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Autore: Kuri    27/09/2007    5 recensioni
"E per l’ennesima volta è ancora estate. Gli yukata leggeri vengono tirati fuori dalle loro buste di plastica, il condizionatore riprende a riempire tutta la casa del suo quieto ronzio. E come ogni estate si rinnova questo rito, da anni e anni e anni, questo aggrapparsi ostinatamente alla memoria per non andare alla deriva."
Satsuki è cresciuta. Ha diciassette anni e vorrebbe solo essere felice, vorrebbe solo potergli dire che lo ama. Ma ci sono troppe cose che non conosce del passato delle persone che la circondano.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La canzone che mi ha ispirato il titolo è questa, di Olivia (inspi' Reira). Facciamo un po' di premesse, che non fanno mai male. Non sono convinta di questa ff. Attualmente ho già iniziato il terzo capitolo, e ancora sento che le manca qualcosa per decollare, malgrado il taglio che ha mi piaccia molto. Mi intriga dare un po' di luce a Satsuki, quando l'ho vista l'ho trovata così carina! ENJOY! *_______*



RECORDED BUTTERFLIES

Estate


E per l’ennesima volta è ancora estate.
Gli yukata leggeri vengono tirati fuori dalle loro buste di plastica, il condizionatore riprende a riempire tutta la casa del suo quieto ronzio.
E come ogni estate si rinnova questo rito, da anni e anni e anni, questo aggrapparsi ostinatamente alla memoria per non andare alla deriva.
All’inizio per me non era altro che un gioco, una giornata in cui tutto assumeva una prospettiva strana, dove lo scorrere di un tempo diverso si poteva leggere sui visi delle persone sedute a quel tavolo inondato dal sole accecante che entrava dalla finestra.
Poi è subentrata la noia. Che senso aveva dover sprecare un’intera giornata nell’attesa di una persona che nella migliore delle ipotesi era morta? E anche se non lo fosse stata, io non avrei mai voluto aspettare così a lungo qualcuno che era scomparso all’improvviso dopo mille e mille parole d’affetto e d’amore senza giustificarsi neppure un pochino.
Oggi dentro di me c'è un più quieto senso di accettazione nei confronti di tutto questo. È difficile lasciarsi scivolare dalle dita le pallide tracce che rimangono della felicità passata. Si preferisce curarle come piccole e delicate piantine, ed aggiungere pezzetti posticci di ricordo quando la memoria viene meno. Così anche le cose sgradevoli che sono accadute diventano più sopportabili e si può sperare di tirare avanti ancora un po'.
«Satsuki! Se non ti sbrighi questa volta davvero ti lascio qui!» sento gridare la mamma attraverso il corridoio.
«Magari!» le rispondo chinandomi verso la specchiera. Piccole mollette a forma di farfalla trattengono i miei capelli corvini ai lati della testa, richiamando la stessa fantasia stampata sullo yukata.
Mamma su questo è molto intransigente. Quando si va all'appartamento settecentosette per i fuochi d'artificio tutti devono indossare lo yukata. I nostri vengono tirati fuori la sera prima e appesi nel terrazzino per scacciare l'odore stantio di quasi un anno passato nell'armadio.
Tre yukata che sventolano piano al tepore della sera, attraversati da un venticello intessuto del frinire delle cicale.
«Dai, Satsuki, lo sai che la mamma è sempre nervosa in questo periodo dell'anno. Accontentarla non ti costa nulla.» mi dice lui affacciandosi alla porta.
Afferro la borsetta dalla scrivania. Prima di uscire dalla mia camera lo sguardo mi cade su una vecchia Yumeko con il suo yukata ormai sbiadito. I piccoli accessori di cui era corredata li ho persi ormai da tempo.
«Allora, sei pronta?»
Sollevo gli occhi per guardarlo.
«Satsuki, smettila di torturare Nobu e andiamo. Forse ci staranno già aspettando.»
