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Autore: Love_in_London_night    22/04/2013    6 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente: Pemberley trova il coraggio di chiamare Rhys che, con i suoi soliti toni freddi e quasi sgarbati, le fa capire di averla scaricata tempo prima.
Pemberley partecipa a un the organizzato dalla madre. Qui Felicia le dice che sa che Nathan è tornato in città. Il the diventa una specie di cocktail party, dove Felicia cerca donatori e nuovi soci per la "Lost children", l'associazione benefica di cui fa parte.
Al party prendono parte anche Cassidy e la sua straripante bisessualità, accompagnato da Joshua. Silene conosce Josh e si scopre che il ragazzo non è gay come Cass pensava ma è bisex come lui. Dopo aver scoperto tramite un flashback che Silene era innamorata di Cassidy e tra i due non c'è un buon rapporto (almeno, per lei è così), Sil ne approfitta per avvicinarsi a Yoshi.
Una serata tranquilla tra Pemberley e Naive viene sconvolta da una presenza inaspettata. Rhys si è presentato alla loro porta con un bambino, Austin. Chi è?

 

Capitolo 7
 
Di principesse e di regine di cuori spezzati

 
Sapeva che c’erano domande a cui non si poteva rispondere in modo sincero, e se avesse dovuto scegliere la più gettonata e la più difficile, con una certa semplicità avrebbe risposto con: Come stai.
Era la domanda che riceveva meno volte la verità. Usata più spesso come forma di cortesia, metteva in difficoltà chiunque la subisse. La gente avrebbe voluto rispondere con sincerità, ma l’interlocutore non sempre era disposto a sentire l’altro aprirsi. Era più facile dire “Bene, grazie, e tu?” piuttosto che un “Sto male. Sono ferito, deluso, triste. La situazione è difficile, mi sento confuso e sto da schifo”. Non si sapeva mai se incorrere nella pietà altrui, una cosa orribile agli occhi dell’umanità, raccontando la verità, o se rispondere con il classico e fantomatico “bene” per soprassedere argomenti spinosi.
Pemberley si era sempre domandata quanti sorrisi finti le fossero stati regalati alla domanda rivolta con una certa ingenuità.
Eppure questa volta sapeva di non dover porre la domanda, perché no, Rhys non stava affatto bene e glielo si leggeva negli occhi.
Non c’era stato bisogno di domandare nulla: aveva invitato i due bambini ad andare in camera di Naive a giocare o a guardare un cartone, poi loro si erano accomodati in religioso silenzio sul divano. In quel momento nessuna parola riusciva a rendere lo strazio che albergava negli occhi chiari di lui.
Pemberley si alzò solo al fischio del bollitore che aveva messo a scaldare nell’accompagnare i due bambini nella cameretta, portando al suo ritorno due tazze di the fumanti.
«Non hai niente di più forte?» non voleva ubriacarsi Rhys, voleva solo trovare una soluzione al suo problema. Desiderava che qualcuno gli indicasse la via, perché lui non la vedeva. Era conscio che i liquori non avevano la risposta, ma forse avrebbero calmato i nervi più di un the caldo.
«Vivo in casa con una bambina di dieci anni, secondo te tengo alcoolici in casa?» era seria, ma non arrabbiata.
Avrebbe dovuto esserlo, in realtà, lo sapeva anche lei. Era stata scaricata senza grazia, come se l’avesse visto per lavoro e non per conoscerlo come persona e costruirci qualcosa, eppure la curiosità in quel momento ebbe la meglio. Voleva sapere cosa l’aveva ridotto in quello stato di shock, cosa l’aveva spinto a presentarsi lì, proprio da lei, così fragile senza che gliene importasse nulla. Proprio a lui, che odiava mostrarsi umano agli occhi del mondo.
«Be’, dovresti» concluse assente lui sorseggiando il the in mancanza d’altro.
«Quante pretese da uno che mi liquida come se fossi carta straccia che gli è capitata tra le mani».
Ma Rhys non le stava prestando attenzione, perso com’era nei suoi pensieri. Aveva lo sguardo perso nella parete davanti a sé. Pemberley avrebbe voluto essere arrabbiata con lui, ma vedere che il calore del the man mano lo calmava, la portava a chiedersi con più interesse come mai si fosse presentato lì, a casa sua, bisognoso del suo aiuto.
Gli allungò un asciugamano affinché si levasse la pioggia dai capelli, e lo osservò durante l’operazione.
Era strano come fosse a suo agio seduto su quel divano, sembrava una persona tranquilla, se a tradirlo non ci fossero stati i suoi occhi, così spalancati e spaventati da essere innaturali. Lo sguardo di un folle che Pem non aveva mai visto di persona. Era strano come a volte si girasse a guardarla ma non la vedesse davvero. Era così che doveva essere la visione del mondo di Rhys: asettica e senza partecipazione. Lui era l’osservatore che dirigeva i fili invisibili di un mondo che, ai suoi piedi, prendeva la direzione che lui più preferiva, senza mai prendervi parte davvero.
«Penso che tu conosca la storia della mia famiglia» esordì all’improvviso, lo sguardo vacuo ma la voce ferma di chi era pronto a fare un lungo discorso.
Pemberley annuì, e seppe di essere vista con la coda dell’occhio.
«Mio padre che ci abbandona per sfuggire a guai finanziari quando avevo solo dodici anni trasferendosi in Russia, la morte di mia madre qualche anno dopo… Insomma, un gran casino». Una parola che sulle sue labbra così eleganti strideva, almeno all’apparenza, perché rendeva bene lo stato in cui lui versava. «Là si era trovato una nuova moglie, un nuovo lavoro e un nuovo figlio, perché forse io non ero abbastanza. Arina, la sua seconda moglie, è morta quattro anni fa. Una malattia fulminante, ho scoperto».
«Mi dispiace…» provò ad accennare lei, ma Rhys la interruppe subito.
«Tranquilla, io non l’avevo mai vista, se non in foto. Non ho visto mio padre per sedici anni, se devo essere sincero. L’ho rivisto per la prima volta quando tu mi hai chiamato. Stavo partendo perché, dopo la sua scomparsa dalla mia vita, mi aveva chiamato per chiedermi di raggiungerlo».
Averebbe voluto provare a confortarlo un poco, ma aveva paura di incorrere nella reazione fredda di poco prima. Le parole di lui erano graffi sulla sua pelle sensibile. Si vedeva che l’avevano segnato come stavano facendo in quel momento con Pemberley, ma lui cercava di tenere i fatti lontani da sé; non aveva ancora capito che l’avevano travolto e lasciato agonizzante, era troppo invischiato e sotto shock.
«Mi ha trascinato là per salutarlo prima che se ne andasse. Sono andato per Austin».
«E perché l’hai portato con te negli Stati Uniti?». Non capiva come Austin c’entrasse in tutto quello, come salutare suo padre dopo sedici anni lo avesse portato ad avere un bambino con sé.
«Dovevo. Mio padre era malato, allo stadio terminale. È morto durante la mia visita a San Pietroburgo. Ancora una volta mi ha cercato per i suoi scopi. Austin è suo figlio» ammise rancoroso.
Era evidente, perché sembrava di vedere un piccolo Rhys, ma sentirglielo dire ad alta voce le fece un certo effetto.
«Mi dispiace per tuo padre». Un nodo le serrava la gola. Se solo avesse pensato alla morte di suo papà avrebbe potuto immaginare il dolore straziante della perdita. Poteva sentire come il grido di sofferenza avrebbe graffiato la gola per uscire e dare forma al male che l’avrebbe afflitta.
Rhys, invece, sembrava indifferente. Nel suo sguardo si leggeva solo la rabbia per la mancanza di quella figura e per tutti gli oneri che a lui, il figlio che sembrava potesse cavarsela da solo, aveva lasciato.
Alzò le spalle, liquidando la questione: «Muoiono tutti. A lui è successo come sperava: lontano da tutto ciò che non gli è mai piaciuto». L’America, i soldi corrotti che aveva lasciato, una famiglia. Lui.
«Quindi hai un fratello» cercò di cambiare discorso Pemberley.
«Fratellastro». La corresse con quel tono astioso. «Come se al momento fosse questo il problema maggiore».
