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Autore: hanabi    03/05/2013    2 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Deyan aveva negoziato con i Marjaban per spingere il più avanti possibile la data del duello contro Saraji. Kurmaji, che ne aveva intuito i motivi, aveva acconsentito cedendo alla propria curiosità. Saraji si era infuriato, ma l’ultima parola spettava ai maghi... non gli era rimasto che accettare. 

Ran intanto era stato sulle cime di Sayanna, buttando via un po’ di denaro a nessun scopo: era tornato con una pelle fresca di tigre delle montagne, tre cicatrici nuove di zecca e la faccia cupa. Si era messo a tagliare il proprio vino con molta acqua, a sudare nei bagni di vapore a pagamento, ed esercitarsi tutti i giorni con la propria lancia. Era chiaro che si stava preparando a combattere, e a nome di chi era ovvio per tutta Luna di Fuoco: benché nelle bettole non gli dessero molte speranze contro il gigantesco Shartip, campione di Saraji: il disonorato sayanni che aveva giurato di vendicarsi su chiunque si interponesse tra lui e il kelith che l’aveva danneggiato in luoghi innominabili (rendendolo la favola di tutta la Comunità).

Ma toccava a Deyan decidere chi dovesse essere il suo eventuale campione. E aveva già deciso che non sarebbe mai stato Ran. 

Gliel’aveva detto il primo giorno in cui i due si erano finalmente parlati faccia a faccia. E gli era costato un pugno in faccia, che Ran gli aveva mollato per reazione, la prima e unica volta in cui il sayanni l’aveva picchiato da quando si conoscevano. Era stato un colpo duro da ricevere per un kelith, e specialmente per uno a cui la tortura non aveva mai tolto il senso della sacralità del proprio corpo. Ma Deyan si era reso conto del dolore di Ran dietro a quel gesto, e gli doveva troppo per non perdonarlo. 

Però la tensione si accumulava, e il predone bianco si sentiva sempre più come un uomo che cammina sulla lama di un rasoio. Ran l’aveva costretto per la prima volta a non pensare soltanto al proprio rischio, ma a quello di tutti coloro che dipendevano da lui. E anche per quel motivo aveva dato ordine a Ibal di trattare le schiave in modo che non potessero accidentalmente generargli dei figli: se fosse morto, quale sarebbe stato il destino dei suoi cadetti? 

Pushpa proseguiva alacremente nella sua opera. Nessuno osava entrare nella stanza in cui si occupava del guerriero del feretro, ma i servi raccontavano che era sempre occupato a portar ceste e a portar via catini. La quantità di cibo che spariva in quella stanza era diventata via via considerevole: era un segno inequivocabile che il guerriero si stava rifacendo di un oltre un millennio di digiuno. 

E un giorno il t’yr uscì da quella stanza per correre da Deyan, quasi travolgendo Saal che gli stava portando il pasto serale. 

“Ha parlato!” annunciò, con voce trasognata.

Deyan accolse la notizia con freddezza. 

“E sei in grado di capire le sue parole?”

“Sì!” Pushpa non stava nella pelle. “Usa una variante orientale di quella che adesso da noi è la Lingua Cerimoniale, che ormai si usa solo per le preghiere. Potrò riscrivere i miei dizionari!”

“Cos’ha detto?”

“Mi ha riconosciuto come t’yr, mi ha ringraziato per quel che ho fatto, mi ha chiesto dove si trovasse, e dove si trovassero le Divinità...”

“Crede di essere su Sayanna?”

“Vedendo me ogni giorno, è anche ovvio. Ho provato a spiegare come stanno veramente le cose, ma mi ha guardato come se fossi pazzo. E dal suo punto di vista, ammetto che potrei sembrarlo. Ricordi il tuo stupore quando scopristi che ti avevamo portato su Luna di Fuoco?”

Il kelith annuì, pensosamente. Non era una rivelazione facile da accettare.  

“Sa quanto tempo è passato da quando è stato messo nel feretro?”

“Non ho ancora avuto il coraggio di dirglielo,” mormorò Pushpa, imbarazzato. “Mi ha chiesto... chi è il nuovo imperatore.”

Deyan allibì. Non c’erano più stati imperatori dalle guerre dinastiche, che avevano diviso Kelitha nei suoi Dodici Principati. A quel sayanni mancava un intero pezzo della storia del mondo...

“Sei sicuro che la sua mente sia lucida?”

“Direi che lo è, anche se un po’ confusa.”

“E il suo corpo?”

“Se si escludono i problemi per quell’inconcepibile immobilità, minori però di quel che mi aspettavo, e quelli per l’espulsione di quel liquido magico, che è stata molto noiosa... è straordinariamente sano e forte, al punto che mi è difficile stabilire la sua età reale. Sembra giovane, ma chissà se lo è perché è stato rinchiuso in quella fase della vita, o è stato ringiovanito dalla magia di quel feretro.”

Bene, pensò Deyan. Anche giovane e forte!

“Mi ha chiamato padre,” aggiunse Pushpa, commosso. “Mi ha toccato, ma ha capito subito che non ero io il suo Seriema. Ha quasi pianto, perché prova gratitudine verso di me dopo tutti questi giorni insieme, e sperava che fossi io colui a cui avrebbe giurato fedeltà... ma non ha riconosciuto la mia anima.” 

“Sii grato alle tue Divinità di non essere tu questo suo Liberatore,” ribatté Deyan. 

Pushpa sentì la sua sordida ira. 

