N come never say never
Diciannove anni – Chi la dura la
vince
3 Settembre 2010.
Questa volta non ero da sola: mia madre mi teneva per mano,
mentre, sotto un sole che prometteva bene, mi avvicinavo al mio destino.
Parlava, e prometteva successo senza però ostentarlo, certa delle mie capacità.
Quando mi sedetti al mio posto, e ricevetti la busta con
dentro il test, ero nervosa, ma avevo dentro di me la certezza che, comunque
sarebbe andata, avrei avuto accanto tutto l’amore e il sostegno che i miei
familiari mi potevano dare.
Nessuno avrebbe mai potuto capire quanto quell’anno fosse
stato duro per me, nemmeno i miei genitori, per quanto avessero vissuto in
prima persona tutta quella tristezza che mi stava trascinando al fondo. La
danza era stata l’unico appiglio in un universo oscuro e spietato, e per me,
che avevo appena cominciato a capire come funzionava il mondo, l’unico
sostegno. Solo in quel momento mi resi conto di quanto, in silenzio, o con
dolorosi rimproveri, i miei mi avessero guidata sin lì, tenendomi per mano. Avevano
tenuto i fili fin dall’inizio, con sguardi di nascosto o sorrisi appena
accennati. Non mi avevano mai lasciata da sola. Fino a quell’istante, l’attimo
prima che si decidesse la mia sorte, avevo sempre pensato di essere stata
l’unica a fare sacrifici; duri sforzi non ripagati, che mi avevano portata a un
doloroso fallimento. Adesso mi rendevo conto, invece, di quanto martirio ci
fosse dietro alle occhiate dei miei genitori; avevo inteso quegli sguardi come
compassionevole delusione, ma troppo tardi avevo capito cosa celassero davvero
i loro occhi. Fu con gratitudine che aprii quella busta.
Non avrei mai trovato le parole per ringraziare i miei
genitori della vita che mi avevano concesso: una vita piena di ricchezze,
valori, affetto. C’era stata magia, in tutti quegli anni di vita, una magia che
continuavano a regalarmi giorno dopo giorno, nei loro sorrisi come nei loro
rimproveri. Avevo un unico modo di ripagarli: vivere la mia vita il più
felicemente possibile, e al massimo delle mie capacità. Quando consegnai il
compito svolto, ero incerta, trepidante, ansiosa; ma dentro di me avevo la
certezza che, comunque sarebbe andata, sarebbe stato un successo.
7 Settembre 2010.
Mi arrivarono tre chiamate: una dalla mamma, una da Renata, e
una da Martina. Tutte e tre mi dissero che erano usciti i risultati del test di
medicina. Io avevo appena spento il computer, e lo accesi già con le lacrime
agli occhi.
Il sito del ministero era intasato: non riuscivo ad accedere
ai miei risultati. Quando, infine, la pagina si caricò, vidi solo il mio
punteggio. La mia posizione la scoprii solo qualche minuto più tardi, con il
cuore in gola e lo stomaco aggrovigliato.
Non ricordo quale fosse. Non ricordo quasi niente di quel
momento. Quando vidi che i miei sforzi erano serviti al raggiungimento dello
scopo finale, riuscii solo a piangere. Mi sentivo la testa leggera, e il cuore
in fiamme.
Ignorando i cinque messaggi non letti, il telefono di casa
che squillava e le persone che mi contattavano in chat per sapere come fosse
andata, chiamai l’unica persona che avevo voglia di sentire in quel momento.
Quando la sua voce rispose, dall’altra parte del telefono, così lontana da non
sembrare vera, deglutii, e, incapace di dire qualsiasi cosa di senso compiuto,
parlai senza nemmeno preoccuparmi di presentarmi.
«Ce l’ho fatta» Lo dissi tra le lacrime.
«Come?» La sua voce era ansiosa, aveva sentito solo il
pianto, non la notizia. Ripetei quelle tre parole, e ne saggiai al tempo stesso
il significato, sulla mia lingua, sulla mia pelle. Ce l’ho fatta. Ed era così dolce il sapore della vittoria.
Papà non rispose. Lo sentii sorridere, al di là della
cornetta. Chiuse il telefono, senza aggiungere nient’altro. Cinque minuti dopo
ero tra le sue braccia, e piangemmo insieme quella vittoria tanto sudata e
sofferta.
Non m’importava se la strada, da quel momento, sarebbe solo
stata in salita: ce l’avevo fatta, e avevo imparato la lezione più grande e
preziosa di tutte.
Mamma e papà sono per
sempre. E qualsiasi cosa fosse successa, quell’abbraccio che ora stavo
ricevendo dal mio papà, non poteva essere sostituito da nulla al mondo. E
sempre, quelle grandi braccia calde mi avrebbero sorretto.