Lo disse a se stesso, come a cercare di convincersi che da quel legame non derivassero solo problemi, come se la gente, dopo aver sentito la storia, riuscisse a fornire a lui la soluzione più semplice che invece non riusciva a vedere.
Lei lo fissò stupita, perché non capiva cos’altro fosse potuto succedere.
Rhys intercettò lo sguardo e, per la prima volta, alzò il viso nella sua direzione, gli occhi presenti e colmi di paura. «Mio padre ha redatto un testamento prima di morire. Mi ha dichiarato unico tutore legale di Austin. D’altronde sono l’unico famigliare che gli è rimasto».
E le parole che bruciavano le labbra avevano dato un senso alla sua rabbia. Aveva odiato due volte suo padre, una con più ferocia dell’altra. La prima era capitata durante il suo abbandono repentino e indesiderato a dodici anni, quando si rifugiò in Russia per sfuggire al carcere. Rhys era stato abbandonato dal padre senza convenevoli, né un saluto più sentito o sofferto. Era sparito come se fosse stato pronto a tornare, l’aveva fatto a cuor leggero.
La seconda volta era risalita a quel suo viaggio. Per lui Mitchell non aveva fatto nulla dopo la sua fuga. Non era tornato per la morte della ex moglie, aveva solo alzato il telefono per sentire il figlio rimasto solo. L’aveva chiamato poche altre volte, ma non era mai per assicurarsi della sua salute o perché sentiva la sua mancanza, erano sempre conversazioni legate al patrimonio o alla società. Invece per Austin aveva deciso diversamente, Hewitt Senior.
Non solo gli aveva concesso di aver un padre durante tutti quegli anni, ma gli aveva voluto così bene da voler che anche dopo la propria morte il figlio avesse comunque una persona a cui far riferimento. Ad Austin era toccato avere una nuova figura genitoriale, a Rhys un nuovo onere da parte del padre.
Spesso si era domandato cosa avesse fatto di male per meritare l’odio del proprio genitore, e non capiva perché tutti gli dicessero di non odiarlo; non riusciva a fare altro, era l’unico sentimento che riusciva a provare verso suo padre. Eppure alla sua prima richiesta d’aiuto era corso dall’altra parte del mondo, in cerca del suo affetto.
Pemberley, invece, era atterrita per quel povero bambino. Aveva perso i genitori troppo presto e si era ritrovato come unico punto di riferimento uno sconosciuto. Un fratello che non aveva mai vissuto la vita e che non si era mai assunto delle vere responsabilità, a meno che non riguardassero ingenti capitali; perché Rhys non sapeva curarsi di se stesso, era inimmaginabile che riuscisse a occuparsi di una persona all’infuori del proprio io.
In quel momento si sentì una pessima persona perché, nonostante tutto, le stava venendo da ridere. Rhys aveva perso un padre mai conosciuto e aveva trovato un fratello che aveva bisogno di una guida che lo crescesse ed educasse. Ci trovava del ridicolo, dato che lei era stata scaricata quasi un mese prima perché aveva una figlia e lui non era in grado di affrontare una situazione così grande e complicata. Non voleva assumersi una minima responsabilità, provare a frequentare una donna con prole, e ora il destino l’aveva fatto diventare una sorta di unico genitore per un ragazzino che nemmeno conosceva.
In quel momento vedeva quanto fosse immensa la solitudine di Rhys.
«E come potrei aiutarti io in tutto questo?»
«Io non so come si gestiscono queste cose, sei tu l’esperta. Sei madre!». Si mise le mani sulla testa, abbassando le spalle in segno di resa. «Ho provato a trovare una soluzione, ecco il perché della mia permanenza prolungata in Russia, ma niente è stato possibile. È come se mi appartenesse».
«Mi staresti chiedendo di fare da balia a tuo fratello?!» era sinceramente stupita. Come poteva arrivare a tanto?!
«No, a questo punto no. Ti sto chiedendo di insegnarmi a prendermi cura di lui. Non ho idea di come si faccia, da dove si parta. Non so prendermi cura di me stesso, figurarsi di una ragazzino di undici anni a me sconosciuto».
L’aveva fissata con lo sguardo perso e terrorizzato, spento. E qualcosa dentro di lei si accese di dolore, una ferita che mai si era saturata. Avrebbe voluto dirgli con tutto il cuore di arrangiarsi e lasciarlo a navigare nel suo mare come lui aveva fatto con lei scaricandola, ma conosceva fin troppo bene la sensazione di essere abbandonati a se stessi, e non l’avrebbe augurata a nessuno, neppure a Rhys.
Era successo tutto durante i sei anni di Naive.
Aveva organizzato verso fine ottobre, due giorni dopo il compleanno della figlia, una festicciola a casa tra le compagne di scuola e le rispettive madri. Un modo per far socializzare Naive e per permettere a Pem di conoscere i genitori dei compagni della scuola elementare, tutti nuovi per lei.
I palloncini riempivano il salotto, le scritte glitterate con il nome della festeggiata pendevano dal soffitto e la torta era stata glassata dalle mani della madre tutta la mattina. Aveva ridotto la cucina uno schifo ma era orgogliosa del risultato ottenuto. Non era facile essere madre, specialmente se single e giovane, ma Naive era la sua soddisfazione più grande.
La festeggiata era elettrizzata per la sua festa e per aver le amichette a casa, inoltre il padre sarebbe dovuto arrivare verso sera, un po’ dopo il taglio della torta. Era positiva e propositiva, aveva addirittura pensato a regalare piccoli gadget come cappellini e collane hawaiane alle piccole invitate.
Per sé, nonostante si sentisse ridicola, aveva comprato un cerchietto con le orecchie paillettate di Minnie, volendo essere ironica e colpire così i presenti, facendoli sentire a proprio agio o, almeno, divertirli.
Aveva sorriso a ogni bambina e alla rispettiva madre, accogliendole come meglio poteva. Anche Felicia sarebbe stata fiera di lei, ne era sicura.
Stava andando tutto per il meglio, quando si diresse in cucina per prendere altre bibite. Nel rientrare in salotto aveva colto il discorso tra due madri lì presenti.
«Dov’è il padre?»
«Non lo so. Per me non sa nemmeno chi sia, ecco perché non è presente».
A loro si unì il bisbiglio di una terza mamma, ben felice di poter gettare benzina sul fuoco: «È così giovane, secondo voi lascia a casa la figlia per andare a divertirsi? I figli illegittimi sono degni dei propri genitori»
«Sheila, che cattiva!». E risero in assenso. «Avete visto come la sta educando? La lascia libera di fare ciò che vuole, è assurdo»
«Forse perché è più occupata a pensare di trovare marito»
«Se qualcuno se la prende».
Decise di ritornare a respirare. Si asciugò gli occhi punti dal dolore e portò le bibite nella stanza, subito prese d’assalto dalle bambine assetate.
Cosa ne sapevano loro di come educava la figlia e come gestiva il suo tempo? Come si permettevano quelle puttanelle travestite da donne pie e bigotte di giudicarla senza conoscere la storia che aveva alle spalle?
Perché la gente era così cattiva?
Ma, soprattutto, dov’era Nathan?
Era convinta di non aver sbagliato tutto nella vita e in quel momento, loro, le stavano togliendo una delle poche certezze che aveva. Non sapevano cosa voleva dire vedere stravolgersi la vita senza nemmeno essere adulti, non sapevano cosa volesse dire vedere cambiare il proprio corpo senza vederlo maturo. Non avevano la minima idea, loro, di cosa volesse dire fare dei sacrifici per la propria figlia.
E non sapevano nemmeno il male che delle parole potevano infliggere.
«Mamma, dov’è papà?»
«Starà arrivando».
Decise così di stamparsi il sorriso migliore sulle labbra, di sistemarsi le orecchie da Minnie e diventare l’animatrice della festa, stando lontana da ogni madre che, comunque, si era ben guardata dall’avvicinarsi per scambiare due chiacchiere od offrire il proprio aiuto. Eppure sentiva i loro occhi come pugnalate nella schiena, le loro parole come lame che scalfivano la pelle e il cuore, ma lei era lì per la felicità di Naive, e contava solo quella.