“Perché dici questo?”

“Se davvero sono io, come affermi... ne avrei volentieri fatto a meno. È stata una violenza dello spirito: notti intere trascorse a sognare orrori, a provare sentimenti e pensieri che non erano i miei... “ Un’occhiata allusiva alle pareti, dove alcuni preziosi arazzi erano scomparsi. “E ho finito quasi per rovinarmi, per colpa di questa ossessione.”

“Ma non è colpa di Naysiak, Deyan-shir: è stato il destino... o le profezie dei Tirri... o il caso a legare insieme i vostri destini; benché io al caso non creda proprio, con tutti questi prodigi avvenuti sotto ai miei scettici occhi.” Tentò di sorridere. “E guarda il lato positivo delle cose: quando Naysiak ti riconoscerà e pronuncerà il suo giuramento, sarai il signore di uno degli esseri più potenti di Sayanna...”

“Io sono già il signore di quel guerriero, Pushpa. Non dimenticare che mi appartiene: ho comprato quel feretro e ho pagato affinché fosse aperto. Legalmente ciò che contiene è mio, vivo o morto che sia: le leggi di Luna di Fuoco parlano chiaro.”

Pushpa lo guardò, inarcando le sopracciglia. 

“Non puoi considerare uno Xarani come uno schiavo...”

“Qualcuno ha considerato me come uno schiavo. Un principe kelith erede al trono. E nessuno ha trovato qualcosa da ridire.”

“Tranne un sayanni,” mormorò Pushpa.

Lo sguardo del kelith si indurì. “Uno. E la mia gratitudine non si estende oltre.” 

Pushpa rabbrividì a quel tono: certe ferite in Deyan non si cancellavano mai... come il marchio che aveva sul viso. 

Ma proprio per quello doveva comprendere l’ingiustizia di sottoporre un altro essere elevato a quell’umiliazione: se il problema era solo legale, lui aveva la soluzione. 

“Deyan-shir, ascoltami: se negoziassi il mio compenso in cambio di...”

“È già accreditato presso i Marjaban,” tagliò corto lui, alzandosi dal suo cuscino. “E adesso è tempo di vedere se quest’eroe può essermi utile oppure no: voglio proprio vedere cos’ho comprato col mio denaro, il mio tempo, il mio rischio e anche la mia anima. Vieni con me, Pushpa: mi farai da interprete.”

E fece per dirigersi verso la stanza del guerriero.

Pushpa lo rincorse. “Aspetta!... Occorre cautela!”

“Cautela per cosa?” 

“Prima di incontrarvi, sarebbe meglio che io spiegassi per bene...”

“Non ho niente da temere in casa mia!”

Andò a quella porta e la spalancò.

L’aria dentro era permeata da un sottile aroma di miele ed oli essenziali, su cui si sentiva un’ombra di odore muschiato, umano. La luce del sole giallo filtrava dalla finestra traforata, illuminando uno sfavillio dorato: l’armatura del guerriero, simile a un mosaico smontato, che era stata sciolta e disposta su un basso tavolino, tra una moltitudine di lacci. 

E accanto ad essa, seduta su una stuoia con le gambe raccolte sotto di sé, una figura avvolta nel mantello di piume, i neri capelli intrecciati sulla schiena, che fissava pensosamente la finestra. 

La figura trasalì a quell’intrusione, girò la testa per vedere i nuovi arrivati... e vide Deyan.

I suoi occhi scuri si spalancarono in un’espressione inorridita.

“T’shish kelith!”

Lasciò cadere il mantello, afferrò prontamente la propria spada dal tavolino, la sguainò e cercò di rimettersi in piedi. Ricadde sulla stuoia, ma con uno sforzo frenetico riuscì di nuovo ad alzarsi, e a spingersi con le spalle in un angolo della stanza. 

Rimase lì, sulle gambe ancora tremanti, con la spada puntata verso Deyan. E ringhiò una scarica di parole in quella lingua sconosciuta, di cui non era difficile intendere il tono: erano minacce...

Pushpa si slanciò immediatamente in avanti, interponendosi con urgenza e parlando al guerriero con tono ragionevole, come per calmarlo: ma questi rispose con parole affannate, incredule, scuotendo rabbiosamente la testa, ma senza mai staccare gli occhi sdegnati dall’albino come se avesse voluto ucciderlo con lo sguardo, prima ancora che con la spada.

E nemmeno Deyan riusciva a staccare gli occhi da quel corpo azzurro davanti a lui, trovandolo in qualche modo strano...

Quando capì in cosa consisteva la stranezza, quasi non poté credere ai propri occhi. 

“Ma... è una femmina!” esclamò, esterrefatto.

“Sì, certo, è una femmina,” fece Pushpa, distrattamente. “E allora?”

 

 

 






 

 

 

 

Il t’yr dovette dar fondo a tutte le proprie conoscenze della sua Lingua Cerimoniale per calmare quell’incredibile creatura: anche se barcollante e malferma, continuava ad avere quel ridicolo atteggiamento minaccioso, e non aveva abbassato d’un filo la spada. La sua voce era piena di veleno.

“Cosa sta dicendo?”

Pushpa era violaceo in faccia. “Sta... insultandoti in molti modi diversi.”

“Insultandomi? Con quel che ho fatto per lei?”

“Non lo sa ancora, crede di essere finita in una shanda. Ti sta sfidando ad avvicinarti: dice che è stata creata per distruggere i...” Esitò. “... i vermi bianchi come te.”

