato appoggiato alle sue spalle. Le sue guance erano
arrossate dall’alcol, anche se l’effetto era in qualche modo reso minore dal
bianco e nero.
Era
stata scattata appena prima dell’inizio di ciò che sarebbe diventato noto come
il caso Holmes, ricordò Sherlock, facendo scorrere le dita lungo la carta di
giornale. Quel John innocente di fianco a lui non aveva idea di ciò che stava
per succedere. Se Sherlock fosse tornato indietro nel tempo e gli avesse detto
tutto, John si sarebbe semplicemente lasciato andare a quella sua risatina
sussurrante e gli avrebbe assestato un pugno sul braccio.
Sherlock
soffriva pensando a un tempo in cui John lo avrebbe toccato di sua iniziativa.
Gli mancava il calore di quella pelle proibita contro la sua.
Il
giornale discuteva l’attuale teoria che il killer stesse copiando le date degli
omicidi di Holmes, sia il giorno che il mese. Arrivava velocemente al punto
dicendo che ciò stava a significare che il killer avrebbe potuto andare in
cerca della sua prossima vittima il giorno successivo, un vecchio anniversario
del giorno in cui Sherlock aveva rapito Terry Goodwin, il fagottista della
London Philharmonic, e lo aveva affettato per servirlo a una cena.
Sherlock
sorrise largamente e diede un morso alla mela. Questo lo riportò indietro.
Anche
quand’era più giovane, Sherlock aveva sempre amato le sinfonie. Ammirava
particolarmente il lavoro di Dmitri Shostakovich, un compositore sovietico il
cui talento era sempre stato frenato dai capricci di Stalin. Quando aveva appreso
che la London Philharmonic stava organizzando un concerto per suonare la Quinta
Sinfonia alla Royal Festival Hall, aveva comprato in anticipo i biglietti per
varie serate consecutive. La Quinta Sinfonia era la sua preferita, una pacata
sfida di Shostakovich alle critiche, che costringeva a riconoscere la piena grandezza
di un genio nel modo in cui la sua musica portava gli ascoltatori alle lacrime.
Sherlock
aveva un orecchio perfetto, il che si era dimostrato sia una benedizione che
una maledizione nell’arco della sua vita. Coglieva le piccole note che
sfuggivano alle orecchie dei più ignoranti. Ricordava di essere seduto con John
a bere il tè, lamentandosi della musica classica, e alla fine facendogli
ascoltare una vecchia registrazione di qualche idiota che strimpellava Chopin
che doveva essere stato un triste regalo di Natale. Aveva estratto il CD in
buona fede solo per ridursi a ribollire di rabbia per la quantità di errori
presenti. John, comunque, ascoltò fino alla fine, solo per sfoderare un debole
sorriso quando la tortura fu conclusa e dire che era stato bello.
Perciò
Sherlock sapeva che poteva trarre piacere soltanto da una performance perfetta,
ma si fidava della London Philharmonic.
Era
una fiducia che si sarebbe rivelata mal riposta.
Subito
dopo essersi seduto per sprofondare nella musica, il suo orecchio sensibile
aveva individuato errori inaccettabili. Le pecche erano piccole; leggere
sbavature e note stonate. Erano come un granello di polvere in un occhio e
impossibili per Sherlock da ignorare. Le ricondusse al fagottista, che avrebbe
più tardi identificato come Ted Goodwin, e notò le scarpe costose dell’uomo, le
mani morbide e le labbra che sembravano così poco utilizzate da non avere niente a che vedere con quelle di un
fagottista. Se ne andò presto, discretamente, e vendette i biglietti della
stagione rimanenti su eBay. Rimuginò rabbiosamente per giorni, pianificando la
sua vendetta.
Si
trovava nel bel mezzo dell’azione quando udì la voce di John alla porta.
“Sherlock?”
John sembrava curioso. Probabilmente aveva visto la luce, forse dei movimenti,
e John non era stupido. “Sei in casa?”
Sherlock
guardò il proprio corpo macchiato di rosso, le mani scivolose per il sangue, e
fece una smorfia di fronte a quell’ingiustizia.
“Stai
bene?” La curiosità stava diventando preoccupazione.
I
gemiti ai piedi di Sherlock crebbero d’intensità e, mentre il campanello
risuonava nuovamente attraverso la casa, Sherlock realizzò che doveva agire in
fretta.
Si
fiondò in camera da letto, strappando le lenzuola dal letto con uno strattone
violento e avvolgendovisi in modo che spuntasse solo la testa. Dopo un veloce
controllo allo specchio per verificare che tutte le parti importanti fossero
coperte, calciò via le scarpe macchiate di sangue e strascicò fino alla porta.
Mentre camminava, il suo volto iniziava a rilassarsi. I suoi occhi lacrimavano
come se gli pizzicassero e raccolse un po’ di saliva in fondo alla gola. La sua
postura si incurvò, come se fosse esausto. Sembrava in punto di morte quando aprì
la porta al sole di mezzogiorno.
“Sherlock!”
esclamò John, il suo sguardo guizzò su Sherlock come se non riuscisse a credere
a ciò che stava vedendo. Era una reazione comprensibile. Sherlock stava bene
quando si erano visti quella mattina.
Sherlock
tossì forte. Ancora parecchio più alto di John, incombeva su si lui dalla cima
delle scale come uno spaventapasseri rotto. “Cosa fai qui, John?” chiese,
lasciando che la sua voce uscisse roca. “Sto poco bene.”
“Mi
dispiace tanto.” John piegò la testa, imbarazzato, poi iniziò a frugare nella
tasca della sua giacca. “Hai, uh, lasciato il cellulare nella mia macchina,
stamattina.”
Glielo
porse in una piccola mano pulita. Le mani di Sherlock erano rosse e prudevano sotto
al lenzuolo che si stringeva attorno al corpo. “Puoi appoggiarlo sul tavolo?”
disse, accennando in direzione del porta vasi che stava subito dentro. John non
fece domande, si allungò all’interno e posò cautamente il Blackberry di
Sherlock. “Grazie.”
“Stai
bene? Posso portati qualcosa?” Si spostava di qua e di là ai piedi di Sherlock, sembrando terribilmente
premuroso.
“Credo
sia meglio che tu te ne vada,” disse Sherlock. “Non ho dubbi di essere
contagioso.” E tossì di nuovo per sicurezza. “Starò bene. So che non agisco
come tale, ma io sono un dottore.”
Il
sorriso di risposta di John era tirato e incerto, ma ovviamente non voleva
forzare Sherlock. “Va bene,” disse infine. “Rimettiti in fretta. Puoi mandarmi
un messaggio se ti serve qualcosa.”
Sherlock
sorrise debolmente e John se ne andò senza lamentarsi.
Sherlock
sbatté la porta e si strappò di dosso le disgustose lenzuola che gli si erano
attaccate alla pelle, lasciandole cadere in una pila bianca, rigida e rossa ai
suoi piedi. Erano rovinate. Non c’era verso che avrebbe dormito di nuovo in
delle lenzuola che erano state in contatto col sangue di quell’idiota.
Si
rimise le scarpe e tornò nel suo ufficio.
La
stanza era coperta, dal pavimento al soffitto, da un telo di plastica. Su una
cerata bianca sul pavimento, nelle cui pieghe e avvallamenti del tessuto si
stava già raccogliendo del sangue rosso, giaceva il corpo legato e sanguinante
di Terry Goodwin, l’inutile fagottista della London Philharmonic. Aveva un
corpo sano ma massiccio, con capelli diradanti e supplicanti occhi verdi che
continuavano a spillare patetiche lacrime sulle sue guance rotonde. La sua
bocca era distorta da un bavaglio e poteva produrre unicamente suoni soffocati
e grugniti. Sarebbero stati gli ultimi suoni che avrebbe mai generato.
Sherlock
si portò sopra di lui con deliberata crudeltà, premette forte il tacco della
sua scarpa sulla guancia dell’uomo.
“Bene,
eccoti di nuovo a crearmi disagi.” Premette più a fondo, abbastanza forte da
lasciare un solco lì dove i margini del tacco affondavano nella carne. “Prima
rovini la mia serata alla Royal Festival Hall con il tuo soffiare da dilettante
durante una delle più squisite sinfonie mai composte, e ora schizzandomi con
quel tuo sangue sporco che mi ha costretto a mentire a un amico. Non posso mentire a questo.”
Gli
assestò un calcio e compì qualche passo dietro la testa di Terry, così che
l’uomo dovette torcersi e tendersi per mantenere il suo sguardo sul luogo dove
Sherlock stava indugiando sopra ai suoi strumenti sul tavolo da lavoro
cautamente coperto.
“È
più astuto di quanto lui stesso creda,” mormorò Sherlock. “Quella sorta di
sospetti tendono ad accrescere nel cervello di una persona.”
Le
sue dita sorvolarono un coltello per disossare dalla punta acuminata e la lama
sottile e le avvolse gentilmente attorno all’impugnatura, sollevandolo
lentamente così che il metallo mandasse bagliori nella luce sovrastante. Dietro
di sé, udì un’esplosione di gemiti soffocati.
“Non
importa.” La voce di Sherlock si abbassò leggermente mentre occhieggiava la
lama affilata di recente, la sua mente ripiena della visione della pelle
soffice come pesca di John, in piedi di fronte alla sua porta. “Ci penserò più
tardi.”
Riposte
al sicuro le memorie di John, Sherlock si voltò verso il suo obiettivo. Rigirò
il coltello nella sua presa, abile come uno chef, e iniziò a girare attorno al
corpo accartocciato di Terry.