Nobu annuisce con un sorriso dandomi una piccola spinta che mi fa avanzare lungo il corridoio. Quando la mamma e Nobu si sorridono così, sembra quasi che abbiano in bocca un retrogusto amaro che inquina tutto e artiglia qualsiasi speranza di felicità. Non dico che non siano sereni. Sono pieni di premure l'uno nei confronti dell'altra e ogni volta che si guardano viene sempre da trattenere un po' il respiro, quasi l'aria fosse più rarefatta. Eppure è come se mancasse loro qualcosa per essere completi, un qualcosa perso nel tempo e che non potranno mai più riavere indietro.
Nobu non è mio padre. Lui e la mamma si sono sposati dieci anni fa, dopo la separazione dei miei.
Non per questo però lo sento come un estraneo. Da sempre ho il ricordo dei piccoli regali di Nobu, di quando mi accompagnava con la chitarra nelle prove per i musical scolastici e altri mille e mille frammenti di tenerezza, che mi hanno aiutato a smorzare la mancanza di papà.
Papà.
Il mio bellissimo papà dai capelli e gli occhi scuri come la notte. Anch'io ho i capelli scuri come i suoi e mai, neppure per un momento, ho avuto la tentazione di tingerli, per non dover perdere anche questo pezzetto di lui.
Papà ha spesso la voce stanca quando parliamo al telefono. Può cercare di nascondermelo finché vuole ma è mio padre e certe cose non mi serve vederle per poterle capire.
Lavora per una grossa casa discografica statunitense, ma ha dovuto sacrificare troppo per arrivare fino a lì, dove credeva che le sue ambizioni potessero trovare almeno un po' di tregua. Questo, più di ogni altra cosa, ha ferito il suo animo. Ma per tutto quello che è accaduto io sono sicura che non sia colpa sua.
Il tragitto in metropolitana è tutto un ondeggiare quieto e silenzioso a destra e a sinistra mentre le mani un po' sudate si reggono alle sbarre.
Non so davvero come chiamare la sensazione che si impossessa di me ogni estate. È come se si creasse un senso di attesa che pervade le persone intorno a me. Tutti aspettano che accada qualcosa, anche se neppure loro sanno bene cosa si aspettano.
Non credo che si tratti del ritorno di questa Nana. Ormai non ci sperano più e in ogni caso un evento così non sbloccherebbe comunque lo stallo delle loro esistenze.
Forse la mamma, Yasu, Nobu, vorrebbero solo che lei tornasse per sentirsi dire che tutto quello che è accaduto non è stato colpa loro.
E così ripercorriamo anno dopo anno questa strada colpita dal sole, stranamente quieta per trovarsi a Tokyo, ai cui lati ondeggiano placidi lunghi fili d'erba tra il verso delle cicale.
La mamma sventola piano il proprio ventaglio di carta di riso e si sistema il collo dello yukata.
Quanto è invecchiata?
È ancora bella e la sua pelle è liscia e levigata con solo poche rughe vicino agli occhi. Eppure anche lei è stanca, come se le avessero accollato sulle spalle un peso davvero troppo grande.
Il fiume scorre placido tra gli argini erbosi. Il cielo terso e sereno è inondato dalla luce del sole. L'uragano è già passato e lo spettacolo pirotecnico di questa sera non corre alcun pericolo.
I palazzi si riflettono sulla superficie argentea dell'acqua in un paesaggio che è rimasto immutato nel tempo, come un vecchio quadro. Tra il frinire delle cicale si sente solamente lo scalpiccio degli zoccoli di legno della mamma.
Il suo cellulare trilla soffocato dall'interno della borsetta, come se fosse un suono che in questa placida quiete estiva fuori dal tempo dovesse faticare per essere reale.
«Ciao, sono Nana!» esclama con voce squillante mentre il viso le si illumina di un sorriso dolce «Sì, stiamo andando.» chiude gli occhi e scuote la testa «Grazie Naoki. Buona giornata anche a te.»
Io rallento di qualche passo, fermandomi a guardare le farfalle che svolazzano come ubriache sull'argine erboso.
Ho sentito moltissime volte le mie compagne di classe sbraitare che i genitori non le capiscono, mentre io mi sono sorpresa più volte a non riuscire a capire loro, questo gruppo di adulti che fa parte della vita della mamma e che continua a rimanere aggrappato ostinatamente ad un ricordo, un memoria i cui contorni forse stanno iniziando a sbiadire anche per loro.