“Sfidato da una femmina!” mormorò Deyan, tetramente divertito. 

“Attento, Deyan-shir. Ti stai dimenticando che tra noi sayanni non ci sono le vostre distinzioni di genere? È la casta a determinare il nostro destino, non il nostro sesso. Al tuo posto io non volterei mai le spalle a una guerriera armata, e men che meno a una Xarani.”

La creatura ringhiò un’altra bordata di barbare parole.

“Dice che nella sua vita ha preso le piume di più di cinquanta guerrieri sayanni tra i migliori... vuol dire che li ha battuti in duello.”

“E quanti kelith?”

Pushpa tradusse, e la creatura rispose con disprezzo.

“Dice... che dei kelith non tiene il conto.”

Deyan smise il suo sorriso di sufficienza, e guardò quella creatura sconcertante che lo fissava spavaldamente, incurante della propria nudità come ogni buon sayanni vergine.

Una guerriera, questa?

Non era nemmeno grande e statuaria come le moderne donne sayanni, anche se era ben proporzionata, col bacino stretto e una struttura atletica e forte, che si rivelava nonostante lo scarso tono della muscolatura. Il seno era adolescenziale, triangolare con capezzoli violetti, e l’addome era piatto sopra un pube praticamente glabro. Le mani erano forti e dalle dita lunghe, e il corpo era costellato da numerose cicatrici chiare, tra cui spiccava il segno di denti ferini all’attaccatura di un seno. La faccia era tonda, con gli zigomi alti e gli occhi ovali, e dalle tempie alle guance era un intrico di fini tatuaggi: tutta la sua storia di casta e lignaggio era lì, ma mancavano i segni matrimoniali. 

Tutta questa fatica per una femmina che non va bene nemmeno per il letto della shanda!

La creatura parlò, con tono imperioso.

“Vuole sapere cosa ci facciano insieme un t’yr sayanni e un kelith bianco.” Pushpa si irrigidì. “Se non rispondo in maniera soddisfacente, ci ucciderà entrambi... cominciando da te.”

Lo sdegno kelith di Deyan superò il limite. “Come osa questa femmina minacciarmi?” sibilò, e si rivolse direttamente a lei, in tono imperioso: “Stupida barbara, metti giù quella spada...”

La creatura lanciò un urlo di guerra e balzò in avanti.

Deyan non si aspettava assolutamente un attacco da una donna: fu colto alla sprovvista, e senza nemmeno sapere come si trovò a essere scaraventato al suolo, con la sayanni furiosa a cavalcioni su di lui. In un istante si trovò la lama della sua spada premuta sulla gola, e la femmina scoprì i denti bianchissimi in un ringhio carico d’odio. 

“Tàin ne hulum, t’shish ne maa kikka...”

Dovevano essere altri insulti, gli ultimi prima che affondasse la spada. Deyan ne approfittò per estrarre di nascosto uno dei suoi dardi avvelenati...

“Hye, hye, hye!” esclamò Pushpa, precipitosamente. “Engaa m’hay Seriema!”

La donna esitò, con gli occhi sbarrati. 

“Seriema?...” mormorò, incredula. 

I suoi occhi selvaggi fissarono quelli del kelith, scesero sul sul volto. 

“T’shish... kaina ni?!”

E la sua mano si posò con decisione sulla cicatrice del marchio. Gli occhi di Deyan si dilatarono: era una delle cose che non si dovevano mai fare con lui... 

Reagì, incurante di quella spada alla gola, cercando di sottrarsi a quel contatto indiscreto; fece per affondare il dardo avvelenato, ma con un movimento fulmineo e quasi noncurante lei gli afferrò il polso e glielo sbattè sul pavimento; e con la stessa mano gli assestò un sonoro ceffone. 

“Jai de, shki kelith!”

Deyan restò raggelato. Uno schiaffo da una donna?!

Era stato un insulto talmente incredibile per un kelith, da lasciarlo paralizzato dalla sorpresa... lei ne approfittò per rimettergli le dita sul volto, sfiorando adesso quella cicatrice come se la riconoscesse.

“Kamoh u Lilia... kainakai... yerenì!”

E Deyan rabbrividì violentemente. 

Uno sconfinato deserto azzurro, più blu del cielo, con dune che si alzano e si abbassano velocemente, rombando... e bianchi uccelli che gridano nel vento. Sottili aghi freddi sul mio viso, l’aria satura di umidità, il sale sulle mie labbra...

La visione svanì, ma non il suo ricordo. Aveva riconosciuto l’oceano, quella cosa di cui aveva letto sui innumerevoli libri, ma che non aveva mai visto coi propri occhi di uomo del deserto. 

È lei che l’ha visto!

Girò la testa per guardarla negli occhi, riconoscendo quella terribile intimità di pensiero che aveva provato fin da quando aveva toccato per la prima volta quel sarcofago. Lei tremava, come se avesse visto a sua volta qualcosa di spaventoso.

“Seriema,” mormorò, con un filo di voce. “Seriema!... Hye, nahin ne!”

“Ya,” le disse Pushpa, in tono definitivo. “T’shish m’hay Seriema.”

La donna lo lasciò andare, strisciando via da lui. Restò in ginocchio sul pavimento, e cominciò a lamentarsi con voce piena di incredulità e disperazione. 

“Cosa dice?” chiese Deyan.

“Chiede alle divinità... perché le hanno fatto toccare proprio l’anima di uno spregevole kelith albino. Lei è una Figlia della Cometa, non può credere che un patto sacro possa dedicarla al peggiore dei nemici della sua razza. Dice che è un inganno demoniaco...”