“Erano
anni che desideravo assistere a una performance dal vivo di Shostakovich,
capisci? E mi sarei goduto la serata immensamente se non fosse stato per le continue
intromissioni di un fagottista stonato. Non ti sei presentato alle prove con i
tuoi compagni musicisti? Non riuscivo a capire. Poi mi sono chiesto, come diavolo ha potuto questo imbecille
ottenere un posto in un’esecuzione tanto importante?” I suoi occhi si strinsero
in disgusto. “Avrei dovuto capirlo. Eri il figlio di qualcuno, il fratello di
qualcuno. Le classi superiori hanno l’orribile abitudine di favorire la
famiglia più che il talento.”
Terry
gemette le sue suppliche, le sue proteste, e Sherlock si crogiolò in quella
paura mentre si inginocchiava vicino alla testa dell’uomo. Quando sollevò il
coltello per appoggiarlo sotto all’occhio di Terry, l’uomo si ammutolì
all’istante alla minaccia implicita.
“Bene,”
disse Sherlock, lasciando che il piacere gli scivolasse sulla lingua. “Non
serve parlare. Non ti toglierò il bavaglio. Questa non è una conversazione e
non c’è nulla che tu possa dire che mi persuaderebbe dall’ucciderti. Pensa alla
tua morte come inevitabile, se ti può aiutare.”
Chiaramente
non aiutò, poiché l’uomo iniziò a tremare e a dimenarsi come se sperasse di
divincolarsi e fuggire. Sherlock affondò il coltello nella carme delicata sotto
al suo occhio per immobilizzarlo e il sangue sgorgò come lacrime.
Sherlock
si chinò a sussurrare proprio all’orecchio di Terry Goodwin. “Darò una cena per
i mecenati della London Philharmonic. Riconoscerai alcuni dei nomi, sono coloro
che ti hanno introdotto ai loro favori, e facendo ciò hanno rovinato il lavoro
di una mente geniale. Ti servirò a loro. Sbatterò la tua carne per farne uscire
l’aria e poi la rosolerò in un filo d’olio.” Strinse la mano attorno al corpo
dell’uomo come se si trovasse dal macellaio. “Sembri avere dei buoni tagli.”
Il
suo volto si oscurò e con una spinta feroce affondò ancora di più il coltello.
L’uomo gridò sotto il bavaglio, un grido autentico. Sapeva che stava per
morire.
Più
tardi, quella sera, si profuse in un generoso sorriso mentre gli ospiti alla
sua cena si complimentavano per il
piatto che aveva servito.
***
Era
una mattina presto quando la squadra del detective ispettore capo Gregson e la
loro recluta si radunarono per discutere del caso dell’emulatore. C’era una
sensazione di timore che permeava l’aria al pensiero di ciò che il giorno
seguente avrebbe portato. Le ultime edizioni dei giornali giacevano qua e là nella
stanza per essere esaminate e, come cinque anni prima, la figura affilata di
Sherlock Holmes li scrutava dalle fotografie in bianco e nero.
Al
momento Sally si trovava al centro dell’attenzione, con la sua lavagna piena di
nomi e date che collegavano gli omicidi dell’emulatore all’originale, un
cerchio rosso attorno al nome di Terry Goodwin.
“L’omicida
ha iniziato all’inizio dell’anno,” dichiarò Sally, “e ha lavorato in un tempo
più ristretto se paragonato a Holmes. Notate come i giorni e i mesi combaciano,
ma gli anni sono irrilevanti? Ecco perché gli omicidi non sono accaduti in
ordine perfettamente cronologico. Sta considerando gli omicidi che Holmes ha
compiuto in tre anni.”
Il
suo puntatore viaggiò lungo la lista di nomi e il suo volto prese colore quando
raggiunse quello di John. La muta minaccia alla vita di John era qualcosa a cui
tutti avevano pensato, ma a cui non avevano dato voce, e ciò fece ribollire
Sally di rabbiosa frustrazione.
Si
schiarì la voce e continuò. “Abbiamo identificato un’altra delle donne, quella
uccisa più di recente tra i corpi ritrovati nel fiume. Il suo nome era Molly
Hooper. Era una patologa dell’ospedale St Bart. Il proprietario di casa ne ha
denunciato la scomparsa dopo che aveva saltato il pagamento dell’affitto e non
era riuscito a contattarla. Aveva pianificato un pagamento automatico dal suo
conto bancario che aveva iniziato ad attingere ai suoi risparmi molto tempo
dopo la sua morte. I soldi sono finiti solo di recente.”
Toby
lanciò un’occhiata astuta da dove stava appoggiato alla scrivania di un agente.
“L’appartamento è intatto? Ci si siete già stati?”
“Dovrebbe
essere stato lasciato così com’era, signore,” rispose Sally con disinvoltura.
“Il detective Hopkins e io ci andremo appena finito qui. Ciò che sappiamo al
momento è che è stata uccisa in casa sua e che la porta non è stata forzata.”
“Il
che non mi convince,” brontolò Toby, incrociando le braccia. “Com’è entrato? Le
donne non invitano semplicemente degli sconosciuti a entrare nelle loro case.”
“Forse
non era uno sconosciuto,” propose John dal luogo dove sedeva con Greg e le
teste si girarono a guardare nella sua direzione. “Se può accedere alle
telecamere e ai microfoni dei portatili, probabilmente si procura i loro
indirizzi IP per trovarle. Forse riesce a conoscerle qualche giorno prima…
sapete.” Lasciò sfumare la voce e si strinse nelle spalle.
Gli
occhi acuti di Toby si strinsero mentre pensava. Sally sapeva che lui e John
non erano più in buoni rapporti dopo il disastro della conferenza stampa, ma
Toby rispettava John e lo ascoltava come sempre.
“Alcune
delle porte sono state forzate, però,” puntualizzò Toby infine. “Serrature
scassinate.”
John
scosse la testa. “Sappiamo già che è capace di modificare il suo metodo perché
si adatti alla sua vittima. Non rischierà di fallire nel recapitare il suo
messaggio.”
“Perché
siamo così certi che il killer sia un uomo?” domandò Sally, colpendosi le dita
con la bacchetta. Un segno di nervosismo. Si agitava sempre e di recente era
stata troppo stressata per preoccuparsi di nasconderlo.
“L’abbiamo
dato per scontato fin dall’inizio, no?” rifletté Greg. Era stato il caso suo e
di Sally, all’inizio, prima che diventasse troppo serio per essere gestito da
un detective ispettore.
“È
molto più probabile che il killer sia un maschio, Donovan,” disse Toby in tono
generoso. “La maggior parte dei serial killer lo è.”
“Sherlock
si è riferito all’assassino come un uomo prima che gli potessi dire qualunque
cosa,” aggiunse John. “L’ha detto come se fosse ovvio.”
Questo
fece saltare tutte le precauzioni di Sally. “Oh, allora se lo dice Sherlock --”
“Donovan!”
ringhiò Toby. “Basta. Apprezzo che tu stia cercando di vederla da un altro punto
di vista, ma per semplicità continuiamo a riferirci a lui come a un lui.”
E
a quel punto, anni di risentimento accumulato esplosero in Sally come acqua da
una diga rotta.
“È
che sono stanca di prendere le parole di quell’assassino per vangelo!” esclamò.
“Ci ha mentito per mesi, anni, senza
nessuno scrupolo. E anche se sapesse qualcosa su questo caso, credete davvero
che ci dirà tutto? Non lo farà mai. È un fottuto psicopatico famelico e ci
propina indizi sotto forma di indovinelli, abbastanza per costringerci a
mandargli il povero John ancora e ancora per supplicarlo di dirci di più.”
“Non
mi dispiace andarci,” disse John velocemente e Sally non lo derise, ma ciò che
stava pensando era probabilmente palese sul suo volto.
“Sei
un pessimo bugiardo, John. Ti sei ritirato per una ragione, ma ora ti abbiamo
tutti costretto a tornare e farti rivivere qualcosa che non dovresti mai
ricordare, così che non dobbiamo guardare in faccia la nostra ignoranza.
Sherlock ti sta usando; ti tormenta per il suo divertimento personale. Noi ti siamo usando,” insistette e agitò
la mano quando iniziarono a sentirsi brontolii scontenti, “no, davvero, lo
stiamo facendo, e nessuno vuole ammetterlo, ma mi fa venire la nausea il fatto
che ti abbiamo riportato in tutto questo quando invece dovremmo proteggerti.
Guarda qui!”
Afferrò
una copia del Telegraph, dove John la
faccia preoccupantemente pallida di John campeggiava in prima pagina.
“La
conferenza stampa è stata un’idea di John,” disse Toby forzatamente, la rabbia
gli risaliva la spina dorsale, e Sally sapeva di stare camminando sul ghiaccio
sottile.
“Signore,”
disse educatamente, ma a denti stretti, “se posso parlare liberamente –”
“Non
puoi,” rispose Toby, sprezzante. “Credo che abbiamo colto la sostanza. Presumo
che la tua presentazione sia conclusa?”
Sally
mantenne il silenzio per un momento, sforzandosi di incontrare quello sguardo
d’acciaio, ma erano in pochi a saper fronteggiare lo sguardo di Toby Gregson.
Nel suo pieno vigore, la sua personalità equivaleva a un bulldozer. “Sì,
signore,” disse infine, sentendosi sgonfiata.
Toby
batté insieme le sue larghe mani. “Bene! Ora che siamo tutti aggiornati, voglio
che torniate di nuovo sulle prove!” Ci fu un lamento. Per lo meno venivano
pagati per tutto il tempo che il caso richiedeva loro. “Donovan, Hopkins,
andate all’appartamento della signorina Hooper e date un’occhiata come si deve.