Fu nel momento in cui aveva appena tagliato la torta che il suo cellulare le vibrò nella tasca. Approfittò della concentrazione sul dolce per allontanarsi e rispondere. Si diresse in cucina prima di schiacciare il tasto verde, l’unico luogo che quel giorno sembrava darle conforto.
«Nate, dove sei!» voleva porla come domanda, ma la disperazione di quella giornata si stava facendo sentire. L’avrebbe voluto lì  perché sarebbe stato il regalo più grande per Naive. Lo voleva presente alla festa perché aveva bisogno come non mai di un volto amico, di un sostegno a cui aggrapparsi in quel mare di odio in cui stava affogando. Voleva mettere a tacere le malelingue che le stavano lacerando la pelle. Era fondamentale per lei quanto per Naive quel giorno.
Forse, non era poi così diversa da sua mamma, rispetto al parere altrui.
«Sono ancora a San Fransisco…» provò ad aggiungere altro, ma il grido soffocato di Pemberley lo interruppe.
«Cosa? Stai scherzando?»
«Affatto. C’è stato un allarme bomba e hanno sospeso tutti i voli fino a data da destinarsi. Mi spiace Pem, ma non riesco a esserci. Forse arrivo domani. Mi dispiace mancare al compleanno di Naive».
Voleva morire. Come avrebbe potuto dire alla figlia che il padre non sarebbe arrivato? Come sarebbe uscita da quella cucina dandosi in pasto a quelle arpie senza sapere che Nathan sarebbe giunto in suo soccorso?
Non ce la faceva, semplicemente non riusciva a pensare di andare avanti a fingere, nemmeno per la figlia. «Tranquillo Nate. Anche a me dispiace, Naive ci rimarrà malissimo. Ma so che non dipende da te…»
Si appoggiò al muro, trattenendo i singhiozzi. Si sentiva morire, con il battito che veniva meno insieme alle forze. Aveva bisogno di riagganciare, di stare zitta e non pensare per un paio di minuti. Necessitava di immaginare di non essere lì, da sola, in quel momento.
«Ora sta mangiando la torta con le amiche, perché non la chiami verso cena, così riesci a salutarla e a parlarle?!». Sperava che il tono lacrimevole non avesse corrotto troppo le corde vocali che stavano cedendo al pianto, iniziando a bruciare.
«Ok, chiamo più tardi. Ti chiedo scusa, ma ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione. Mi dispiace tantissimo, spero di recuperare domani».
Ma era troppo tardi per recuperare, perché Pemberley stava morendo ora. Era in quel pomeriggio che lei stava pagando le cattiverie da cui la madre aveva cercato di scappare a sua volta, era in quel momento che lei si sentiva abbandonata a se stessa e al suo destino. Era lei quella data in pasto ai leoni senza essersene accorta prima.
«Lo so Nate, infatti non ce l’ho con te. Dai, a dopo. Devo tornare alla festa, serve qualcuno che tagli la torta prima che quei piccoli terremoti ci infilino le mani. Ciao». Non gli diede il tempo di rispondere, chiuse la chiamata al volo.
Scivolò lungo la parete cui era appoggiata, lasciando libere le lacrime di scorrere e ai singhiozzi di fare un minimo di rumore. Posò la testa sulle ginocchia, ignorando le orecchie di Minnie che ormai erano finite quasi sulla fronte e sfogando le sue paure e la delusione con il pianto. Era l’unica cosa che le riusciva in quel momento. Il solo mezzo per fronteggiare quel momento di panico che l’aveva paralizzata.
Quelle donne erano riuscite a farla affogare per la prima volta.
Sentì lo sguardo di Rhys bucarle il petto alla ricerca di qualche parola che potesse chiarirgli la via. Così, riscossa dalla sua vecchia vita, ritrovò il punto di partenza.
«Cos’hai pensato di fare con lui? Come pensi di gestire le vostre vite, ora?» doveva capire fino a che punto poteva conciliare la sua idea di famiglia con quella che Rhys aveva in mente; sentiva il bisogno di procedere per gradi.
Lui alzò le spalle, sconsolato e indifeso. «Non lo so. Penso lo manderò in qualche ottimo collegio estero, durante le vacanze estive una tata si occuperà di lui  e infine studierà in un’università qui, come Yale, Princeton o Harvard».
«Vorresti dirmi che sei convinto di mandare un ragazzino di undici anni, rimasto orfano e con un fratellastro sconosciuto come unico parente in un collegio straniero? Cosa ti dice il cervello?». Non poteva davvero credere di aver sentito ciò, era impossibile. Non voleva crederci. Era così cinico e senza cuore?
Rhys si sentì giudicato senza aver avuto modo di aprir bocca, cosa che lo fece mettere sulla difensiva. «Cosa dovrei fare? Io stesso sono cresciuto in questo modo! Non lo faccio per lavarmene le mani, ma perché io sono stato educato così». Giunse le mani lasciate penzolare tra le gambe. Quel fare inerme non gli si addiceva per nulla.
Non era cattiveria la sua, ma solo l’ottusità in cui era stato allevato e cresciuto.
Pemberley si sentì in dovere di provare a farlo ragionare come avrebbe fatto con Naive; ormai il suo istinto materno si riversava su chiunque. Era facile far ragionare la persona davanti a lei, anche se si trattava di Rhys, a volte era più difficile ragionare con se stessa.
«E come ti sei sentito a crescere così? Lontano da casa, dai tuoi; il dover chiedere aiuto a una tata e non a tuo padre o a tua madre…». Sperava che si ricordasse il senso di smarrimento che doveva aver provato durante la sua infanzia in uno di quei collegi sì lussuosi, ma freddi quanto il denaro con cui le laute rette venivano versate con rigida regolarità.
A lei non era mai capitata una cosa simile: aveva avuto tanti screzi con i genitori e un’educazione rigida, ma le erano sempre stati accanto, almeno come figure erano state presenze costanti, ma poteva immaginare quanto un uomo così anaffettivo fosse, in precedenza, un ragazzino ligio all’educazione impartitagli da figure esterne e non dai diretti genitori.
«Solo e abbandonato» rispose Rhys dopo averci riflettuto un po’.
Si ricordava come le stanze dei dormitori fossero ornate al meglio con le tende e gli scuri suntuosi e i mobili di ottimo legno. I letti erano a una piazza e mezza ed erano comodi, specialmente quando riempiti dai pensieri per una compagna di scuola.
Ma rimembrava alla perfezione anche la sensazione di freddo e vuoto quando serviva un consiglio, o l’abbraccio di un genitore in un momento di difficoltà. Se aveva un dubbio non poteva parlarne con i genitori se non per telefono, almeno fino a quando Mitchell era partito, così diceva la madre della sua fuga. Quando si ammalava non poteva chiedere le cure dei genitori, poteva solo agognarle nei deliri della febbre arginata dagli infermieri messi a disposizione nelle strutture.
«Vuoi che anche Austin si senta così e che cresca senza una guida, solo e senza riferimenti?!»
Voleva questo per lui? Era partito dalla Russia per arrivare negli Stati Uniti, era passato dall’avere un padre a un fratellastro molto più grande e mai visto; si meritava di fare la fine di una pallina del flipper e finire magari in Svizzera, senza l’unico punto di riferimento che doveva ancora imparare a conoscere?
Probabilmente no.
«In effetti no»
«E allora lascia perdere l’idea del collegio e della tata. Ci sono ottime scuole anche a New York, prendi una baby-sitter che lo prenda all’uscita da scuola e lo controlli quando sei a lavoro, ma dopo corri a casa. Devi diventare la cosa più vicina a un genitore che ha, non puoi sottovalutare la cosa o aggirare il problema, non esistono altre vie. Credimi, io lo so»
«È proprio per questo che mi sono rivolto a te». Provò a sorridere, ma sembrava che il peso della rivelazione di Pemberley gli avesse risucchiato le ultime energie. Era l’unica cosa che non voleva sentirsi dire, di quello ne era sicuro.
Non era pronto ad affrontare una relazione con una donna che era anche madre, e ora si ritrovava a essere padre a sua volta, il destino aveva un pessimo senso dell’umorismo, e lui non era tipo da stare al gioco. Stravolgere la propria vita per adattarsi a una nuova persona era un’esperienza nuova che non gli andava per nulla a genio.