La donna rizzò la testa, con il respiro stentato. E la sua spada si puntò di nuovo su Deyan.

“Hye!” tuonò Pushpa. 

E in tono imperioso le parlò, con un lungo discorso.

La donna ascoltò sempre più sconvolta, scosse la testa, disse qualche cosa in tono disperato e voltò la punta della spada contro di sé.

Pushpa si mise a urlare e indicò Deyan pronunciando più volte la parola Seriema... 

Le mani della donna tremarono, esitarono, e alla fine lasciarono cadere la spada. E lei restò così, annientata, ansimante, a fissare il vuoto con occhi da pazza.

“Che le hai detto?” chiese Deyan.

“La verità,” mormorò Pushpa, cupamente. “Che è stata chiusa nel Feretro più di mille cicli solari fa, e sepolta viva nella Montagna Sacra; che quel feretro è stato ritrovato, rubato e portato su Luna di Fuoco; e che gli déi dei Tirri hanno evidentemente stabilito che dovesse essere il suo opposto a liberarla... un kelith maschio di nobile stirpe.” Un sospiro. “Perché abbiano voluto questo incrocio non lo so; ma resta il fatto che, albino o no, tu sei inequivocabilmente il suo Seriema, e quindi la sua vita è tua: anche se lo vuole con tutto il suo cuore, lei non può uccidersi senza il tuo permesso. Se lo facesse, disonorerebbe il suo essere Xarani.”

“Mi accetta, dunque?”

Pushpa raccolse il mantello di piume e lo posò sulle spalle tremanti della donna, in un gesto di conforto.

“Dalle tempo, Deyan-shir. Quando anche lei capirà che non ha più alternative, pronuncerà il giuramento.”

 

 










 

 

Ci mise tre giorni e quattro notti ad arrendersi. 

La seconda notte scappò dalla casa di Deyan: ma non aveva nessun posto in cui andare. Luna di Fuoco era un abitato sperduto in mezzo a una desolazione senza vita, e Sayanna era un continente verde e bruno su una luna irraggiungibile nel cielo. Deyan temette che si perdesse nel nulla, ma Pushpa era tristemente tranquillo.

“Tornerà, Deyan-shir. È una sciamana, il suo istinto la riporterà infallibilmente qui da te. In quanto alle sue capacità di sopravvivenza, è una Xarani... praticamente impossibile da uccidere, se lei non vuole lasciarsi morire. E lo vorrebbe disperatamente, per reincarnarsi in una vita più fortunata; ma non mancherà al suo senso dell’onore.”

“E allora perché è fuggita?”

“Forse per piangere il suo destino. Ha perso tutto: più di mille cicli di soli trascorsi significano che è adesso è sola, senza più famiglia, senza più amici, tutti coloro che conosceva e amava polvere di polvere. Ha perso anche la sua patria, trovandosi esule su questa luna, e se tornasse su Sayanna... non troverebbe più nemmeno la sua città natale e la sua tribù.” Un sospiro. “Gli Huanai erano una delle etnie minori che abitavano il continente di Sayanna. Vivevano sulla costa orientale, vicino all’equatore. Statura modesta, pelle solare, occhi grandi, grande coraggio e amore per l’arte: erano gente felice, e la loro città era stupenda. Ma proprio per questo attirarono l’attenzione dei kelith, che saccheggiarono più volte il loro paese, deportando innumerevoli schiavi, e quel popolo finì per decadere: quel che ne resta ora si è mescolato con il Popolo degli Altipiani... la mia gente. Naysiak quindi è probabilmente l’ultima Huanai originale vivente.” 

Qualche tempo dopo Pushpa si recò al tempio delle Divinità Duali per il consueto servizio devozionale alle loro statue. E laggiù trovò Naysiak, accoccolata ai piedi delle due figure, che piangeva sconsolatamente. Era ancora nuda, esausta, assetata e affamata: lui le diede da mangiare e da bere, e poi le comprò qualcosa da mettersi addosso, anche se non era degno di lei. Naysiak lo ringraziò, e gli fece capire di essere pronta al suo giuramento.

C’era però un problema formale. La cerimonia si era sempre svolta in un tempio sayanni, e Deyan non poteva esservi ammesso. Pushpa cercò eroicamente di scordare che in realtà il kelith aveva commesso proprio questo sacrilegio per cercare il Codice d’Oro, ma non era certo il caso di reiterare il peccato anche su Luna di Fuoco. Si consultò con gli altri t’yr, che sbalordirono alla notizia che un Guerriero della Cometa venisse a far parte di quella famigerata Comunità. E ancor più si sbalordirono al racconto del come, e del fatto che uno Xarani si sarebbe votato a un esecrato straniero. In dubbio sulle facoltà mentali dell’eretico Pushpa, decisero diplomaticamente di svolgere la cerimonia fuori dal recinto sacro, senza toccare le statue delle Divinità, né portare altri simboli religiosi. Se Naysiak era davvero un Guerriero della Cometa, avrebbe santificato il luogo con la sua sola presenza. 

La notizia si sparse per tutta Luna di Fuoco, accolta con scetticismo. Le sayanni guerriere erano merce rara tra i predoni, dato che solitamente le donne erano molto più disciplinate degli uomini, e restavano nei ranghi della rigida società azzurra. E il sussurro che quella guerriera fosse addirittura una Xarani era incredibile, quanto era stato incredibile che un principe kelith diventasse un predone: sembrava davvero che nel mondo non rimanesse più nulla di impossibile.