E Donovan,” abbassò il tono della voce a un gentile promemoria, “diminuiamo un
po’ le teorie cospiratrici, va bene? Siamo solo un pugno di detective, in
carica e non, che lavorano insieme per cercare di catturare un bastardo.”
Sally
annuì brevemente. “Sì, signore.”
Sentì
che John la stava guardando e non fu sorpresa quando lui le venne incontro
mentre tutti gli altri scattavano alle loro postazioni di lavoro. Gironzolava
in lontananza mentre lei prendeva cappotto e taccuino, dando l’impressione di
volersi avvicinare e metterle una mano sulla spalla, ma poi si trattenne.
“Tutto
bene?” chiese infine, aprendo e chiudendo le mani in imbarazzo lungo i suoi
fianchi.
Sally
strinse le labbra in una linea sottile e si girò a fronteggiarlo. “Non credo
che dovresti fare tutto questo, John.”
John
annuì. “Nemmeno io,” ammise. “Ma voglio, devo farlo. Impazzirei se me ne stessi
seduto a casa a poter leggere di questo caso solo sui giornali.”
“È
solo…” Sally sospirò, strofinandosi una mano sulla fronte. “Sei un civile, ora.
Dovremmo proteggerti, invece ti stiamo mettendo proprio sulla traiettoria di
fuoco.”
“Starò
bene,” le assicurò John.
Sally
scosse la testa. “Continui a ripeterlo a te stesso.”
“Sally!”
chiamò il detective poliziotto Hopkins, i suoi occhi spalancati in urgenza.
Giusto. L’appartamento di Molly Hooper. Con un sospiro diede le spalle a John e
uscì per raggiungere l’agente.
***
Il
sole era tramontato e Greg stava indossando il cappotto con movimenti stanchi.
Era stata una lunga giornata. Dall’altro lato della stanza John stava facendo
lo stesso. Il volto del piccolo uomo era segnato dalla stanchezza ed egli
sistemò il colletto della giacca così che grattasse contro le morbide ciocche
bionde ad ogni movimento. Mentre Greg usciva, John si voltò a guardarlo in
attesa.
“Grazie
per l’aiuto di oggi,” disse Greg, guardando in basso e strofinando il pollice
contro il legno del tavolo lì vicino.
John
inclinò la testa. “Non c’è problema.”
“Vai
a casa, adesso?”
“Sì.”
L’esitazione
di Greg dovette trasparire, perché la fronte di John si increspò al centro, con
aria interrogativa.
“Cosa?”
chiese.
“È
solo… probabilmente ci saranno un paio di giornalisti ad aspettarti alla
porta,” fece notare Greg. E forse un serial killer. “Stavo pensando, forse
potresti stare da me, invece. Ho una stanza per gli ospiti.”
John
annuì di nuovo e diede l’impressione di rifletterci. “A tua moglie darà fastidio?”
domandò.
Greg
scosse la testa. “È in visita da un’amica. Anche se non lo fosse, sono sicuro
che sarebbe d’accordo.” Si strinse nelle spalle, sorrise. “E per quanto
riguarda me, mi sentirei meglio sapendo che sei al sicuro. Mi sento un po’
responsabile per te, ad essere onesto, perché sono stato io a trascinarti in
tutto questo –”
“Tu
non mi hai trascinato,” disse John con fermezza. “Ci sono entrato camminando.”
Greg
trattenne il respiro per un istante. “Mi piacerebbe che venissi a stare da me,”
ripeté. “Per tranquillizzarmi, se non altro.”
Gli
occhi di John guizzarono sul suo volto come se stesse cercando qualcosa, poi
sorrise. “Va bene,” acconsentì. “Prendiamo da mangiare mentre andiamo, sto
morendo di fame.”
***
Un
generosa porzione di takeaway cinese fu sparpagliata sul tavolino da caffè nel
salotto di Greg, e lui e John crollarono sul divano di fronte alla televisione,
succhiando noodle e criticando le notizie. Condivisero alcune birre per
rilassarsi e forse Greg ne bevve un po’ più di John, ma chi le stava contando?
“Mi
piacerebbe che si concentrassero di più su come le persone potrebbero
proteggersi piuttosto che scavare in cerca di uno scandalo,” mormorò John,
strofinandosi le dita sulla radice del naso come per scacciare un mal di testa.
Sullo schermo la sicurezza gli stava facendo da scudo mentre i giornalisti si
accalcavano per ottenere risposte alle loro domande. Greg osservò l’espressione
abbattuta del vero John con preoccupazione.
“Tutto
bene?”
Ci
fu silenzio mentre John fissava la televisione per un tempo leggermente troppo
lungo, ma poi inspirò profondamente e guardò Greg. “Sto bene. Penso ancora che
ne sia valsa la pena.”
Sembrava
pallido alla luce della televisione.
Greg
bevve un lungo sorso di birra mentre il ricordo indesiderato di un John
mortalmente pallido che giaceva comatoso in un letto d’ospedale vagava in prima
linea nella sua mente. Ricordava di stare seduto di fianco a quel letto con la
rabbia e la frustrazione che gli ribollivano dentro, e ancora non riusciva a
comprendere come avesse potuto accadere cinque anni prima. Tutto sembrava
risalire a ieri. Odiava ancora se stesso per essere stato l’uomo che aveva
fatto accedere Holmes alle scene del crimine.
“Credi
che ci sia la possibilità che domani non si verifichi un omicidio?” rifletté
Greg, cercando di non sembrare troppo speranzoso.
“Non
ne sono sicuro,” disse John con calma. “Sarà più difficile per lui. La gente
prenderà precauzioni.”
“Vorrei
poter pensare che lo batteremo.” Greg finì la sua birra e la accartocciò sul
tavolino da caffè con uno deciso gesto plateale. “Rovineremo il suo messaggio.”
John
fissava la tv con sguardo vuoto, come se ci stesse guardando attraverso. “Mh.”
Sembrava
dubbioso. Dubbioso e terribilmente stanco, e con un tempismo perfetto la sua
testa ricadde indietro sullo schienale del divano ed egli emise un lungo
sbadiglio. I suoi occhi erano scuri e velati.
“Penso
che dovrei andare a letto.”
“Va
bene,” disse Greg, senza muoversi. Aveva già mostrato a John la casa. “’notte.”
“’notte,”
disse John con il più piccolo dei cenni e si mise in piedi e uscì dal salotto.
Era
bello sentire di nuovo la casa abitata. Greg ascoltò i passi di John sopra al
tappeto e le piastrelle, lavarsi i denti, il rumore delle luci spente. Fece
zapping tra i canali delle news, alla fine spense la televisione con inutile
rabbia dopo essere capitato su una teoria che proponeva che John potesse essere
l’assassino andato da Sherlock in cerca di consiglio. Rimase seduto
nell’oscurità, frustrato, cercò di non pensare tropo alle esclamazioni di Sally
Donovan, o al modo in cui John era sembrato quasi per nulla preoccupato qualche
giorno prima, quando Greg lo aveva gettato nuovamente tra le grinfie di
Sherlock.
***
Come
Greg aveva predetto, c’erano alcuni paparazzi che vagavano fuori dall’edificio
di John. Superarono guidando il gruppo in agguato mentre si recavano alla
stazione di polizia, e John li guardò con quello che sembrava shock.
“Non
ci credo…” mormorò, sedendosi più all’indietro sul sedile nel caso che qualcuno
riuscisse a intravederlo. Probabilmente impossibile, ma non voleva correre
rischi.
“Te
l’avevo detto,” disse Greg. “Sono famelici.”
I
media si erano già stancati di mandare in onda sempre gli stessi stralci di
video della conferenza stampa e le foto iniziavano ad essere ripetitive. Avrebbero
pagato molto per qualcosa di nuovo.
John
si rigirò a disagio sul sedile. “Che tipo di risposta credono di poter ottenere
da me?”
Greg
soffocò una risata. “Qualunque risposta. Qualunque reazione. È tutto ciò che
vogliono e fai bene a non lasciarti provocare da loro.”
John
pensò al dottor Culverton Smith e alle sua fotografie raccapriccianti, e si
accigliò.
***
La
rilevanza accresciuta del caso iniziò a manifestarsi quella mattina. Toby
Gregson era indaffarato a lavorare nel suo ufficio, già abituato al numero di
telefonate da parte del nervoso pubblico che dichiarava di avere il virus. Come
si erano aspettati, avevano ricevuto false confessioni, il numero di agenti
necessari ad interrogarli tutti stava lentamente intaccando la sua forza
pubblica.
E
adesso il detective poliziotto Hopkins era scivolato goffamente nel suo ufficio
con un’informazione a proposito dell’ultima persona che aveva telefonato, un
giovane uomo che insisteva a dire che il killer lo stava osservando.
“Quell’uomo
ha realizzato che sono le donne ad essere nel mirino dell’assassino?” chiese
Toby stancamente.
“Sembra
preoccupato, signore.” Hopking corrugò la fronte. “E il suo computer si
comporta come quelli delle vittime.”
Toby
agitò la mano verso la porta. “Va bene. Vai e controlla. Ma torna in fretta, mi
servono tutte le mani possibili per questo.”
“Sì,
signore,” disse Hopkins, rimbalzando sulle punte dei piedi. Sgambettò fuori
dalla porta e Toby non ci pensò più.
