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Autore: Eloise_Hawkins    05/03/2013    1 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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N come never say never

 

Diciannove anni – Chi la dura la vince

 

3 Settembre 2010.

Questa volta non ero da sola: mia madre mi teneva per mano, mentre, sotto un sole che prometteva bene, mi avvicinavo al mio destino. Parlava, e prometteva successo senza però ostentarlo, certa delle mie capacità.

Quando mi sedetti al mio posto, e ricevetti la busta con dentro il test, ero nervosa, ma avevo dentro di me la certezza che, comunque sarebbe andata, avrei avuto accanto tutto l’amore e il sostegno che i miei familiari mi potevano dare.

Nessuno avrebbe mai potuto capire quanto quell’anno fosse stato duro per me, nemmeno i miei genitori, per quanto avessero vissuto in prima persona tutta quella tristezza che mi stava trascinando al fondo. La danza era stata l’unico appiglio in un universo oscuro e spietato, e per me, che avevo appena cominciato a capire come funzionava il mondo, l’unico sostegno. Solo in quel momento mi resi conto di quanto, in silenzio, o con dolorosi rimproveri, i miei mi avessero guidata sin lì, tenendomi per mano. Avevano tenuto i fili fin dall’inizio, con sguardi di nascosto o sorrisi appena accennati. Non mi avevano mai lasciata da sola. Fino a quell’istante, l’attimo prima che si decidesse la mia sorte, avevo sempre pensato di essere stata l’unica a fare sacrifici; duri sforzi non ripagati, che mi avevano portata a un doloroso fallimento. Adesso mi rendevo conto, invece, di quanto martirio ci fosse dietro alle occhiate dei miei genitori; avevo inteso quegli sguardi come compassionevole delusione, ma troppo tardi avevo capito cosa celassero davvero i loro occhi. Fu con gratitudine che aprii quella busta.

Non avrei mai trovato le parole per ringraziare i miei genitori della vita che mi avevano concesso: una vita piena di ricchezze, valori, affetto. C’era stata magia, in tutti quegli anni di vita, una magia che continuavano a regalarmi giorno dopo giorno, nei loro sorrisi come nei loro rimproveri. Avevo un unico modo di ripagarli: vivere la mia vita il più felicemente possibile, e al massimo delle mie capacità. Quando consegnai il compito svolto, ero incerta, trepidante, ansiosa; ma dentro di me avevo la certezza che, comunque sarebbe andata, sarebbe stato un successo.

 

7  Settembre 2010.

Mi arrivarono tre chiamate: una dalla mamma, una da Renata, e una da Martina. Tutte e tre mi dissero che erano usciti i risultati del test di medicina. Io avevo appena spento il computer, e lo accesi già con le lacrime agli occhi.

Il sito del ministero era intasato: non riuscivo ad accedere ai miei risultati. Quando, infine, la pagina si caricò, vidi solo il mio punteggio. La mia posizione la scoprii solo qualche minuto più tardi, con il cuore in gola e lo stomaco aggrovigliato.

Non ricordo quale fosse. Non ricordo quasi niente di quel momento. Quando vidi che i miei sforzi erano serviti al raggiungimento dello scopo finale, riuscii solo a piangere. Mi sentivo la testa leggera, e il cuore in fiamme.

Ignorando i cinque messaggi non letti, il telefono di casa che squillava e le persone che mi contattavano in chat per sapere come fosse andata, chiamai l’unica persona che avevo voglia di sentire in quel momento. Quando la sua voce rispose, dall’altra parte del telefono, così lontana da non sembrare vera, deglutii, e, incapace di dire qualsiasi cosa di senso compiuto, parlai senza nemmeno preoccuparmi di presentarmi.

«Ce l’ho fatta» Lo dissi tra le lacrime.

«Come?» La sua voce era ansiosa, aveva sentito solo il pianto, non la notizia. Ripetei quelle tre parole, e ne saggiai al tempo stesso il significato, sulla mia lingua, sulla mia pelle. Ce l’ho fatta. Ed era così dolce il sapore della vittoria.

Papà non rispose. Lo sentii sorridere, al di là della cornetta. Chiuse il telefono, senza aggiungere nient’altro. Cinque minuti dopo ero tra le sue braccia, e piangemmo insieme quella vittoria tanto sudata e sofferta.

Non m’importava se la strada, da quel momento, sarebbe solo stata in salita: ce l’avevo fatta, e avevo imparato la lezione più grande e preziosa di tutte.

 

Mamma e papà sono per sempre. E qualsiasi cosa fosse successa, quell’abbraccio che ora stavo ricevendo dal mio papà, non poteva essere sostituito da nulla al mondo. E sempre, quelle grandi braccia calde mi avrebbero sorretto.

 

   
 
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