Deyan rimase riservato durante tutti quei preparativi. Era stato alla Grande Casa, dove aveva negoziato la vendita del feretro vuoto, e formalizzato gli altri aspetti. E adesso aspettava sulla piazza, avvolto nel mantello, infastidito dal fatto che la cerimonia si dovesse svolgere alla presenza smagliante dei due soli, che si avviavano alla loro accecante congiunzione vicino allo zenit. 

Quando tutti furono al loro posto, Naysiak uscì dal tempio e fece il suo ingresso nello spiazzo. E i presenti emisero un mormorio di stupore.

Indossava la sua splendida armatura al completo, una corazza che in quella forma non si vedeva da più di un millennio: riluceva come una pioggia di gioielli sotto la luce spietata dei due soli. Ogni tessera di quel mosaico di iscrizioni misteriose lampeggiava, mentre lei avanzava con passo misurato, le mani sulle proprie armi, il mantello di piume ravvivato e pulito sulle spalle che brillava di un azzurro cangiante, indicando il suo mistico legame col Mondo Magico. 

Deyan la guardò freddamente, percependo la soggezione che quella figura del passato incuteva nei presenti. L’armatura e il mantello di piume rendevano Naysiak una figura neutra, né maschio né femmina, solo il tramite di un potere arcaico e misterioso che i sayanni avevano imparato a rispettare sin dall’alba della loro civiltà. E nel momento che uno di loro vide il segno delle Quattro Stelle sul suo volto, la voce si sparse in un baleno, e al sussurro “Xarani, Xarani” molti si chinarono a toccare con una mano il suolo. Ne risultò una sorta di inchino collettivo e stupefatto, a cui resistettero a fatica solo i pochi scettici tra di loro, oltre naturalmente ai kelith che osservavano tutto con curiosità. 

Naysiak arrivò davanti a Deyan, si fermò e si tolse l’elmo, guardandolo dritto negli occhi.

Deyan si tolse a sua volta il cappuccio del mantello, restando a testa scoperta. 

I t’yr iniziarono uno dei loro inni, una monodia lenta e solenne. Naysiak si inginocchiò, posò l’elmo accanto a sé, si denudò la mano destra, e con un dito cominciò a tracciare un disegno sulla polvere della piazza. Era un’immagine geometrica, quasi cruda e un po’ infantile di un uomo e di una donna, che si tenevano per mano. Poi alzò gli occhi ai due soli e gridò un’invocazione nella sua lingua misteriosa: e la sua voce femminile vibrò per tutto lo spiazzo. 

Pushpa e tutti i t’yr alzarono le braccia verso il cielo, mormorando: “Kamoh, Lilia.”

Naysiak posò solennemente entrambe le mani al centro delle figure che aveva tracciato. Guardò Deyan, ebbe un’espressione di dolore, ma si costrinse a proseguire nel rito. E la sua voce fu ferma e decisa. 

“Sayan-ne Huanai-ne Naysiak kai Xarani’nin nainai Kamoh Lilia yerenì m’hay Seriema Deyanshir-kin an’kanai Kelitha...”

La lingua cerimoniale sayanni suonava cantilenante, musicale. 

“Ti sta riconoscendo davanti alle Divinità come suo Liberatore,” tradusse Pushpa, al fianco di Deyan. “E sta pronunciando il giuramento sacro: D’ora in poi la mia vita e la mia morte ti appartengono, Deyan-shir della casta imperiale di Kelitha. Ti seguirò ovunque andrai. Proteggerò il tuo cammino, il tuo onore, la tua casa, il tuo cuore, i tuoi figli; fronteggerò i tuoi nemici, li ucciderò in tuo nome e obbedirò a ogni tuo ordine secondo il sacro codice dei Figli della Cometa. Ti sarò fedele come lo sono ai miei déi, fino all’ultimo dei miei giorni sotto ai due soli.”

Lei tacque, ritirò le mani dalle due figure tracciate a terra, si raddrizzò e restò in ginocchio, in attesa.

Pushpa gettò uno sguardo a Deyan. “Mettile una mano sul capo. Sarà il tuo gesto di accettazione, che la vincolerà per sempre a te.”

Deyan avanzò e lo fece, posando la mano su quel complicato nodo di trecce legate insieme. Naysiak trasalì visibilmente al suo tocco, ma non si ritrasse.

“Seriema,” mormorò, con gli occhi bassi.

Deyan la lasciò e fece un passo indietro.

“Dunque la cerimonia è finita?” chiese a Pushpa.

“Sì. Si è impegnata davanti agli dèi. Il suo spirito ti appartiene.”

“Non solo lo spirito.” La guardò, con freddezza. “Naysiak, ti ordino di toglierti quel mantello.”

Pushpa restò stupito. Gettò un’occhiata sconcertata a Deyan, poi alla donna che lo guardava, avendo sentito il suo nome e aspettando la traduzione. 

Si decise e la pronunciò. Naysiak non esitò un solo istante: si slacciò il mantello e se lo tolse dalle spalle, disponendolo accanto a sé. 

“Bene. Adesso dille che voglio che si tolga anche tutto il resto.”

“Deyan-shir...”

“Traduci!”

Pushpa lo fece, con uno sforzo. E Naysiak impallidì vistosamente sotto la luce cruda dei due soli. Ma cominciò ugualmente a sciogliere i lacci dell’armatura...