***
Con
il nome di Sherlock nuovamente sui giornali e i giornalisti che chiamavano su
ogni linea, il dottor Culverton Smith fece visita alla sua celebrità nell’umida
e buia cella nell’angolo più profondo dell’ospedale.
Lì,
nella sua cuccetta, Sherlock stava allungato sul suo stomaco studiando
attentamente il giornale per quella che doveva essere la centesima volta. Non
si preoccupò della presenza di Culverton, nemmeno dopo che lui ebbe tossito un
paio di volte nella speranza di vedere quegli occhi roteare con disprezzo.
“Interessante,
vero?” sentenziò Culverton infine, con un leggero ghigno.
“Hai
spifferato alla stampa che John è venuto a farmi visita.” Sherlock chiuse il
giornale e lo lasciò cadere sul pavimento, fissando Culverton con un’occhiata
talmente potente che egli poté sentirla attraversargli la testa.
“Mi
hai costretto tu, Sherlock,” disse delicatamente, iniziando a camminare. La
testa di Sherlock ruotò lentamente per seguirlo. “Mi hai deliberatamente tenuto
fuori dal giro. E Dio lo sa, niente di ciò che ti faccio va mai oltre quel tuo
spesso cranio, così ho pensato che questo ti avrebbe fatto recepire meglio il
messaggio.”
“Questo?”
ripeté Sherlock, il naso arricciato come se Culverton gli avesse appena
vomitato sulle scarpe.
“Ho
sentito che ha i giornalisti accampati fuori da casa sua,” disse Culverton,
interrompendo la sua camminata e girando sui tacchi per fronteggiare Sherlock
direttamente. Gli occhi glaciali si erano stretti in fessure, ma non c’era
nulla verso cui dirigere quella rabbia. “Dev’essere orribile per John, ora,”
continuò Culverton in tono dispiaciuto. “Rivivere la peggior esperienza della
sua vita sotto gli occhi di tutti. Dicono tutti che l’assassino lo andrà a
cercare, alla fine. Come ti senti ad averlo condannato a questo destino?”
Sherlock
lasciò che il discorso di Culverton restasse sospeso in aria per alcuni
secondi, poi voltò la testa di lato. “Cosa vuoi, dottore?”
“Voglio
che tu mi dica tutto,” rispose Culverton istantaneamente, poi cercò di non
agitarsi di fronte all’immediato sorriso di Sherlock. “Voglio scrivere questo
libro e fare abbastanza soldi da ritirarmi per sempre da questo schifoso,
fottuto ospedale dove devo avere a che fare tutto il giorno con dei coglioni
come te. È il momento perfetto per iniziare a fare affari con un libro. Il tuo
nome è di nuovo su tutti i giornali.”
“Che
prevedibile,” disse Sherlock, rivolgendo un’occhiata divertita al soffitto. “E
cosa ci guadagno a rivelare la storia della mia vita per un tuo profitto?”
Culverton
si strinse nelle spalle. “In cambio, non renderò la vita del tuo John ancora
più miserabile.”
L’occhiata
di Sherlock guizzò nuovamente su di lui. “Non m’importa se è miserabile.”
“Sul
serio, Holmes,” disse Culverton con sguardo torvo. Beh, non sarebbe stata la
prima volta in cui Sherlock aveva finto un’amicizia per i suoi scopi. Forse
John era meno importante di quanto tutti credevano. Frustrato, sollevò le mani.
“Bene, cosa vuoi allora? Ti darò tutto ciò che è in mio potere, te lo
garantisco.”
“Ci
penserò,” disse Sherlock sbrigativo. Poi il suo sguardo andò lontano,
calcolatore. “Finché ci troviamo in uno stato d’animo di trattativa, comunque,
potrei avere un’informazione che ti aiuterebbe a riportare il tuo nome sotto i
riflettori.” Sollevò un sopracciglio. “Potrebbe aiutare con queste faccende del
libro.”
Con
disinvoltura, Culverton appoggiò le mani sui fianchi. “Oh?”
Il
sorriso di Sherlock fece balenare i suoi denti bianchi. “L’identità
dell’assassino emulatore.”
Il
cuore di Culverton gli balzò in petto ed egli faticò per mantenere
un’espressione impassibile. Questa sorta di scambi erano ciò che più si
avvicinava a una partita di poker tra lui e Sherlock. “Sai chi è?” chiese,
leccandosi le labbra aride.
“L’ho
saputo fin dall’inizio,” rispose Sherlock, inclinando la testa.
“Bene,
perché non l’hai detto al tuo piccolo amico?”
Sherlock
si guardò le mani e si grattò il retro delle sue lunghe dita. “John non ha
niente da offrirmi, oltre alla sua presenza. Se gli dicessi tutto, smetterebbe
di vedermi. Se gli nascondo l’informazione, continuerà a venire da me.”
Culverton
era sorpreso, a malincuore. “Astuto.”
Sherlock
agitò una mano, sprezzante. “È semplice psicologia, ma funziona con tutti.”
Sottopose Culverton ad un’occhiata di traverso. “Persino con te.”
Culverton
incrociò le braccia e ignorò quell’ultimo insulto. Nonostante Sherlock stesse
agendo con nonchalance, stava parlando con inusuale candore. Era questo
l’effetto della punizione? Avrebbe potuto funzionare. “Cosa vuoi, quindi, in
cambio di quest’identità?”
“So
che non uscirò di prigione, dottore,” sospirò Sherlock e ricadde sulla schiena come un gatto, le braccia a
ciondoloni come se fossero senza ossa. “Comunque, mi piacerebbe trascorrere il
resto della vita con un po’ di comodità in più. Voglio vedere di nuovo il sole.
Fammi avere una cella con vista. Fammi vedere gli alberi e gli uccelli, fammi ascoltare
il suono di ciò che accade nel mondo, là fuori.”
Una
nuova cella? Era facilmente fattibile. “La finestra sarà sbarrata,” lo avvertì,
cercando di nascondere l’impazienza. Non voleva dare a Sherlock l’illusione di
avere il controllo.
“Non
m’importa,” disse Sherlock malinconicamente. Sembrava già che stesse guardando
fuori da una finestra immaginaria.
Culverton
si concesse un ghigno. “Allora ho la stanza che fa per te. Massima sicurezza,
ovviamente, ma comunque molto piacevole. Dimmi il nome e sarai trasferito là.”
Sherlock
trasse un profondo respiro ed esalò lentamente. “Le sue iniziali sono E.R. Ti
dirò il resto quando mi avrai dato ciò che voglio.”
Nella
sua testa, Culverton iniziava a pianificare, eccitato, la sua apparizione di
fronte ai media, sui canali televisivi di notizie attraverso tutto il paese con
un ‘Esperto Psichiatra’ di fianco al suo nome, venendo inneggiato come un eroe
per aver rivelato l’identità del killer emulatore. “Non posso trasferirti per
adesso,” si scusò, “poiché devo far ricostruire interamente la parte anteriore
della cella. È fatta di sbarre, al momento.”
“Ti
dirò il resto quando sarò nella mia nuova cella,” ripeté Sherlock freddamente.
Quanto
difficile sarebbe stato? Culverton si accigliò. Sarebbe stato meglio
trasferirlo subito e ottenere le informazioni prima che il killer colpisse di
nuovo. Sicuramente avrebbero potuto attuare nuove procedure di sicurezza, come
misura temporanea, ovviamente. L’avevano già tenuto dietro le sbarre, prima, e
avevano imparato dai propri errori. Forse avrebbero potuto misurare la
lunghezza delle braccia di Holmes e segnare una linea sul pavimento che non
doveva essere varcata quando non era immobilizzato. Avrebbe potuto funzionare.
D’altro
canto, Sherlock sarebbe stato di buon umore, per una volta, quando si fosse
trovato là. Era un piccolo rischio.
Doveva
agire in fretta. Quello era un buon momento per portare Sherlock dal lato dei
buoni, se voleva fare affari con il libro.
“È
una bellissima giornata oggi, Holmes,” disse con un ghigno. “Dovresti iniziare
a prepararti a vederla.”
***
Sherlock
lasciò sparire ogni espressione dal suo volto mentre veniva legato e la
museruola gli veniva applicata dagli inservienti prudenti sotto lo sguardo
vigile di Culverton. Il suo viso era la sua maschera, qualcosa dietro cui
nascondersi mentre il suo cervello si sovraccaricava.
Nonostante
il palese timore degli inservienti, un gruppo di persone dalla pittoresca
storia di attacchi da parte di Holmes, egli fece lo sforzo di comportarsi bene
e non si lamentò di nulla di ciò che gli fecero. Mentre lo trasportavano lungo
il corridoio e su per le scale, i loro corpi si tendevano lottando contro il
suo peso morto. Sherlock non poteva muover la testa, ma attorno a loro la luce
degli ambienti iniziava a cambiare e ad aumentare nel momento in cui
raggiunsero la cima delle scale.
Ora
si trovavano al piano terra e salivano ancora, se Sherlock aveva contato bene
gli scalini. Primo piano. Non vedeva ancora alcuna finestra, ma la luce diffusa
nel corridoio non poteva essere altro che la luce del sole. Secondo piano ed
egli intuì che le braccia degli inservienti erano grate di poter posare la
barella. Quando lo spinsero attraverso le porte nel corridoio vasto, gli occhi
guizzanti di Sherlock colsero il linoleum color crema e le pareti di un bianco
splendente, così diversi dall’ambiente nei sotterranei. Respirò l’odore di
antisettico e carne pulita, udì i passi veloci delle infermiere e i medici che
si spostavano in fretta dal loro tragitto.
Sherlock
mise da parte tutte le informazioni, per ora; avevano raggiunto le finestre.