Una delle tante cose che non riesco a capire è il sorriso che lega la mamma a zio Naoki.
A dir la verità “zio” Naoki non è davvero mio zio. Quando era giovane suonava come batterista nel gruppo di papà e nel tempo ha assunto anche il ruolo di allegro angelo custode della mamma. A quanto ho capito le è stato molto vicino durante il divorzio. La cosa che a me appare buffa è che Naoki è anche un ottimo amico della compagna di papà, ma questo sembra non rappresentare un problema per nessuno.
Ma quando si parla di Naoki è molto difficile definire cosa è normale e cosa non lo è. Perché Naoki è una persona che a quarant'anni si tinge ancora i capelli di biondo platino e occhieggia le studentesse da dietro le lenti rosa dei propri occhiali. Indossa improponibili camice leopardate. Non è affidabile, è decisamente bizzarro e dice sempre un sacco di cose strane. Eppure le persone in suo presenza sono meno nervose e riescono a farsi strappare un sorriso, anche se un po' tirato. A molti questa potrà sembrare ben poca cosa, ma io lo ritengo un bellissimo dono, che desidererei tanto possedere.
E invece sono solo Satsuki, che sogna tutto e niente e può solo sperare che un giorno, prima o poi, questa tensione si spezzi per vedere finalmente libere tutte le persone che amo.
«Satsuki, tu prima o poi mi farai diventare matta! Cosa ci fai lì impalata?» esclama esasperata la mamma una ventina di metri più avanti.
«Arrivo!»
I miei sandali, colpendo l'asfalto, sollevano sbuffi di polvere.
È sempre e solo una questione di sogni e speranze. La felicità o la tristezza, ogni nascita e ogni morte sono condizionate da questi sentimenti capricciosi e soggetti al destino.
Siamo in balia. Non degli dei, o del demone celeste, come forse preferirebbe dire la mamma, ma di ciò che coviamo nel cuore.
È sufficiente osservare le persone che ci circondano per comprendere questa realtà dolorosa. Nonostante i miei diciassette anni, posso assicurare che questa corsa affannosa verso un pallido baluginio che brilla ad intermittenza fa male. Un male cane.
La corrente del fiume smuove appena il riflesso dell'enorme caseggiato in stile europeo dai mattoni rossi.
La mamma si ferma e alza lo sguardo bloccando l'oscillazione lenta del ventaglio. Nobu afferra la sua mano, la stringe intrecciando strettamente le dita di lei tra le sue. È un modo per rassicurarla che lui non ha mai smesso i preoccuparsi per lei e che le è accanto, sempre.
Fanno tenerezza. Hanno quasi quarant'anni e sono così smarriti. Ma non mi viene più da piangere, quando li vedo così.
La mamma mi ha già spiegato non dimenticherà mai papà, perché le ha donato qualcosa che lei non potrà mai dimenticare. Un'accettazione senza condizioni, senza pretese di cambiamento. Lui, forse per la prima volta, l'ha fatta sentire davvero una bella persona. Non perfetta, ma a suo modo bella.
Eppure, nonostante questo, non riusciva più a stargli accanto, soprattutto da quando Nana era scomparsa e lei si era rappacificata con Nobu.
Anche oggi, quando si incontrano, papà posa su di lei uno sguardo intriso di tristezza. Lei gli ripete sempre che alla fine è stato meglio così e che anche lui è riuscito finalmente a trovare quello che cercava da tanto tempo. Ma io so che lui, dietro a quello sguardo, nasconde un melmoso lago di malinconia nel cuore. Non solo perché noi tre non siamo più una famiglia, ma anche per lei. Per le sue scarpe sempre sparse in giro, per le mollette con cui si solleva i capelli mentre fa le pulizie e per le omelettes con le faccine.
Perché i cuori delle persone non sono in grado di sentirsi e battere all'unisono?
La mamma prende dalla borsetta il mazzo di chiavi dell'appartamento settecentosette.
Il sole si riversa sulla facciata mentre i placidi suoni del quartiere riempiono la tersa aria estiva.



   
 
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