«Peccato, pensavo fossi qui per me, non per il mio aiuto. Una donna ci spera sempre!». Ridacchiando aveva cambiato argomento, perché aveva letto la stanchezza negli occhi di lui. Forse aveva solo bisogno di sapere che le brutte notizie erano finite, quando in realtà il periodo più difficile della sua vita era appena iniziato e non aveva data di scadenza; eppure non c’era bisogno di metterlo al corrente di ciò proprio quella sera.
«Sei stato il mio primo pensiero e, credimi, non l’ho mai detto a nessun’altra» le sorrise stando al gioco ed essendole grato per aver portato a un livello più scherzoso l’atmosfera. «Spero tu possa darmi una seconda possibilità»
«L’ho fatto nel momento in cui ti ho permesso di varcare la soglia» rispose Pem un po’ più seria. «Mi auguro che ora tu non cambi di nuovo idea nei miei confronti»
«Hai altri figli?» sorrise divertito.
«Non che io sappia» poi sgranò gli occhi «Era forse una battuta? Stai migliorando!»
Sorrise compiaciuto del fatto che Pem avesse notato la sua vena ironica «È la stanchezza». Guardò l’orologio che portava al polso e si rese conto che era giunta l’ora di tornare a casa. «Meglio che vada, devo sistemare una camera degli ospiti per Austin. Suppongo di doverla riadattare alle sue esigenze e gusti»
«Bravo, mi sembra il primo passo per un’ottima convivenza». Pemberley sperava che potesse davvero funzionare. Per Rhys, perché nonostante non si sentisse tagliato per quel ruolo doveva imparare a conviverci, e per Austin, dato che era rimasto senza genitori troppo presto e aveva cambiato stato seguendo una persona a lui sconosciuta. Nessuno dei due aveva bisogno di un simile cambiamento, ma ormai era inevitabile per entrambi.
Rhys aprì la porta della camera di Naive e li trovò intenti a guardare un film di Harry Potter, mezzi addormentati. Richiamò il fratello con un certo imbarazzo, salutò la bambina e si diresse alla porta.
Lì trovò Pemberley pronta per salutarli e ricordare loro che erano i benvenuti.
E, come tempo prima, per rimandarlo al prossimo incontro, gli diede un bacio sulla guancia.
Un gesto che Rhys ritrovò con sorpresa e piacere, considerando che era così tipico di Pem da averlo quasi aspettato. Un bacio che lo aveva calmato più di qualsiasi discorso, infondendogli la fiducia che le parole non erano riuscite a dare.
«’Notte» le disse con un po’ di convinzione.
«’Notte ragazzi» rispose notando che gli occhi avevano ripreso un po’ del vigore perduto.
Naive li salutava con la mano, contenta di quel nuovo incontro. L’amico di sua mamma era un tipo a posto, specialmente se le portava nuovi amici con cui passare il tempo mentre loro parlavano di cose da grandi.
«Ciao Austin, ti aspetto per vedere il film successivo».
E la porta si intromise tra promesse di incontri a breve scadenza, ma sempre troppo lontani per due cuori troppo ottimisti.
«Mamma, Austin non è come gli altri bambini. Parla in modo strano, quando parla, e non ride mai, sembra sempre spaventato. Però mi sta simpatico, è ok»
«Vedrai che migliorerà piccola. Arriva da molto lontano e non conosce nessuno. Dagli il tempo di adattarsi e sarà ancora meglio». La spinse verso camera sua, dato l’orario. Era però convinta delle proprie parole, perché era un Hewitt, eppure era cresciuto senza le rigide imposizioni newyorkesi cui era stato sottoposto Rhys, aveva solo bisogno di tornare a vivere. «Ora su scricciolo, si va a nanna. È già tardi, domani c’è scuola».
La mise a dormire e, velocemente, indossò il pigiama: ad attenderla dopo quella giornata sfiancante c’erano le coperte calde, un richiamo a cui non riusciva a resistere.
Sapeva che doveva avercela con Rhys per essere stato così opportunista e averla cercata di nuovo nel momento del bisogno, ma c’era una parte di lei, nemmeno tanto piccola, che era semplicemente felice del suo ritorno; vederlo tornare sui suoi passi era stata per Pemberley un’immensa soddisfazione.
 
L’analisi mattutina era davvero una cosa a cui non riusciva a sfuggire ma che la demoralizzava a ogni esame.
Era strano pensare di avere ventisette anni e trovare il seno non più tonico ma provato dall’allattamento nonostante fossero passati dieci anni, non riusciva a guardarsi allo specchio e arrendersi alla forza di gravità. Come se non bastasse aveva dei capelli ingestibili che quella mattina avevano deciso di essere peggio del solito: la tinta li aveva resi aridi e ancora più crespi del normale, la ricrescita era ben visibile e i ricci che aveva cercato di domare in tutti quegli anni avevano deciso di esplodere proprio quella giornata.
Insomma, si vedeva un vero disastro, capiva perché gli uomini non la degnassero di uno sguardo.
In realtà non si era mai resa conto di far girare ben più di una testa lungo la strada, questo perché lei stessa era la prima a non prestare attenzione ai passanti; come poteva rendersi conto di chi la circondava quando il pensiero costante era stato rivolto in precedenza a Naive, e ora a Rhys e Nate?
Non c’era spazio per gli sconosciuti, quando a malapena aveva tempo per pensare agli altri oltre alla figlia, non poteva permetterselo.
Si guardò allo specchio e decise di vestirsi, fissare il proprio corpo riflesso non avrebbe donato tonicità al seno né tantomeno coperto la ricrescita scura. Lasciò che le mani passassero dal petto al reggiseno, dove sicuramente il seno avrebbe fatto una figura migliore e si pettinò i capelli con fare sbrigativo, Naive si sarebbe svegliata a momenti e avrebbe reclamato la propria colazione.
Era quasi soddisfatta del modo in cui aveva ovviato ai propri problemi, quando la figlia si palesò in cucina ancora assonnata, guidata dal profumo del pane tostato e del burro d’arachidi.
Fissò la madre con sguardo attento, tanto da farla voltare con aria scettica e un sopracciglio alzato, infine sentenziò: «Mamma, hai dei capelli orrendi oggi!».
Era tipico di Naive smontare ciò che credeva di aver fatto con un minimo di criterio, ma sapeva che i bambini erano la fonte della verità. Se una bambina era convinta che avesse i capelli orrendi, chissà cosa avrebbe potuto pensare un adulto.
«Cosa dici, mi faccio una treccia?» le chiese accigliata, vagliando ogni singola ipotesi.
«Sì mamma, stai benissimo con la treccia, sembri davvero una principessa». Morsicò un pezzo di pane imburrato e con la bocca piena continuò «La fai pure a me?»
«Solo se la smetti di parlare con la bocca piena!» la redarguì prima di sedersi a tavola con una tazza di caffè fumante davanti. La piccola annuì e sorseggiò un po’ del suo latte freddo, ottimo per accompagnare il burro d’arachidi.
Solo in bagno, mentre Pem le stava intrecciando le ciocche scure, irruppe con una frase che non si ricollegava a nessun loro discorso precedente.
«Ti ricordi che stasera sono da papà, vero? Devo finire di sistemare la camera, poi potrò dormirci, finalmente!» era così contenta di veder la propria stanza a casa del padre completa da averlo ricordato a tutti. Quella sera Pemberley sarebbe stata a cena da Nathan, orgoglioso di mostrarle l’appartamento sistemato e pronto per ospitare lui e la figlia. Era un pensiero strano, ma comunque piacevole.
«Certo scricciolo, me lo ricordo eccome, ne parli così spesso. Impossibile dimenticarlo!» la prese in giro mentre le legava l’estremità della treccia.
Poi passò alla propria chioma, rendendosi conto di avere, alla fine di quell’operazione, un aspetto umano e dignitoso che sarebbe andato bene anche a lavoro. Adorava le trecce, le ricordavano l’adolescenza e la sensazione di sentirsi la principessa coccolata che si era sempre immaginata.
 
Non avrebbe saputo dire come quella giornata fosse trascorsa senza il suo consenso, ma aveva finito il turno da Forbes e si stava preparando per andare a cena da Nathan, dove avrebbe già trovato Naive tutta eccitata per la sua nuova stanza.