Mentre veniva spinto attraverso i corridoi spaziosi, allungò la testa verso
sinistra per cogliere un’apparizione di sole giallo e cielo blu chiaro.
Raggiunsero
la sua nuova cella, soddisfacemente più spaziosa, luminosa e ben illuminata
dalla luce pomeridiana. Dopo che fu sistemato lì, tutto ciò che poté fare fu
sedersi alla sua scrivania in legno e fissare con stupore fuori dalla finestra.
“Il
nome?” chiese Culverton.
Fu
come se stesse domandando da un luogo molto lontano, o come se Sherlock si
trovasse immerso sott’acqua.
“Signor
Ed Grin,” disse lentamente. “È tedesco e un ex aracnofobico.”
Non
degnò di ulteriore attenzione il giubilo di Culverton.
Gli
alberi ondeggiavano fuori dalla sua finestra e poteva immaginare di sentire la
brezza sulla pelle. Chi avrebbe mai pensato che l’ospedale potesse avere dei
terreni così belli?
E
il sole! Sembrava una cosa uscita da un sogno. I suoi occhi lacrimavano,
sensibili dopo così tanti anni trascorsi nella luce fluorescente e nell’oscurità,
ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal quel bruciante sole pomeridiano
che illuminava il cielo di un colore tanto magnifico.
***
John,
Greg e Toby stavano scorrendo gli appunti dell’ultima intervista quando il
telefono di Toby squillò con un fischio acuto. Era uno degli agenti in uniforme
e Toby alzò una mano per zittire gli altri mentre rispondeva.
“Detective
ispettore capo Gregson,” disse, mettendo il telefono in vivavoce.
La
voce che ne provenne era decisa, ma tremava leggermente. “Signore, parla
l’agente Fred Foster. Sono appena arrivato sul luogo dove il detective
poliziotto Hopkins era andato a incontrare quell’uomo per prelevarlo e…”
L’uomo
esitò, chiaramente spaventato, e Toby attese pazientemente.
“Hopkins
è stato assassinato, signore.” La voce dell’agente Foster ora era rotta e
dall’altra parte i detective in ascolto sentirono i loro cuori sprofondare.
“C’è sangue dappertutto. Non mi sono addentrato troppo, non volevo
compromettere la scena.”
Il
mento di Toby si abbassò. “Bravo.”
“Sono
qui fuori, adesso. Mi occorrono dei rinforzi, non posso occuparmene da solo.”
“Mando
subito una squadra,” rispose Toby all’istante. “Resisti, agente Foster.”
Riagganciò,
il ricevitore gli scivolò di mano e cadde sul tavolo mentre la testa gli ricadeva
tra le mani. Un fallimento.
“Era
l’assassino,” disse John, guardando nel vuoto. Sembrava sgonfiato. “L’uomo che
ha chiamato a proposito del virus, prima. L’abbiamo beccato.”
Toby
si massaggiò il viso, furioso con se stesso. La tensione gli si era insinuata
nelle spalle. “Ho mandato io Hopkins laggiù. Da solo.”
Greg
scambiò rapidamente un’occhiata con John e poi parlò con voce più bassa. “Non
potevi saperlo, Toby.”
“Lo
so, lo so…” Toby si appoggiò allo schienale e sospirò, crollando come se non
avesse più ossa. “Voi due farete meglio a recarvi sul posto. Lestrade, chiama
una squadra dalla scientifica.”
***
Quando
John e Greg si trovarono fuori dall’edificio segnato dall’indirizzo, poterono
vedere la macchina vuota dell’agente parcheggiata sulla strada. Lo stesso
agente Foster stava in piedi vicino alla porta e corse in avanti, appena loro
si avvicinarono, con un’espressione tormentata sul suo volto pallido che
provocò una fitta di panico lungo la spina dorsale di John. Ricordava la voce
tremante che usciva dall’altoparlante.
Greg
rispose alla domanda non posta dall’agente. “La scientifica sta arrivando.
Mostraci la scena.”
Foster
esitò, irrigidito. “Da questa parte,” si offrì, guidandoli dall’aria frizzante
dell’esterno fino allo squallido interno dell’appartamento che odorava come se
i proprietari avessero aperto solo di rado le finestre.
Fu
un breve tragitto lungo il corridoio con pochi effetti personali, poi Foster si
fermò di fronte a una porta parzialmente aperta e rivolse una strana occhiata a
John. “Tu sei John Watson?”
John
sollevò un sopracciglio. “Sì,” disse seccamente.
“Tu…
Probabilmente non dovresti entrare.”
John
corrugò la fronte e piegò la testa di lato. “Perché no?”
Al
suo fianco poteva quasi avvertire Greg muoversi nervosamente, ma mantenne lo
sguardo fisso su Foster, il quale deglutì a disagio in direzione della vigorosa
occhiata di John. “È solo che…”
E
John capì. Greg stava per compiere un passo all’interno e ordinargli di stare
alla larga nel tentativo di proteggerlo da qualunque cosa vi trovasse, ma John
era stanco di venire coccolato. Appena Greg aprì bocca, passò loro di fianco
aprendo la porta con una spallata e irrompendo nel salotto.
L’odore
di sangue e carne cruda lo colpì come un pungo nei polmoni.
Il
giovane detective poliziotto Hopkins giaceva prono nel mezzo di un tappeto
macchiato di sangue, la camicia strappata dal corpo a esporgli la schiena, dove
pezzi di carne erano stati incisi e rubati da entrambi i lati. John riusciva a
vedere le interiora dell’uomo e la sua mano passò istintivamente sulla sua cicatrice
che bruciava ricordando il dolore. Vista la quantità di sangue che era
fuoriuscita, Hopkins doveva essere stato ancora vivo quando era stato
squarciato.
“Gesù,”
sibilò Greg, la sua voce sorprendentemente vicina all’orecchio di John. Lo
aveva seguito all’interno e stava osservando il muro con gli occhi spalancati.
John seguì il suo sguardo e il suo stomaco si chiuse.
Come
una decorazione sull’orribile carta da parati con motivi cachemire, lettere
maiuscole scritte con il sangue ancora fresco compitavano la minaccia che
Foster non avrebbe voluto che lui
vedesse: TU SEI IL PROSSIMO JOHNNY BOY
La
Y si estendeva fino al pavimento dove il sangue era scorso sul muro.
John
era come incollato al pavimento. Avvertì un brivido freddo, come se tutto il
suo sangue avesse abbandonato le sue estremità per proteggersi e la sua bocca
si era seccata. L’implicita minaccia era diventata reale e ora John non sapeva
più cosa fare.
Doveva
prendere il killer. Non c’era nessun altro a difenderlo se non se stesso.
“John.”
Di nuovo la voce di Greg che interrompeva i suoi pensieri, ma in tutta onestà
John faticava abbastanza a mettere insieme un singolo pensiero dall’ondata di
panico e terrore che gli offuscava la testa. Si sentiva indifeso e lo odiava, e
l’atteggiamento da madre protettiva di Greg lo faceva solo sentire peggio.
“John, guardami.”
John
non lo fece. “Devo…” iniziò, gesticolando vagamente verso la stanza, “…guardare
la scena.”
“John,”
disse la voce di Greg, questa volta più severa. Delle mani afferrarono le
spalle di John e lo voltarono a guardare Greg in faccia; cercò di lottare ma
rimase sorpreso scioccato dalla sincera preoccupazione di Greg. “Torna a casa
mia,” quasi gli ordinò, gli occhi fissi in quelli di John. “Devi riposare.”
La
bocca di John si mosse inutilmente per qualche secondo prima di ritrovare la
voce. “Non posso abbandonare la scena a causa…” Indicò il muro, incapace di
finire, e Greg scosse la testa e parlò di nuovo.
“Puoi
assolutamente farlo. Guarda, ci penso io.” Quando John si allontanò, Greg lo
lasciò andare. “Lo prenderemo. Diavolo, guarda questo posto, troveremo
sicuramente delle prove. Te lo prometto John, posso farcela.”
Il
mondo di John iniziò a ruotare vorticosamente.
“Ci
vediamo quando sarò tornato a casa.” Greg lo stava già spingendo fuori. “Di
nuovo cinese?”
“Sì,”
annuì John. “Tienimi aggiornato.”
Il
nervoso agente Foster lo accompagnò alla porta anteriore come se stesse
accompagnando una bomba ad orologeria.
“Hopkins
era tuo amico, vero?” chiese John. Riconosceva quei due volti, più giovani. “Mi
ricordo che siete arrivati nello stesso periodo.”
Foster reagì a scoppio ritardato e fissò John come se lo vedesse da una nuova
angolazione, poi annuì velocemente. “Già,” disse. “A me non importava, ma lui
aveva sempre voluto essere un detective. Ricordo quando è stato promosso…” Si
interruppe come se gli dolesse la gola.
“Mi
dispiace.”
Il
nuovo sguardo di Foster era fervente. “Sei un brav’uomo, John Watson. Un bravo
poliziotto. Quando sei tornato, Hopkins continuava a ripetermi che ne eri
ancora capace, tesseva le tue lodi.”
John
era un po’ stupito. “Non me n’ero accorto.”
Foster
raddrizzò la schiena. “Ce la caveremo bene qui, Watson. E lo prenderemo. Non
hai di che preoccuparti.” I suoi occhi fissarono qualcosa oltre le spalle di
John e poi un taxi girò l’angolo. Foster corse verso di lui, il braccio
allungato. “Ecco fatto,” disse, sorridendo tra il fiatone, e si avviò
nuovamente all’interno dopo aver fatto un cenno di saluto.