“Perché, Deyan-shir?” mormorò Pushpa, a voce bassa.

“Metto in chiaro ciò che è mio, e metto alla prova la sua obbedienza.”

Lei slacciò il pettorale, disponendolo accanto il mantello. Sotto l’armatura non portava nulla, secondo la tradizione sayanni: e i kelith presenti si misero a mormorare alla vista del suo seno nudo, scarso per i loro gusti ma pur sempre femminile. Lei percepì quell’attenzione troppo fisica su di sé e si irrigidì visibilmente, offesa da quegli sguardi, ma non potendo evitarli. 

Pushpa notò il lievissimo sorriso di Deyan, e non gli piacque.

“Ricorda che possiedi la sua vita e la sua morte,” gli disse in tono ammonitore. “Non il suo onore. È una vergine, e tu devi rispettare la sua illibatezza. Se non lo farai, romperai il patto con lei e le Divinità. E lei sarà moralmente autorizzata a ucciderti, anzi: sarà suo dovere ucciderti.”

“E morirà.”

“Pensi che questo la spaventi?”

“No. So che non ha timore della morte.” Il suo sorriso divenne remoto. “E nemmeno io.”

Naysiak intanto aveva disposto a terra tutta la sua armatura, restando nuda se non per il perizoma che i guerrieri indossavano per proteggere la Membrana. L’interesse erotico dei kelith si era trasformato in fastidio, perché lei non mostrava abbastanza vergogna, e loro non gradivano l’ostentazione sayanni del corpo: su Luna di Fuoco era una delle cause per cui le comunità vivevano separate, e i sayanni che si mischiavano ai kelith adottavano costumi meno disinvolti. 

Deyan fece un cenno, e alcuni suoi servi si affrettarono a raccogliere il mantello, l’armatura e tutto il resto, portandoli via. Naysiak li seguì con lo sguardo, senza capire. 

“Pushpa, dille che quei segni esteriori della sua gloria non le appartengono più. Dovrà imparare a farne a meno.”

La donna ascoltò la traduzione, e i suoi occhi si spalancarono, costernati.

Mormorò qualcosa, con voce tremante.

“Dice che l’armatura sacra e il mantello da sciamana le furono dati dalle Divinità il giorno della sua consacrazione. È tutto quel che le rimane di quel felice periodo della sua vita, il ricordo più caro che le abbia, e chiede rispettosamente di...”

“No.” La voce controllata di Deyan fu come un colpo di spada. “Le restituirò le sue armi quando le serviranno. Il resto non è adatto a ciò che adesso è.” 

Fece un gesto, e un Giudice delle Contese gli portò un collare di metallo. 

I t’yr mormorarono, Pushpa impallidì spaventosamente. 

“No, Deyan-shir, no,” mormorò, con voce implorante. “Questo no, ti prego...”

Il volto del kelith restò perfettamente impassibile. 

“È un Guerriero della Cometa!” 

“Mi appartiene, quindi è una schiava.”

“Allora liberala, per amore di tutto ciò che è giusto e santo! Non ti costa niente, lei è comunque tua, ti ha appena giurato fedeltà, il suo vincolo è molto più forte di qualsiasi legge o catena umana...”

Deyan gettò il collare davanti a lei, con un gesto spietato.

“Le ordino di metterselo. Con le sue mani.”

Seguì un silenzio tremendo, carico di tensione. 

Naysiak guardò quel simbolo di sottomissione nella polvere, incredula. Non poteva non riconoscerlo: non era cambiato da millenni...  

Alzò uno sguardo disperato a Pushpa. 

“Kaina m’he?” chiese, con voce piena d’angoscia. 

Pushpa ebbe un tremito, distolse lo sguardo da lei. 

“Kaina m’he?!...”

Il t’yr si costrinse a rispondere, la sua voce uscì quasi strozzata. 

“Naysiak ne Deyanshir-ni kaina m’hay.”

Il respiro le divenne stentato, e il suo volto si fece quasi cinereo. 

“Hye,” mormorò. “Hye kaina... Xarani’nin... m’he.”

“Anika Deyanshir-kin shi, dema Xarani’nin shi kaina kanai.” Pushpa indicò il collare. “Seriema jakkai.”

I grandi occhi di Naysiak tremarono, si riempirono di lacrime, e un paio di esse riuscirono a traboccare; ma lei trattenne le altre, con uno sforzo sovrumano, e guardò Deyan con disperata dignità. 

“Ya, Seriema.”

Respirò a fondo per calmare il proprio tremito, e raccolse il collare. Se lo mise senza una parola di protesta, e sopportò che il Giudice delle Contese glielo chiudesse con un lucchetto.

Deyan la guardò, con un sorriso soddisfatto.

“Bene. Pushpa, dille che i suoi voti Xarani per un kelith non hanno alcun significato, e non ho alcuna considerazione dei suoi titoli mistici o guerrieri. Lei dovrà servirmi solamente perché è il suo dovere, e quel collare serve a ricordarglielo.”

La sayanni ascoltò, pallida e con la schiena eretta.

“Naysiak t’si kan Seriema nikka yanai.”

“Ti chiede rispettosamente il permesso di uccidersi.”

“Dovrà guadagnarselo.”

Deyan si fece consegnare la chiave del lucchetto dal Giudice delle Contese, e se ne andò verso la sua casa, senza voltarsi indietro. 

Nel silenzio costernato di tutti, Naysiak si alzò sulle gambe malferme e sporche di polvere, e si mise a seguirlo. 