Era possibile che solo quella mattina sua figlia l’avesse ripresa per i suoi capelli osceni? Ed era possibile che solo ieri sera Rhys si fosse presentato a casa sua con un bambino per chiedere il suo aiuto?
Le sembravano passati anni, non meno di ventiquattro ore, e si sentiva sempre più vecchia per questa percezione del tempo così alterata.
Ora, vestita con un paio di semplici jeans, una maglietta e con la treccia fresca di rifacimento si sentiva una persona a modo, pronta per passare una serata tranquilla. Aveva suonato all’indirizzo che Nathan le aveva mandato in un messaggio sul cellulare, e aveva suonato alla vista della targhetta Alcott.
«Ottavo piano» rispose Nate al citofono, con strani rumori di sottofondo.
Prese l’ascensore e raggiunse l’appartamento designato in poco tempo. Aspettò un poco prima di aprire la porta ed entrare, perché quell’atrio le piaceva, era pulito e silenzioso, le donava una certa calma e tranquillità. Dava l’impressione che nel mondo nessuno potesse vivere di corsa, perché nessuno che avesse avuto fretta sarebbe potuto passare di lì e non notare il clima sereno che quel corridoio donava.
«Entra». La invitò Nathan aprendo la porta di sorpresa. «Benvenuta nella nostra umile dimora».
Pemberley rise, perché aveva notato solo dopo aver varcato la soglia che il padre di sua figlia aveva uno straccio poggiato sulla spalla, una macchia di sugo sullo zigomo e una sul braccio, mentre in una mano reggeva una pentola e con l’altra mescolava il contenuto.
«Stai cucinando? Davvero? Vuoi forse farci morire tutti?!» non si sarebbe mai aspettata una cosa simile, dato che era abituata a vederlo servito e riverito dai suoi, quando andavano a scuola. La mattina mangiava le sue adorate uova fritte con il pane tostato, per poi passare ai pranzi in mensa, dove riusciva a ingurgitare quantità considerevoli di cibo che aveva lo stesso sapore nonostante i diversi ingredienti e si arrivava alla cena, dove sua madre cucinava pasti che partivano dall’antipasto per arrivare al dolce, e Nathan – ovviamente – gradiva sempre tutto. Gli aveva sempre invidiato il metabolismo veloce. Lei era sportiva, ma non poteva mangiare come se non ci fosse stato un domani, non smaltiva alla velocità del suo ragazzo.
«Ehi, così mi offendi! Vivo da solo da quando ho diciotto anni. Prima ho imparato a sopravvivere, ora so cucinare in modo decente. Credimi, Naive ha testato la mia cucina e, oltre a rimanere viva, l’ha pure gradita» disse orgoglioso, senza accorgersi che il pomodoro nella pentola continuava a creare macchie sulla sua maglietta, dato che lo mescolava sovrappensiero.
«Sì, esatto» indicò con il mestolo alla tacita domanda che Pemberley gli rivolse, cercando di capire se l’attaccapanni era nascosto nel mobile all’ingresso.
«Ranocchietta!» urlò lui ricordandosi della cena sui fornelli «È arrivata tua madre, vieni a salutarla e a mostrarle casa, io sto finendo di preparare la cena!». Si tolse il sugo dallo zigomo con lo straccio, poi si rivolse di nuovo a Pem. «Il tempo di infornare la pasta e giuro che arrivo, intanto inizia con Naive a visitare l’appartamento».
Era rimasta lì da sola, nell’attesa della figlia, in balìa della sue sensazioni.
Quella casa sapeva di Nathan ed era perfetta per lui. Nell’aria, oltre che aleggiare l’odore invitante della cena, c’era la leggera scia del suo profumo di sempre. Inoltre c’era odore di detersivo e profumi per ambiente, quelli che rendevano le case famigliari e meno impersonali. Aveva sbirciato il salotto, nei paraggi dell’entrata, e l’aveva apprezzato per i toni chiari e neutri con cui era stato dipinto. C’erano stampe di città straniere a riempire le pareti e un mobile pieno di film e libri, oltre a un vaso pieno di steli verdi che colmava un vuoto di un angolo. Sul divano blu c’erano dei cuscini e delle coperte.
Quella parte di casa era in ordine ma non perfetta, e lei aveva adorato quella cosa perché rispecchiava Nathan nella sua essenza: un casino ordinato. Vissuto e con esperienza senza avere l’aspetto disordinato che ci si immaginava potesse avere una persona che sconvolgeva le vite altrui.
Non era l’appartamento di uno scapolo incallito che puntava a stupire le proprie prede, ma di un uomo single che teneva alla propria indipendenza e che apprezzava avere la casa in ordine, sapendo che almeno quella poteva essere gestita, al contrario della vita. Era bello vedere che Naive sarebbe stata in un ambiente per nulla pretenzioso ma comunque curato, pensato apposta per accoglierla e soddisfare i bisogni di entrambi.
«Ciao mamma!» la salutò da dietro, facendola spaventare come se l’avesse sorpresa a ficcare il naso in affari che non la riguardavano. «Hai visto? Non è bellissima? Se vieni con me ti mostro le altre stanze, ma per ultima lascio la mia perché è la più bella di tutte!»
La prese per mano e la condusse per il resto della casa come se fosse stata lì da sempre. Pemberley aveva il sorriso stampato in faccia: non solo l’entusiasmo della figlia era contagioso, ma il sentirla parlare così bene le faceva pensare che gli insegnamenti di pedagogia che aveva ricevuto non erano sbagliati. Ricordava sempre quando la sua professoressa, ai tempi, diceva alla classe: “Parlate bene ai bambini, perché impareranno ciò che sanno da voi. Non dite mai ‘stammi davanti’, ma usate la parola ‘precedimi’. Più parole conoscono, più scelte avranno per essere educati in futuro”.
Era vero. E quel ‘mostrare’ uscito dalla labbra di Naive con una certa naturalezza la rendeva fiera di quello che in dieci anni aveva fatto.
In ordine le aveva mostrato la camera di Nathan, il bagno e ora era pronta per vedere la camera della figlia, raggiunte anche dal padrone di casa.
Era l’opposto della stanza che l’aveva accolta per dieci anni. Non c’erano peluches a riposare sul letto, le pareti non erano lilla e non avevano arcobaleni glitterati come stencil. Era nei toni del verde acqua con una greca a metà parete per separare delle linee verticali bianche e della stessa tonalità della parte superiore. Era bella, ordinata e calma. Il letto era a una piazza e mezza, e un grande specchio campeggiava in un angolo della stanza, accanto all’armadio, mentre la scrivania era accomodata sotto la finestra che dava su uno spazio verde dietro il palazzo.
Il rendersi conto di quanto sua figlia non fosse più una bambina, ma iniziasse a vedere le cose come una ragazzina con i propri gusti e i propri pensieri, la atterrò. Le sembrava di averla sempre tenuta vincolata al passato, fatto di bambole di pezza, abbracci e denti caduti. Invece Naive aveva gli occhi profondi di chi stava crescendo e facendosi domande sul resto del mondo, sui ragazzi e sul futuro, e lei non se n’era mai accorta.
«Allora, come ti sembra mamma?» la figlia era entusiasta, seduta sulle lenzuola sobrie, di un color lavanda con i pois bianchi. Strideva con la maglietta dai colori accesi e un cuore immenso che campeggiava sul petto.
«È magnifica scricciolo, davvero». Un nodo di frustrazione le serrava la gola. Come aveva potuto essere così cieca?
«Ranocchietta, perché non vai a vedere se la pasta è pronta?». Nathan aveva notato la tristezza nello sguardo di Pemberley, la conosceva abbastanza da capire che qualcosa non andava.
La piccola non se lo fece ripetere due volte e corse verso la cucina, contenta di aver avuto l’approvazione della mamma.
«Ehi, Velvet, cosa c’è?» le si avvicinò dandole un leggero colpo con la spalla, palesando la sua presenza.
Gli dispiaceva vederla incupita di colpo, sperava che quella potesse essere una tranquilla serata nella loro idea singolare di famiglia.
«È bellissima la camera Nate, solo che mi sono resa conto che la sto trattando ancora come se fosse la bambina di sempre, ma Naive sta crescendo» si mise le mani sulla faccia a nascondere il tono piagnucolante e il bruciore agli occhi. «Sono vecchia».