Il
tassista lo guardò incuriosito e John salì sul taxi con un sorriso mesto,
aspettandosi di dover evitare delle domande.
“Dove,
signore?”
Aveva
l’indirizzo di Greg sulla punta della lingua, ma John non riuscì a dirlo.
Non
sarebbe rimasto a guardare.
“Mi
porti a Waterloo.”
***
Invece
di temere il suo viaggio verso il Berkshire, John si scoprì a pregustarlo.
Aveva acquistato il suo biglietto e si era avviato verso il treno, saltando su
appena prima che le porte si chiudessero dietro di lui. Più tardi, quando fu
l’ultimo rimasto nella carrozza, stava facendo delle criptiche parole crociate
su una copia del Metro, quando il suo telefono vibrò nella sua tasca.
“Pronto?”
“Hey
John,” rispose Greg con la voce leggermente ovattata. Da quel che sembrava,
Greg si trovava ancora sulla scena del crimine. John udiva i mormorii dei
detective e dei membri della scientifica che girovagavano lì intorno. “Hai
visto le ultime notizie?”
John
rimase in silenzio e rifletté se dire o no a Geg che non si trovava, in realtà,
seduto dentro casa. “Non ancora,” disse cautamente. Il treno passò rumorosamente
su un dosso, ma Greg sembrò non notarlo.
“Conosci
il direttore dell’ospedale psichiatrico in cui si trova Holmes?”
John
lasciò ricadere il giornale in grembo e sedette dritto. “Il dottor Culverton
Smith?”
“Già.
A quanto pare Holmes ha voltato pagina e ha deciso di confessare tutto a quel
tipo.”
John
sbuffò incredulo.
“No,
davvero,” disse Greg. “È al telegiornale proprio adesso. Holmes ha fatto il
nome del killer come signor Ed Ring e ha fornito alcune informazioni per
identificarlo. È tedesco, un ex aracnofobico, qualunque cosa significhi.”
“Un
ex aracnofobico?” ripeté John, confuso.
“Ad
essere onesto,” rispose Greg, “sembra proprio una di quelle strane cose
specifiche che Holmes usava per dedurre quando lavorava con noi.”
John
aveva imparato in fretta che era importante non sottovalutare le parole di
Sherlock. Aveva la tendenza a nascondere un significato in ciò che diceva e a
costringerti a trovarlo, come la sua osservazione sulle dita delle ragazze. E
John aveva il presentimento di conoscere già la chiave di quel puzzle. “No, non
è così,” mormorò. “Credo significhi che il killer era uno dei pazienti di
Sherlock.”
“Davvero?”
Greg sembrava sorpreso.
“Sì,
quand’era uno psichiatra si era fatto un buon curriculum con il trattamento
delle fobie. Era noto per questo. Controllerei la lista dei pazienti di
Sherlock alla ricerca di qualcuno che è stato curato per l’aracnofobia, se ci
sono i documenti.” John fece una smorfia. “Deve aver avuto un’idea di chi fosse
il killer fin dall’inizio.” Cosa che già sapeva, sul serio. Ma ottenere
informazioni da Sherlock era come togliersi un dente alla volta.
“Potrebbe
essere complicato,” bisbigliò Greg. Molte delle cartelle di Sherlock erano
misteriosamente sparite da quando era andato sotto processo. “Vedrò cosa posso fare.
Grazie John.”
“Ci
sentiamo più tardi.”
John
rimise a posto il suo cellulare nella tasca e si strofinò le dita sul ponte del
naso come per scacciare un’emicrania. Sherlock odiava Culverton. John aveva
assistito abbastanza agli scherni di Sherlock sul dottore, che lui considerava
non qualificato a psicoanalizzare un moscerino, per non capirlo. Persino
Culverton lo aveva ammesso quando John lo aveva incontrato la prima volta. E
adesso Culverton rivendicava una speciale penetrazione nella mente di Sherlock e
otteneva un posto tra le notizie? Qualcosa non quadrava.
Sherlock
non avrebbe mai reso noti i suoi pensieri senza una ragione. Doveva aver saputo
che Culverton avrebbe voluto pubblicizzare immediatamente tutto ciò che
Sherlock gli aveva confessato. Forse aveva realizzato che Culverton poteva
essere buono come un altro per portare il messaggio che voleva far trapelare.
Era uno stratagemma per comunicare al killer ‘So chi sei’? Stava comunicando con John?
John
si sporse di nuovo in avanti e sfogliò il Metro fino a trovare una pagina meno
affollata. Scrisse gli indizi di Sherlock in inchiostro nero.
SIGNOR
ED RING
TEDESCO
EX
ARACNOFOBICO
John
non riusciva a trovare nessun altro significato per ‘ex aracnofobico’, così lo
cancellò con un segno. Era quasi sicuramente un modo per identificarlo come uno
dei pazienti di Sherlock.
Poi
c’era ‘tedesco’. L’assassino era tedesco? Un tedesco che viveva a Londra? John
si accigliò. Non ne era sicuro, anche se esisteva ovviamente lo stereotipo del
tedesco mangiatore di carne, così lo scrisse di fianco.
Il
‘Signor Ed Ring’ gli suonava strano. Era un titolo non necessario, forse era lì
per consolidare l’idea che l’assassino fosse un maschio, in modo che suonasse
ridondante? Sherlock poteva essersi riferito a lui semplicemente come un uomo.
Il significato del titolo in sé era importante.
Forse
il nome era un anagramma, anche se John non era in grado di vederci nulla, e
lui era abbastanza bravo con le parole. Lo scrisse nuovamente con il ‘signor’
in grassetto ma non aveva ancora alcun senso.
Poi
pensò a lui. ‘Tedesco’. L’equivalente tedesco di signore era Herr. Herr Ed Ring.
Red Herring.
Falsa pista.
Sherlock
si era di nuovo preso gioco di Culverton e John non riuscì a trattenere il
piccolo sorriso che gli si allargava in volto. Fu velocemente sostituito dalla
rabbia per quanto sarebbe costato a tutti il tempo che la polizia aveva
sprecato cercando un signor Ring inesistente, ma John era comunque
impressionato. E forse non aveva mentito a proposito del passato del paziente.
Fin dall’inizio, Sherlock aveva dato l’impressione di sapere molto di più di
ciò che lasciava effettivamente trapelare.
All’ospedale,
Dimmock si trovava alla reception. Sollevò lo sguardo allarmato a fatica celato
quando John si avvicinò.
“Devo
vedere Holmes.” John non aveva mai minacciato nessuno, ma tutti quelli anni
come detective l’avevano dotato dell’abilità di guardare le persone come fosse
in grado di minacciarle, quando avesse voluto, e portò a compimento
quell’occhiata.
“Non
è proprio possibile…” rispose Dimmock, che non aveva voglia di incontrare lo
sguardo di John per più di qualche secondo alla volta. John non si mosse.
“Dov’è
il dottor Culverton Smith?”
Dimmock
guardò il suo schermo. “Credo che si alla BBC? Non ne sono sicuro. Ma non è
qui.”
Con
deliberata cautela, John premette le mani sulla scrivania e si protese in
avanti. “Ascolta,” disse, piegando la testa. “Ho davvero bisogno di vedere
Holmes. Ti rendi conto che oggi è stato ucciso un poliziotto?”
“Sì,”
ripeté Dimmock, abbassando il mento. “L’ho sentito al telegiornale.” Il suo
sguardo divenne furtivo. “Senti, vorrei poter essere d’aiuto, ma non posso. È appena stato trasferito in una
nuova cella e abbiamo ancora qualche dubbio sulla sua sicurezza.”
John
sussultò a quelle parole. “Starò attento,” insistette. “Ho solo bisogno di
parlargli.”
***
La
cella di Sherlock si trovava in una stanza tutta per lui con una porta a vento,
dove un corto corridoio portava alla sua stanza sbarrata. C’era una brillante
striscia gialla che attraversava il pavimento, di cui Dimmock si era
preoccupato di spiegargli la funzione. Rappresentava la piena distanza che
Sherlock riusciva a colmare attraverso le sbarre. Una zona di pericolo.
Non attraversarla,
neanche per un secondo. È incredibilmente veloce.
Beh,
John lo sapeva già.
Chiuse
gli occhi e trasse un respiro profondo, rilassando i nervi, e spinse le ante
della porta a vento.
Le
differenze tra questa stanza e la prigione sotterranea di Sherlock furono
immediatamente ovvie. Questa stanza era ampia e ariosa, e l’aria profumava di
fresco e pulito. Erano bei quartieri dalla massima sicurezza, senza dubbio il
prezzo di Sherlock per aver fornito il nome falso al dottor Smith. Le scarpe di
John ticchettavano rumorosamente sulla dura pavimentazione mentre si avvicinava,
ma Sherlock non si mosse.
La
sua alta, sottile figura sedeva a una piccola scrivania abbastanza lontana
dalle sbarre, affacciata verso l’esterno. John poteva vedere il retro dei suoi
ricci scuri, il suo pallido riflesso sulla finestra. Appariva calmo.
“Ancora
tu?” Gli occhi si aprirono, focalizzandosi sul riflesso di John piuttosto che
sulla sua persona. La sua voce era gentile.
“Ancora
io,” disse John. Lungo i suoi fianchi le sue mani erano strette a pugno.
Sherlock
lo notò e le sue labbra si allargarono in un sorriso leggermente compiaciuto
che fece gelare la spina dorsale di John. “Diranno che siamo innamorati,” disse
lentamente, strascicando le parole, e girò attorno alla sedia per portarsi di
fronte a John, la sua pelle anormalmente pallida nella luce arancione del sole
morente. “Separati da sbarre d’acciaio e una sventurata tragedia, possiamo solo
sognare di stare insieme. Sogni di me, John?”