 

 

 

 

 

Nella Città Sacra di Sayanna, i più puri ed elevati dei servi delle Divinità accudivano in silenzio e devozione i corpi di Kamoh e di Lilia. E a loro rispondeva come sempre il silenzio. 

Il silenzio era l’elemento più sacro intorno ai re divini. Non andava disturbato in alcun modo. Essi erano il perno centrale dell’immensa ruota della società di Sayanna, e altrettanto immoto. il movimento era opera di una serie di cerchi concentrici che si erano sviluppati attorno alla loro figura: sciamani, saggi, guerrieri, artigiani, contadini. Tutto in un mirabile ordine, che si perpetuava con confortante regolarità, a dimostrazione della sua giustezza cosmica. 

Kamoh e Lilia non parlavano mai, lo facevano i loro tramiti umani. I loro corpi si limitavano a essere, ad esistere, e a perpetuarsi nel tempo in quella maniera sovrumana che era un articolo di fede per ogni sayanni: una infinita catena di mistici incesti. Mai coetanei, il giovane Kamoh avrebbe generato la nuova Lilia nella vecchia compagna, che sarebbe morta dandola alla luce; cresciuta, la nuova Lilia avrebbe giaciuto con il moribondo Kamoh per generare il giovane, attendendo la sua maturazione per ricominciare il ciclo. Questo prodigio era prova sicura della loro divinità: e tutti i sayanni si prosternavano ammutoliti dinanzi al Mistero.

Ma per il resto l’esistenza dei re divini era paragonabile a quella di due splendide statue, occupate nei loro pensieri inimmaginabili, e a benedire invisibilmente il loro grande popolo mandando loro la luce dei due soli, principio maschile e femminile del cosmo. 

Fu dunque con grande sgomento che i più santi tra i devoti scoprirono che Kamoh si era mosso prima del tempo stabilito. E Lilia, le mani sul ventre sporgente della sua divina e fatale gravidanza, aveva gli occhi sbarrati e la bocca aperta in un grido senza voce. 

Qualcosa aveva turbato l’equilibrio tra il mondo degli uomini e quello degli dèi.

 






*







 

 

 

Saal poteva trovare la sua serenità anche lontano dallo splendido palazzo di Shana, su una luna straniera su cui era arrivato incosciente tramite una terribile magia, in mezzo a predoni e canaglie della peggior specie e una quantità di creature intellettualmente inferiori e grossolane; poteva adattarsi a vivere in una casa che su Shana sarebbe stata indegna di un mercante di bassa lega, con una sola fonte d’acqua e polvere che si insinuava dappertutto, e neanche un giardino degno di questo nome; poteva vedere il suo principesco padrone frammischiarsi con individui sconcertanti e compiere atti indegni di un nobile della sua stirpe, vestirsi da uomo comune e camminare con le sue gambe anziché andare in portantina, e non aver nemmeno un cuoco che sapesse combinare decentemente le famose cento salse della cucina Shanì...

Ma una selvaggia femmina sayanni in casa era veramente troppo!

Naysiak aveva portato lo scompiglio nella perfetta magione di Deyan, con la sua sola esistenza. Ci era arrivata come una schiava, cosa normalissima dato che in una casa nobiliare kelith non esistevano donne libere. Ma non si poteva rinchiuderla nella shanda come le altre, perché non era adatta al letto: vergine e decisa a restarlo, e tra l’altro brutta per i canoni kelith: niente burrosa delicatezza, troppo alta, forme sbagliate. Ibal, a vederla, era rimasto inorridito dal suo aspetto barbarico e aveva escluso nella maniera più categorica che il suo padrone, che pure non era limitato in niente nei suoi capricci erotici, avrebbe mai toccato anche solo con un dito un simile animale. 

E così Naysiak era stata trattata: da bestia senz’anima. Una specie di esotica creatura che il padrone aveva liberato per capriccio, incerto su cosa farne, e che la servitù doveva sopportare perché era suo dovere. Non importava a nessuno che quella creatura fosse stata grande nel suo paese, che fosse nata quando della stirpe di molti di loro non c’era neanche l’ombra, che i re di Sayanna l’avessero avuta come guardia del loro santo corpo. Per i kelith non era altro che un animale.

Però era almeno un animale pulito. Usava la latrina senza bisogno che le insegnassero come, si lavava e pettinava ogni giorno e si purificava prima di mangiare. Pregava, prima di farlo, raccogliendosi a occhi chiusi; e poi pasteggiava con calma, e con un appetito che Saal non aveva mai visto prima in una femmina. Era regolare che Naysiak osasse corrergli dietro per tendergli la ciotola vuota dicendo “Nainè.” 

Quell’animale parlava, infatti. Voleva imparare la lingua di quel luogo, e chiedeva incessantemente a chiunque come si chiamasse questo e quello. Era insistente, imperiosa e assolutamente sfacciata nel rivolgere la parola agli uomini, che la sfuggivano imbarazzati, perché solo Ibal era autorizzato per la sua natura a trattare con le donne di casa. E parlava molto col sayanni con la veste lunga, che veniva a interrogarla: si mettevano nel cortile, sotto i due soli, a bisbigliare per ore in quella lingua incomprensibile, lei avvolta nei due stracci laceri che le erano stati concessi solo per rispettare la decenza kelith.  