Lui allargò le braccia ridacchiando «Un’adulta che si sente vecchia e piange come una bambina nella camera di una bambina che sta diventando grande».
Il gesto la spinse a prendersi il calore di quell’abbraccio tra le braccia di lui, trovando la familiarità di una gioventù andata persa troppo presto e sentendosi di nuovo giovane e con mille prospettive davanti.
«Non prendermi in giro» e gli diede un pugno sul petto, senza fargli male. Era difficile scalfire la corazza alimentata da un cuore spezzato e da un buon allenamento in palestra.
«Non ti prenderei mai in giro» sorrise Nate prima di stringerla e depositarle un bacio sulla fronte.
Era facile stare lì, fermi, in mezzo al silenzio totale e al nulla, come se il resto del mondo non esistesse. Pemberley si sentiva di nuovo la ragazzina che tra quelle braccia si sentiva sicura e protetta. La tranquillità che Nate riusciva a donarle non l’aveva dimenticata, ma l’aveva accantonata in una parte lontana di sé, confinata insieme a tutti i sogni irrealizzati e alle parole non dette in passato. L’angolo dei rimpianti e del mondo da scoprire, dove lui era l’unica certezza in un mare insicurezze.
«Mamma, papà, c’è pronto!» Naive, con il tempismo ereditato da entrambi, ricordò loro che il mondo non aspettava nessuno, com’era successo a entrambi quando avevano scoperto di aspettarla.
Nathan la lasciò andare, regalandole un buffetto affettuoso sulla guancia. «Andiamo di là prima che provi a tirar fuori la pasta dal forno e si scotti».
Rimase colpita da quel pensiero così altruista, non era da Nathan. Sapeva quanto fosse difficile per lui pensare una cosa simile, dato che non era abituato ad avere a che fare ininterrottamente con una bambina, fu felice di questa cosa. Ricordava come Nathan, al liceo, riusciva a mettere se stesso al primo posto. Era l’ambizione a fare del suo meglio – soprattutto nello sport – a portarlo avanti e a fargli guadagnare poi la borsa di studio cui aveva aspirato da sempre. Subito dopo veniva Pemberley, ma a lei andava bene. Si completavano, ma ognuno aveva i propri spazi. Non erano stati come le coppie di comuni adolescenti che passavano le ore a consumarsi le lingue e a infilare le mani sotto le magliette; loro si conoscevano e contavano sull’alchimia per ridere e sopportarsi. Non erano solo amanti, ma anche amici, e questo faceva una gran differenza.
«Grazie scricciolo, ora ci penso io» disse Nate entrando in cucina per indossare i guanti ed estrarre la teglia dal forno mentre Naive e Pem lo fissavano concentrate, come se potessero vedere la loro cena andare persa da un momento all’altro.
Posò la pasta al centro del tavolo del soggiorno, poi invitò le due donne a prendere posto e le servì riempiendo loro i piatti.
«Giuro che se mi avessero detto che un giorno avresti cucinato per me, avrei riso in faccia a chiunque avesse pronunciato certe parole!» Pemberley scosse la testa divertita, mentre agitava la forchetta vicino al piatto pieno e invitante.
«Anche a me sembra strano. Non sapevo gli uomini cucinassero» detto quello, Naive soffiò sulla pasta e l’assaggiò senza pensarci due volte. Spalancò gli occhi e fece di tutto per inghiottire il più in fretta possibile. «E pure bene. Papà, è meglio di quella dell’altra volta. Sei bravissimo!»
«Davvero!» aggiunse la madre con la bocca mezza piena, non seguendo l’esempio della piccola «È squisita»
«Siete due malfidenti». Le ammonì Nate divertito e soddisfatto della riuscita del suo piatto. «Ma vi perdono perché il vostro scetticismo era comprensibile».
Il cibo aveva zittito tutti, in modo da vedere il fondo dei piatti in poco tempo. Solo tra il primo e il secondo Naive si concesse di guardare i genitori con fare attento e quasi invasivo, tanto che entrambi, al suo sospiro, furono attratti da quello sguardo così concentrato e quasi fastidioso.
«Cosa c’è?» il padre era curioso. Ogni gesto della bambina era per lui nuovo e rappresentava un segreto da scoprire. Non sapeva che nemmeno Pemberley non era a conoscenza di cosa passava nella testa della figlia ma poteva solo dire che stava pensando qualcosa, dato che la testa era inclinata verso la spalla e il mento protratto un po’ in avanti. Conosceva le espressioni di Naive e la curiosità che celavano, ma non ciò che dietro essi si nascondeva davvero.
«È strano essere qui tutti insieme». Sospirò di nuovo. «Ci è già capitato di cenare insieme e ridere quando venivi a farci visita, ma accadeva in un ristorante. Invece ora siamo qui, a casa tua, e hai cucinato, e non siamo di fretta perché nessuno perde voli o treni. Sembriamo davvero una famiglia» abbassò lo sguardo, imbarazzata per ciò che aveva detto.
Naive aveva gli occhi di una persona che sognava più di giorno che di notte, con la speranza che il mondo in cui viveva fosse all’altezza delle aspettative di quello che si immaginava.
«In effetti… È strano che tu non debba andartene da un momento all’altro. Sei tu che ci stai ospitando, e non il contrario» sorrise Pemberley sorpresa dalle sue stesse parole, non ci aveva mai riflettuto prima.
Si rese conto di quanto la situazione dovesse essere strana per la figlia, e una fitta le attraversò il cuore. Quando aveva scoperto di essere incinta aveva pensato al bene di Nathan, non pensando a se stessa, era inoltre sicura che la bambina sarebbe cresciuta nell’amore più totale; e così era stato. Aveva cercato di darle una famiglia il più normale possibile: Nathan l’aveva riconosciuta, difatti Naive era una Alcott a tutti gli effetti, e appena aveva potuto aveva sempre bussato alla loro porta per abbracciare la figlia e preoccuparsi delle due donne che, in un modo o nell’altro, facevano parte della sua vita. Non erano una vera famiglia, ma erano la cosa che più ci si poteva avvicinare. Il padre era stato distante, ma tenuto lontano da lei solo dalle miglia, perché si era dimostrato sempre presente, a modo suo. E ora Naive stava crescendo e faceva capire quanto il senso di famiglia le fosse mancato. Avrebbe iniziato a fare domande riguardo la sua decisione? Quando avrebbe cominciato a odiarla?
«Ma ora sarà tutto diverso. Io sono qui e non ho intenzione di andarmene… Non finché la Nike non mi licenzierà, almeno!» cercò di sdrammatizzare, perché gli sguardi delle altre due gli facevano stringere il cuore.
Naive era imbarazzata, l’aver confessato un pensiero così intimo doveva farla sentire esposta, perché non era mai facile raccontare le storie delle proprie ferite. Nathan ne sapeva qualcosa, perché lui stesso non amava parlare delle cicatrici che l’avevano segnato e costretto al silenzio, soprattutto se riguardavano Pemberley e la figlia; i segni più evidenti della sua battaglia persa.
Pemberley era triste, invece, e sapeva che a destare la sua preoccupazione erano state le parole della bambina. Sperava solo di aver distolto l’attenzione di entrambe da quel discorso troppo difficile per essere affrontato tra un primo e un secondo.
«A proposito di Nike…» si intromise Naive «Quand’è che me ne porti un paio personalizzate?» alzò un sopracciglio, in quell’espressione interessata e sfrontata che aveva ereditato dal padre, una smorfia che la rendeva più piccola e innocente. Dio, ancora qualche anno e avrebbe fatto innamorare qualcuno senza nemmeno saperlo.
«Ci sto lavorando scricciolo, e sul tuo modello preferito. Arrivano presto, te lo prometto» sorrise mentre la guardava finire il secondo e chiedere il permesso per congedarsi dopo il dolce.
Salutò i genitori e si chiuse in camera per vedere il suo telefilm preferito, aveva detto che in quella puntata veniva rivelato qualcosa di importante, qualcosa che in tutta la stagione in corso era rimasta celata e non poteva proprio perderla.