John
aveva incubi che lo svegliavano nel mezzo della notte con gli occhi bagnati,
tastandosi disperatamente come se le sue budella minacciassero di fuoriuscirgli
tra le mani.
“No,”
disse invece, mantenendo il tono della voce piatto.
Sherlock
sogghignò. “Bugiardo.”
“Perché,
tu sogni di me?” chiese John con una nota di sarcasmo e le palpebre di Sherlock
si abbassarono.
“Oh,
con stupefacente regolarità. Sono riuscito a padroneggiare sogni lucidi,
durante la mia permanenza qui.” Prima che John rispondesse, l’espressione di
Sherlock divenne preoccupata. “Stai bene?” domandò. “Sei un po’ pallido.
Dimmock avrebbe dovuto lasciarti una sedia.”
“Starò
in piedi,” disse John con semplicità. “Non mi fermerò a lungo, comunque.”
Sherlock
mugugnò sorpreso, ma andò avanti. “Mi scuso per le azioni del dottor Culverton
Smith. So che sei stato importunato dalla stampa.”
John
si strinse nelle spalle. “Non è poi così male.”
Il
leggero movimento delle sue spalle sembrò risvegliare qualcosa in Sherlock, il
quale socchiuse immediatamente gli occhi, utilizzando la sua vista a raggi x.
“Sei andato a stare con l’ispettore Lestrade.” Annusò l’aria. “Sua moglie l’ha
lasciato.”
“È
da un’amica,” lo corresse John.
“No.”
Sherlock sembrava divertito. “Lo ha lasciato e il buon vecchio Lestrade è
troppo imbarazzato per dirtelo.” Picchiettò le dita sul tavolo e scosse
lentamente la testa da una parte all’altra. “È troppo imbarazzato per dirti un
sacco di cose, immagino.”
“C’è
stato un altro omicidio, oggi,” disse John di rimando. “Un agente.”
Fu
come se la temperatura della stanza fosse precipitata di qualche grado quando
lo sguardo di Sherlock incatenò nuovamente il suo, questa volta era frustrato.
Il mondo all’esterno arrivava a lui solo tramite il permesso dei suoi badanti e
chiaramente non era stato aggiornato sui fatti recenti come avrebbe voluto.
“L’assassino
è arrabbiato a causa della conferenza stampa che gli ha negato le vittime,”
continuò John. “Credo che abbia paura di non trovare più nessuno per completare
il suo messaggio, ma ci riuscirà.”
Sherlock
rimase in silenzio per un po’. “Ha cambiato il suo schema,” disse infine, gli angoli
della sua bocca si allungavano verso il basso. Disapprovazione? John non lo
sapeva.
“Doveva
farlo.”
“Bene,”
mormorò Sherlock e il suo sguardo tornò fuori dalla finestra. “Non ne sarà
troppo felice.”
“Non
lo è,” rispose John, sollevando il mento e stringendo i pugni, e sapeva che
c’era solo un modo per garantirsi l’interesse di Sherlock per ciò che sarebbe
successo dopo. “È furioso. Ha scritto che sarebbe venuto a cercare me, poiché
sono colui che ha gli ha incasinato le cose, dopo tutto.”
Gli
occhi di Sherlock si spalancarono e si alzò in piedi, avvicinandosi rapidamente
alle sbarre. John sentì il suo stomaco chiudersi dalla paura. “Perché non sei
sotto custodia cautelare?” domandò Sherlock, le sue dita bianche avvolgevano le
sbarre di metallo verniciate di nero e le afferravano strette.
“Dovrei
esserlo,” disse John e il fatto che la casa di Greg contasse come protezione
non era proprio una bugia. “Ma sono qui e voglio sapere cos’altro puoi dirmi. E
niente bugie.” Piegò la testa. “Non come quella che hai raccontato al dottor
Smith.”
“Oh?”
Sherlock lasciò che quel suono gli rotolasse lentamente sulla lingua. Il suo
sguardo era più tagliente, come se fosse in attesa di qualcosa.
John
si chiese se quello fosse una specie test. “Il nome che gli hai dato,” spiegò.
“È l’anagramma di red herring.”
A
quel punto Sherlock sembrò risplendere di piacere. “Ben fatto, John.”
“Lo
hai manovrato,” lo accusò John. “Solo perché si mettesse in ridicolo. Ti rendi
conto di quante risorse hai sprecato, risorse che avrebbero potuto essere
impiegate per catturare l’emulatore?”
Sherlock
sospirò drammaticamente e si spinse lontano dalle sbarre, poi iniziò a
passeggiare lentamente nella sua cella, misurando i passi. “Uno deve pur avere
qualcosa per passare il tempo quaggiù, John. Sarebbe orribilmente noioso,
altrimenti.”
“Sai
che ti rispedirà nei sotterranei, appena capirà cos’hai fatto.”
“Non
mi importa. Ho già visto quello che dovevo vedere.” E il suo sguardo tornò
nuovamente fuori dalla finestra.
“Guarda!”
John avrebbe voluto gridare. “Sono venuto qui per chiedere il tuo aiuto.”
“Beh,
ovviamente.” Sherlock lo guardò torvo. “Non ti fai certo vedere per il piacere
della mia compagnia.”
Come
se non fosse già abbastanza. John sperò che fosse sarcastico. “Tu sai chi è il
killer,” disse, avvicinandosi, e ciò catturò l’attenzione di Sherlock.
“Non
te lo dirò.” Sherlock si fermò
bruscamente, proprio di fronte a John e si raddrizzò raggiungendo la sua
massima statura. Scrutava John, pronto a scattare come una molla come se tra
loro non ci fossero sbarre, e John dovette combattere il bisogno di fare un
passo indietro e cedere il campo. “Mi piace qui e, come hai detto tu, il dottor
Smith mi rispedirà nei sotterranei appena avrà scoperto che gli ho mentito per
il mio personale divertimento.”
“Parlerò
col dottor Smith.” John era sul punto di implorare. Mantenne il suo tono di
voce mite e cercò di nascondere la propria vulnerabilità, ma con ogni
probabilità fallì. “Gli lascerò prendersi il merito del nome.”
Tutto
a un tratto, Sherlock sembrò fare più attenzione a John, come uno squalo che
avesse fiutato del sangue. Lasciò quella richiesta ad aleggiare nella stanza
per un po’ e si prese il suo tempo per far scendere il suo sguardo sull’intera
figura tesa di John, poi all’improvviso la sua espressione divenne fredda e
calcolatrice. “E cosa ci guadagno?” chiese.
“Non
lo so, Sherlock.” John fletté le dita inutilmente lungo i suoi fianchi, la
tensione, sul suo corpo, era insopportabilmente costante come se l’uomo di
fronte a lui fosse talmente immobile e grave da essere intagliato nel marmo. “…la
mia continua esistenza?”
Sherlock
apparve quasi deluso. “Di nuovo, sopravvaluti il tuo valore ai miei occhi. A
cosa mi serve la tua esistenza se non vieni mai a farmi visita?”
John
non riuscì a evitare di essere confuso. “Cosa intendi?”
“Se
lo prendi,” disse Sherlock, “non ci sarà più ragione per te di tornare qui.
Vivremo entrambi il resto della nostra vita separati e io non riceverò nulla in
cambio del mio disturbo.”
Si
udì chiaramente John deglutire. “Non ho niente da offrirti.”
“Sì,”
disse Sherlock puntualmente, paziente. “Ce l’hai.”
John
sapeva cosa intendeva. Aveva per lo più evitato gli articoli di psicologia
amatoriale, apparsi di frequente, a proposito dell’apparente interesse di
Sherlock per lui, ridendone persino. Era stato solo di recente che aveva
realizzato che alcune di quelle argomentazioni erano valide.
Ma
Sherlock era dietro alle sbarre. Non poteva ferire John fisicamente. Le sue
informazioni potevano condurre all’arresto un uomo che aveva ingannato sei
persone e che stava pianificando di fare lo stesso a John.
“Verrò
a trovarti,” offrì John. Il suo futuro era il suo unico strumento di
contrattazione. “Lo prometto.”
I
pallidi occhi di Sherlock lo penetrarono come degli ami. “Quanto spesso?”
“Una
volta all’anno,” fu la proposta di John, immediatamente rifiutata dalla risata
di Sherlock. “Okay, una volta ogni sei mesi.”
“Una
volta al mese,” mercanteggiò Sherlock e John si scoraggiò.
“Viaggiare
fin qui non è economico, lo sai.”
“Ho
ancora del denaro.” Sherlock agirò la mano verso le finestre come indicando il
mondo esterno in cui non c’era più spazio per lui. “Pagherò io.”
John
sapeva che Sherlock poteva pagare; non era propriamente povero. Ma non era
quello il punto. “Una volta ogni tre mesi,” offrì, “e non spenderai un penny. È
un compromesso?”
Tentò,
per il momento, di ignorare quanto quell’offerta gli sarebbe costata.
Sherlock
non sorrise, ma John sapeva che era soddisfatto. Con la luce arancione morente
dietro di lui, assomigliava a qualcuno che avesse appena assaggiato qualcosa di
meraviglioso e che ora desiderava rilassarsi e assaporarlo. Se la trattativa
sul suo tempo libero era stato un test, John non sapeva se l’avesse superato o
meno. In ogni caso, Sherlock ne usciva vincitore. “Bene,” disse Sherlock e rimase
lì in silenzio come un falco troppo cresciuto, a fissarlo.
John
sbatté in fretta le palpebre. “Dunque,” disse dopo una considerevole pausa, “chi
è?”
Sherlock
strizzò gli occhi nella sua direzione, poi si piegò graziosamente da un lato e
ritornò a passeggiare. “Dimmi, John,” iniziò, le sue mani unite saldamente
dietro la schiena. “Come hai capito che ero io l’assassino, dopo tutti quegli
anni?”
John
seguì i suoi movimenti, realizzando con una fitta di depressione che Sherlock non
avrebbe rivelato il nome tanto facilmente. Lanciò un’occhiata al pavimento
sotto i suoi piedi, ripensando al passato. “Sono state molte piccole cose. Ma
ho sempre avuto solo dei sospetti e anche allora non mi fidavo di me stesso,”
ammise. “È stato letteralmente nel momento in cui mi hai attaccato che ho
capito di avere ragione.”
“Hai
un istinto eccellente,” dichiarò Sherlock. “È un peccato che tu non ne faccia
affidamento più spesso. Cos’hai pensato, quando ti ho accoltellato?”
John
iniziava a sentirsi male. Quel ricordo non era un luogo in cui era facile
tornare e la sua cicatrice gli doleva mentre ricordava un dolore accecante
sbocciargli nello stomaco, Sherlock incombere sopra di lui con un’espressione
quasi di scuse e il sangue di John sulle sue mani. “Shock, principalmente,”
confessò. “Ma c’era una parte di me, nel profondo, che se lo aspettava. Avevo
già telefonato a Greg quando sei andato a prendermi il cappotto.” John deglutì,
le parole gli rotolavano maldestramente fuori dalla bocca. “Ha detto di aver
sentito tutto ciò che stava succedendo al telefono, mentre guidava. A quanto
pare, non ho neanche gridato.”
“Non
l’hai fatto,” Sherlock aveva smesso di camminare e stava in piedi
preoccupantemente vicino alle sbarre. “Ho pensato che fossi notevole.”
“Non
avevo abbastanza aria nei polmoni, o l’avrai fatto,” gli disse John. Non si era
trattato di coraggio, o stoicismo.
Sherlock
guardò John come se vedesse qualcos’altro. Un vecchio ricordo sovrapposto al
corpo di John. “Ricordo che il suono della tua pelle e i tuoi muscoli che si
strappavano era più rumoroso di te. Eri così silenzioso.”
“Hai
mai avuto un’esperienza pre-morte?” domandò John in un sussurro, mettendo la
punta del piedi sulla linea gialla. Lo sguardo di Sherlock corse su di lui,
affascinato.
“No,”
disse, con una nota di dispiacere, “ma ci ho lavorato assieme ad alcuni
pazienti.”
“Dicono
che la tua vita ti passa di fronte agli occhi…” John si fermò e trasse un
respiro tremante. “A me non è successo. Ero… ero scioccato. Mi trovavo nel
presente, proprio lì, non a ritroso nel tempo. Era solo…”
“Noi,”
terminò Sherlock, la sua voce un sussurro.
“E
poi, quando mi hai messo sul pavimento, tutto è diventato nero.” Si strofinò
gli occhi mentre le memorie riaffioravano, lui sdraiato sul fianco sul tappeto
di Sherlock con il sangue che gli fuoriusciva dalle viscere e che macchiava
tutto di rosso. Ricordò la sensazione di diventare troppo debole per muoversi,
poi troppo debole per tenere gli occhi aperti. “Mi sono svegliato in ospedale
credendo di stare morendo. L’infermiera è arrivata ad assicurarmi che ce l’avevo
fatta, che ero vivo, che tu eri rinchiuso per sempre. Avevo ingannato la morte.
Potevo vivere pienamente la mia vita.”
“Ma
non era così che ti sentivi,” mormorò Sherlock, “vero?”
John
scosse la testa e chiuse gli occhi. Non ne aveva mai parlato prima. Fu solo
quando chiuse le mani pugno che realizzò che si trovavano sul suo stomaco, come
a proteggerlo. “Mi sentivo come se fossi morto sul tuo tappeto quella notte, ma
il mio corpo si stesse ancora muovendo in qualche modo. Ero così stanco. Non
potevo vivere. Potevo solo… esistere.”
Avrebbe
dovuto stare più lontano dalla linea gialla. Perso nei ricordi, aveva
dimenticato le precauzioni.
La
mano di Sherlock si protese quasi troppo in fretta per essere vista, afferrò
John dal bavero della sua giacca e lo tirò verso le sbarre. John gridò per lo
spavento e si contorse, preso completamente alla sprovvista. Afferrò le sbarre
e si spinse indietro, ma la presa di Sherlock non aveva perso la sua forza
durante quegli anni. Con una torsione delle braccia, tirò John più vicino con
spaventosa violenza e John poté sentire il suo respiro caldo sulla pelle.
“Cosa
ne dici, adesso?” ringhiò Sherlock. Lo strattonò più forte e il petto di John
premette dolorosamente contro le sbarre. “Proprio
adesso. Ti senti ancora come se stessi soltanto esistendo? Solo vagando in una vita che non ti si addice più?”
Il
cuore di John palpitava rumorosamente nel suo petto ed egli non riusciva a pensare, il suo cervello era
un vuoto ciclo di corri, corri corri!
I
suoi occhi si trovavano al livello dei denti di Sherlock.
“Io ti faccio sentire vivo,” dichiarò
Sherlock e una delle sua mani ricadde come una tenaglia sul collo di John.
John
era alla ricerca di un appiglio, in shock, graffiando la carne che lo
incatenava alle sbarre, ma Sherlock non reagì nemmeno quando le unghie di John
incisero delle linee lungo la sua pelle, fissandolo come se stesse assistendo a
qualcosa di affascinante. Con John premuto vicino e impotente, si avvicinò, le
narici che si dilatavano mentre traeva un profondo respiro in prossimità della
guancia di John.
“Ti
senti morto senza il pericolo, John,” disse in quella profonda, funesta voce, e
quando John tremò le sue labbra si inarcarono per il divertimento. “Vivi la tua
vita trincerato in esso, combattendolo coraggiosamente, ma sempre, sempre alla
fine soccombi a quell’impeto, quella scarica di adrenalina. Il pericolo è parte
di te, ti definisce, è ciò che ha determinato ogni decisione della tua vita. Ti
ha portato proprio da me, John, e sai cosa?”
Le
sue labbra accarezzarono l’orecchio di John.
“Io
sono la cosa più pericolosa che tu abbia mai conosciuto.”
Con
John bloccato per il collo, la sua mano libera scivolò attraverso le sbarre per
tirare possessivamente verso il basso la stoffa della camicia, le sue lunghe
dita distese. John sibilò e diede un inutile strattone all’indietro mentre la
mano scivolava sulla sua cicatrice, le dita che toccavano con riverenza la
striscia di tessuto spesso che attraversava l’addome di John, quando
improvvisamente un allarme risuono nell’aria. John riconobbe lo squillo con
sollievo distante. Forse qualcuno aveva finalmente guardato le telecamere di
sicurezza.
Anche
Sherlock lo udì, i suoi occhi guizzarono momentaneamente verso l’alto per
accertarsene, ma ciò lo fece solo stringere con più forza. “Mi hai detto che
non avevi bisogno di nessuno che si prendesse cura di te,” mormorò, “ma
entrambi sappiamo che non è così. Uno psicopatico ha cercato di ucciderti oggi.
Sei spaventato. Lo capisco.” Alzò un braccio per accarezzare i capelli di John,
e John trasalì sentendo i polpastrelli grattargli lo scalpo. Sherlock inspirò,
quasi teneramente. “Ma non ti devi preoccupare. Non gli permetterei mai di
farti del male. Tu sei mio, John, lo capisci? E niente, nessuno, ferisce ciò che è mio.”
I
suoi occhi erano così carichi di promesse che John dovette distogliere lo
sguardo.
“Che
succede qui?” ululò la voce distante di Culverton. “Toglietegli Holmes di dosso!”
Le
porte si spalancarono tra il rumore di passi e, per un momento, John pensò che
la stretta di Sherlock avrebbe potuto spezzarlo.
“Ti
terrò d’occhio,” sibilò Sherlock e poi urlò quando vennero separati dagli
inservienti coperti dalla testa ai piedi di attrezzature protettive. La mano di
Sherlock lo afferrò possessiva e le sue unghie lasciarono dei graffi profondi
lungo il retro del collo di John mentre veniva sottratto alla sua presa.
“Portate
il poliziotto fuori di qui!” ruggì Culverton. “E tu stai indietro Holmes, o
verrai sedato—”
Le
voci urlanti si affievolirono mentre la sicurezza trascinava un John tremante
fuori dalla zona di Sherlock, le porte sbatterono dietro di lui. Lo gettarono
letteralmente fuori dall’ospedale. Una volta che fu all’esterno, tremando per
lo shock e l’adrenalina nella fredda aria pomeridiana, incespicò lontano dalla
vista e collassò vicino al muro di mattoni rossi dell’ospedale. Quasi
immediatamente, le sue gambe cedettero. Scivolò lungo il cemento ruvido e
lasciò ricadere la testa.
Non
riusciva a smettere di tremare. La pelle lacerata sul suo collo pungeva a causa
del vento.
Premette
la sua, più piccola mano sopra la fastidiosa cicatrice che gli segnava lo
stomaco e ricacciò ferocemente indietro le lacrime. Sherlock non gli aveva detto
niente.