Pemberley stava ancora ridendo, mentre con il cucchiaino puliva il piatto del dolce e con l’altra mano scostava la treccia dietro la schiena, odiava avere la sua massa di capelli vicino al cibo, perché rischiava di sporcarsela. Da sbadata qual era, avrebbe anche potuto intingere le punte nel piatto, e sapeva non sarebbe stata una cosa carina.
Quando Nathan notò il gesto di Pem sorrise e si lasciò andare in un respiro stanco, pieno di nostalgia.
«Mi è sempre piaciuto vedere i tuoi capelli legati in una treccia che cadeva sulla spalla» ammise con lo sguardo acceso, come se fosse pronto a rivelare un segreto scabroso.
«Come mai?» lei era curiosa. Aveva imparato che le rivelazioni di Nate non avvenivano a cuor leggero, custodiva le frasi collezionate negli anni nella propria memoria, piccole perle di una collana che formava la sua vita, il suo primo amore.
«Perché mi davi la scusa per attirarti a me tirandoti per i capelli. Mi sembrava un gesto così possessivo e intimo… Inoltre la tua treccia era così bella che invogliava a toccarla» chiuse la mano a pugno e si accarezzò il palmo, quasi avesse tra le mani ancora i capelli e potesse sentire la stessa sensazione.
Pemberley ricordava quanto le piaceva essere attirata così a lui. Sapeva che il bacio che sarebbe seguito era un bisogno impellente, il barlume della disperazione che provava anche lei quando Nate era lontano. Era assuefatta a lui e alla sua presenza, a quell’odore di sport e divise pulite che solo lui riusciva a emanare. Lo stesso odore che aleggiava in casa e che, nonostante i lunghi anni trascorsi, la faceva sentire al sicuro, protetta nello stesso ricordo di Nate di ogni bacio che si erano scambiati.
Lo aiutò a sistemare il tavolo e i piatti sporchi nonostante le sue lamentele continue. Fu solo quando gli sbadigli di Pemberley si infilarono con troppa assiduità nella loro conversazione che Nate la invitò a tornare a casa prima di schiantarsi di in auto sulla strada del ritorno. Non era pronto a fare il padre single.
«Se vuoi puoi rimanere qui, il divano più piccolo diventa un letto matrimoniale… Be’, quasi». Sghignazzò indicandolo.
«No, grazie, preferisco il mio letto. Quello vero. Giuro che non mi addormenterò al volante. So quando riesco a guidare o meno, ma apprezzo comunque l’offerta». Voleva solo andare a casa e addormentarsi al centro del letto. Sarebbe stato strano senza Naive, ma doveva abituarsi, come Nate doveva fare l'abitudine alla presenza della figlia in casa senza che lei fosse nei dintorni.
«Quando vorrai c’è un posto anche per te. Mi casa es tu casa!» e le regalò quella smorfia stralunata che la faceva sempre ridere di cuore.
Lo salutò e lo stesso fece con Naive, ricordandole di non andare a dormire troppo tardi perché se no il giorno successivo non sarebbe stata abbastanza attenta per seguire le lezioni.
Si congedò con la certezza di aver lasciato la figlia in ottime mani e, per la prima volta, li lasciò davvero soli, pronti a conoscersi davvero.
 
Nathan uscì dalla cucina solo dopo averla sistemata. Aveva lasciato la figlia in salotto, intenta a guardare la televisione e sperava che avesse trovato un buon film da vedere insieme. Non sapeva quali gusti avesse la figlia, ma sapeva di dovercisi adattare per passare del tempo con lei e provare a conoscerla. La cosa lo elettrizzava e lo atterriva, era combattuto a riguardo.
Quando entrò nella stanza la trovò seduta per terra, intenta a fissare la grande parete piena di film e libri accomodati senza un preciso ordine, per lui l’importante era stato averli con sé e a disposizione, non era importante che fossero divisi per nome o per tipologia, non era quel tipo di persona a cui piaceva gestire ogni aspetto della propria vita, anche il più insulso.
«Tesoro, cosa stai facendo? Non c’è niente in tv?» le si sedette accanto. Avrebbe gradito la comodità e la morbidezza del sofà, ma se Naive era seduta sul pavimento c’era un motivo, e lui voleva capirlo. Si trovava patetico e divertito, era da anni che non gli capitava di sedersi a gambe incrociate come un ragazzino. Era come sentirsi vecchio e ringiovanire tutto d’un colpo.
«Stavo guardando…» non finì la frase appena sussurrata, e indicò la costa di un volume non molto alto, di color mattone.
Nathan lo riconobbe subito, era l’annuario dell’ultimo anno di liceo. In quella foto era stato immortalato un futuro padre, e Pemberley era incinta e la pancia iniziava a vedersi. Ricordava come il suo viso iniziasse a essere più pieno, ma ancora più bello per lui, se possibile.
«E perché non l’hai preso? Non mangia!» lo fece lui sotto lo sguardo intimorito della figlia. Si girò a guardarla con un sorriso e l’annuario cadde a terra con un tonfo, facendo sobbalzare entrambi.
Naive rise. «Succede spesso anche a me».
Era contenta di poter cambiare discorso, perché non voleva rivelare al padre il perché di quel mancato coraggio. Voleva conoscere i genitori, in particolare desiderava vederli quando stavano insieme e l’avevano concepita. Era una fantasia morbosa, per lei.
Aveva sempre visto i genitori separati ma affiatati, si vedeva anche dall’esterno che si volevano ancora bene e andare d’accordo non era una forzatura. Preferiva avere dei genitori separati e in armonia che litigiosi e uniti sotto lo stesso tetto come molti dei suoi compagni. Non li aveva mai sentiti litigare e non aveva mai pianto a causa delle loro urla, come era successo a Mandy, per esempio. C’era quel però che voleva sapere di più, capire cosa li aveva portati a concepirla, vedere se avevano provato davvero l’amore che vedeva nei film e leggeva nei libri che aveva per casa.
Assomigliava di più a sua mamma da giovane per via dei capelli lunghi e scuri o gli occhi marroni la rendevano più simile al padre? Non sapeva dirlo, e un po’ la torturava quel pensiero.
Vederli uniti e giovani, forse l’avrebbe aiutata a vedere quel senso di famiglia che sbirciava nei compagni di scuola e che non trovava nella propria vita. Le mancava un po’ l’unità di un tetto unico e due figure che cooperavano per uno scopo comune, ma per i suoi genitori non una grande mancanza perché facevano il loro meglio per farla sentire amata e seguita, difatti non aveva nulla da appuntare loro. Al massimo, la presenza di un cucciolo in casa.
Insieme scorsero le pagine ingiallite con le foto di club e studenti, e Nathan si perdeva in racconti divertenti e nostalgici riguardanti l’ultimo anno del liceo, racconti che riguardavano anche Pem e che rendevano il cuore di Naive colmo di gioia per quelle scoperte inaspettate e inebrianti.
Poi Nate girò di nuovo il foglio e si fermò. Lì, sorridente e più paffuta del solito, c’era la faccia solare e splendida di Pemberley, impressa con il suo sorriso dolce ed educato, mai troppo esplicito per comunicare la sua felicità.
«Bisogna capire: capire è il primo passo per accettare, e solo accettando si può guarire». Ricordava di aver già letto una simile frase, ma non sapeva dove. Di certo rileggerla alla luce di quei fatti assumeva un significato dal retrogusto amaro e un oscuro presagio, peccato che ai tempi fosse solo un ragazzo di diciassette anni e non riuscisse a vedere molto lontano, al contrario di Pemberley.
Naive mosse un piede e un nuovo rumore attirò la loro attenzione. Raccolse da terra una striscia di carta lunga e sottile. La mostrò al padre, che rimase senza parole.
La prese dalle mani della figlia e la analizzò da vicino. La carta era ingiallita, ma le immagini erano ancora nitide. Non si ricordava nemmeno di avere quelle foto nell’annuario o di essersi prestato davanti all’obiettivo, ma in quel momento il passato lo colpì con una forza inaspettata.
Era una giornata di fine giugno, qualche giorno dopo i diplomi e poco prima della scomparsa silenziosa e lacerante che Pemberley stava meditando nelle mura della sua testa. La sua pancia era di quattro mesi e iniziava a fare capolino dai vestiti, tanto che i jeans non le entravano più. L’aveva pregato di accompagnarla al centro commerciale e, anche se non era affatto dell’idea di sottoporsi a una simile tortura, decise di accettare.
Pem sosteneva con fervore di dover comprare vestiti più larghi, magari premaman, ma aveva deciso poi di comprare solo indumenti di una taglia più larga, perché i capi per donne incinte erano orrendi, o così aveva detto. Tra un giro per un negozio e l’altro ci aveva infilato il suo frappé al latte vanigliato preferito, perché il loro bambino non poteva nascere con qualche voglia. In quel momento Nate stava avendo il ricordo di un bagliore triste negli occhi: lei stava già decidendo di fuggire, e lui era all’oscuro di tutto.
Prima di entrare nell’ennesimo negozio alla ricerca di un vestito carino che non segnasse sulla pancia, si fermarono per ridere di una loro battuta proprio davanti a una cabina per le fotografie. Senza dire una parola Pemberley la indicò con la testa, non perse tempo e ci trascinò Nathan con inaspettata forza.
Lesse le istruzioni mentre lui prendeva posto sullo sgabello scomodo che quel cubicolo offriva. Quattro scatti che venivano stampati in verticale, uno di seguito all’altro. Il timer era attivato ogni volta da loro e scattava dopo dieci secondi. Tutto chiaro.
Appena lei si sedette sulle sue ginocchia lui schiacciò il pulsante a tradimento: così, senza concordarsi sulle pose, la foto li immortalò mentre si guardavano ridendo, timidi e impacciati colti alla sorpresa dallo scattare della macchina.
La seconda li ritraeva con gli sguardi rivolti verso l’obiettivo, le smorfie ironiche con le lingue di fuori e un braccio di lei attorno al collo di lui, come a volerlo strozzare.
Nella successiva Pemberley l’aveva preso per il collo della maglietta e tirato a sé, Nathan invece le stava accarezzando la guancia e lo sguardo che si stavano scambiando era così intimo da far sentire in imbarazzo anche lui dopo tutti quegli anni. Era possessione e amore come non aveva mai conosciuto poi.
L’ultimo immortalava un abbraccio. Pem nascosta dietro il viso di Nate affondato tra i suoi folti capelli e le braccia di lei al collo. Un groviglio che ben li rappresentava come quel miscuglio che per anni li aveva resi una cosa sola.
«Papà, ci sei?» Naive lo riportò alla realtà accarezzandogli una spalla. Quel tocco fu gradito, non adorava perdersi nel rimorso di quello che era stato e non c’era più, aveva troppe domande a riguardo e troppo poco coraggio per porle. A volte conoscere la verità non era un bene.
Le accarezzò la testa, rivolgendole tutta la sua attenzione. «Scusa, ma questa foto mi ha fatto pensare ai vecchi tempi» e poi le cinse le spalle con un braccio «Sai, qui tua madre ti aveva nella pancia».
E in quel momento stava capendo perché Naive lo spaventava così tanto. Era strano vedere il frutto di qualcosa che era andato perso, constatare ogni momento quanto la figlia fosse simile a Pemberley ogni giorno di più, con alcuni tratti che la rimandavano a lui, come la pelle e gli occhi più scuri.
«Sei uguale a lei» e le diede un bacio tra i capelli più simili ai suoi. Erano scuri e dritti, non gonfi e ricci come quelli di Pem.
«Io più ti guardo e più penso di assomigliarti» disse la piccola fissandolo attentamente negli occhi, cercando di trovare in essi la stessa sfumatura dei propri; cosa che, a un occhio esterno, non sarebbe stato difficile da individuare, ma forse Naive cercava qualcosa di più profondo e indelebile, un qualcosa che potevano capire solo loro.
«Diciamo che sei un buon miscuglio di entrambi» rise nel vederla così allegra dopo quell’affermazione. Era strano come bastasse poco a un bambino per essere felice.
«Posso farti una domanda?» domandò poi lei, torturando il labbro con i denti.
«Certo, ma solo se ci sediamo sul divano. Ho una certa età ormai e queste posizioni sono un po’ scomode!»
Non si ricordava che suo papà fosse così ironico, o forse non lo sapeva. Annuì e gli regalò un altro sorriso, poi lo vide alzarsi e lo seguì sul divano sempre con l’annuario e le foto tra le mani. In effetti lì era molto più comoda anche lei.
«Pensi che la mamma sia una principessa?» non attese nemmeno che si fossero sistemati meglio.
Nate si girò di scatto con gli occhi stralunati. Che razza di domanda era? Era frutto della mente della figlia o era la madre degenere a metterle in testa strane idee?
«Stasera con quella lunga treccia sembrava Raperonzolo» disse Naive rapita, la voce densa del senso d’ammirazione che provava per la mamma. «Anche se stamattina era spaventosa. Aveva dei capelli terribili. Sono stata io a dirle di fare qualcosa!»
Si indicò fiera il petto, facendolo ridere divertito.
Ora capiva tutto: per Naive la madre era una persona magnifica, il modello a cui ispirarsi per crescere con un punto di riferimento. Era contento che la prescelta fosse Pemberley, nella sua singolare sregolatezza affettiva, e non Courtney Love o qualche icona famosa ma poco raccomandabile.
«Scricciolo, tua madre non è un principessa, ma una regina». Era stata la regina del suo cuore, colei che l’aveva spezzato ed era rimasta così senza casa, perché in esso albergava, anche se non poteva immaginarlo con certezza.
«Quindi non pensi che abbia bisogno di un principe?». La piccola era rimasta colpita da quella risposta, e la visione di Rhys con il cavallo bianco e la casacca azzurra, in quel momento, strideva con l’appellativo che il padre le aveva appena fornito. Era limitativo.
«No, non le spetta nientemeno che un re. Cosa ne dici, ci guardiamo l’ultimo Step Up?» voleva cambiare argomento. Parlare con Naive di Pemberley non era affatto facile, era come aprire il proprio cuore alla diretta interessata e si era giurato di non farlo mai più dopo la loro rottura. Non sapeva dove la figlia volesse andare a parare, e non voleva dire cose che non avrebbe potuto capire o, peggio, travisare.
Step Up, quindi, sembrava un ottimo compromesso per entrambi.
Naive annuì, e decise che nella sua vita non doveva limitarsi a trovare un principe azzurro; anche lei, come sua mamma, voleva la presenza di un re, un giorno.
Eppure in quel momento aveva capito che il padre sarebbe stato il primo sovrano del suo cuore, dandole le risposte che cercava e stupendola con parola che non pensava di sentirsi dire riguardo la madre.
«Sono felice di essere qui» gli rivelò assopita mentre il film correva sullo schermo.
Quelle parole avevano reso un re un semplice papà alle prime armi.

* * *

Con immensa vergogna mi ripresento al vostro cospetto.
Vi chiedo scusa per avervi fatto attendere due mesi, quasi, ma il tempo è poco, l'ispirazione non c'è sempre, la storia è complicata e i casini si moltiplicano come era successo a Gesù con il pane e i pesci (non ho sbagliato, vero? AIUTO!).
Prima di tutto vi linko come mi immagino Pem alla festa dei sei anni di Naive: Pemberley con le orecchie da Minnie.
Riguardo il capitolo in realtà  non ho molto da dire: si scopre chi è Austin e che ruolo ha. Si vede come Nate voglia recuperare il rapporto con Naive e invece come Rhys, nella sua stessa situazione, debba fare i conti con questa nuova prospettiva di vita.
Una precisazione: so di aver fatto una carneficina/sterminio di massa della figura genitoriale, ma serviva ai fini della storia. inoltre, anche a fini narrativi, perchè sarebbe stato impossibile seguire tutti i genitori, anche in modo superficiale.
Quindi, ricapitolando, ho ammazzato ancora prima di farveli conoscere: i genitori di Nate e Cassidy, la mamma di Rhys, il papà di Rhys e Austin e la madre di Austin.
Io comunque spero vi sia piaciuto e farò di tutto per aggiornare il prima possibile.
Ringrazio chi continua ad aggiungere la storia e chi la legge, e un grazie immenso a chi rende palese il suo parere con una recensione. Siete tutte preziose, grazie mille!
Vi ricordo che per spoiler, avvisi, chiacchierate e foto dei personaggi c'è il gruppo facebook: Love Doses.
Scusatemi ancora per l'immenso ritardo...
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

   
 
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