Deyan aveva infatti ordinato a Naysiak di restituire tutti i doni ricevuti, e di non accettarne più alcuno, e lei aveva obbedito ridando a Pushpa i vestiti che le aveva regalato, e ai t’yr le morbide pelli che che le avevano offerto, ancora sconvolti da come era stata spogliata e degradata in pubblico. Solo che non le rimaneva più niente, e Saal si era opposto all’idea di far andare in giro una femmina nuda in una casa di persone civili. Deyan aveva ordinato di non far nulla che potesse inorgoglirla, ma anzi di farla vivere il più duramente possibile, e Saal approvava: era nella logica di disciplinare quella creatura selvatica. 

Isolata e umiliata in quella casa di nemici che la disprezzavano, e non le permettevano neanche di trovare riparo nelle loro stanze chiuse, Naysiak cercava la compagnia della terra, del cielo e del vento. Sembrava che potesse parlare anche con loro, e che volesse fare amicizia con la dura scorza di Luna di Fuoco. Nella notte, in cortile, la sentivano canticchiare delle nenie sommesse e antiche, e Deyan era tormentato da sogni di rimpianto che gli straziavano l’anima. Al mattino trovava la sua barbara infreddolita, pronta a fargli sempre la stessa richiesta. 

“Naysiak t’si kan Seriema nikka yanai.”

“No! Non puoi ancora morire.”

E lei sospirava, chinando la testa.

Ovunque andasse Deyan, lei lo seguiva: con squisito mestiere, silenziosa come un gatto, a distanza sufficiente per non disturbare; ma non era mai troppo lontana da lui. Deyan non le aveva ancora restituito le sue armi, ma lei svolgeva comunque il proprio compito di guardia del corpo; Pushpa, che spesso lo accompagnava, gli spiegava che Naysiak sperava di morire per difenderlo: per uno Xarani sarebbe stata una fine onorevole, alternativa al suicidio rituale. 

Stando così le cose, era stato inevitabile che la Squadra Sacrilega facesse conoscenza con quel nuovo, sconcertante membro. Quando Deyan era andato alla casa di Kor lei gli era andata dietro, e tutti i sayanni l’avevano guardata con timoroso rispetto, Nemel e Chat facendo anche il gesto rituale di toccare il suolo. 

Ma Ran l’aveva guardata in cagnesco, senza nessuna soggezione. 

“E questa sarebbe il grande Guerriero della Cometa?”

Le si era avvicinato, squadrandola dall’alto al basso, cosa che gli veniva facile visto che era alto almeno una testa e mezza più di lei. La donna si era limitata a fiutarlo, con espressione assorta. Poi aveva mormorato qualcosa.

Pushpa aveva tradotto: “Dice che c’è l’odore del suo Liberatore su di te, uomo delle montagne, e ti ha marcato come amico. Per cui avrà misericordia e ti perdonerà le tue cattive maniere.”

“Odore?” aveva esclamato lui. “È forse un cane?” Aveva riso. “O più probabilmente un pescecane, dato che con quella faccia verdazzurra non può che essere dell’infimo Popolo della Costa.” Le era girato intorno, come per osservarla da tutti i lati. “Niente di buono, dai deboli mangiaconchiglie che si sono fatti saccheggiare dai kelith!”

“Ran,” era intervenuto Pushpa. “Lei viene dal remoto passato, quando il Popolo della Costa era ancora grande...”

“Oh lo vedo. È antiquata. Guardate quant’è bassa! Sembra un kelith con la pelle del colore sbagliato. Qualsiasi guerriera di adesso la userebbe come sgabello... volete farmi credere che le Divinità si sarebbero tenute accanto questa nanerottola smunta? Mi sa che vi hanno ingannato, amici miei: il segno dei Quattro può tatuarlo anche un ubriaco.” 

“Naysiak Xarani-nin m’hay. Kikka sh’te?”

Pushpa aveva tradotto: “Io sono una Xarani. E tu cosa sei?” Una pausa. “Ha detto cosa, non chi.”

Deyan aveva sorriso appena: la sua barbara era tutt’altro che remissiva. 

Ran aveva fatto una smorfia. “Sono quello che la sgonfierà un po’ dalle sue arie. Deyan-shir, che ne dici se la tua Xarani e io vediamo chi è il miglior guerriero?”

Il kelith aveva guardato Ran, sorpreso dalla sua formidabile ostilità verso la donna: evidentemente c’erano motivi che gli sfuggivano, forse l’atavico spirito di insubordinazione all’autorità del suo amico, forse quella specie di gelosia tutta sayanni che provava per lui. Desiderava la sua occasione di umiliare quella femmina, e perché non concedergliela? 

“Pushpa,” aveva detto, rivolgendosi al t’yr. “Dì a Naysiak di battersi con Ran.”

Lei aveva annuito, senza esitazione. Aveva guardato brevemente Ran, poi si era spogliata. E Ran aveva fatto lo stesso. 

“Le regole del duello valgono anche tra sessi diversi?” aveva chiesto Deyan, allibito da quello spettacolo inconcepibile per dei kelith.

“Naturalmente sì,” aveva replicato Pushpa, stupito dal suo stupore. “Cambierebbero solo se fossero di casta diversa, ma sono ambedue guerrieri. Si batteranno nel corpo a corpo, senza armi. Terranno solo quanto basta per proteggere la membrana da incidenti.” Pushpa aveva scosso la testa. “Temo che Ran abbia esagerato, stavolta. Un t’yr non scommette, ma se potesse...”

“Su chi lo faresti?”

“Un Guerriero della Cometa contro un disertore?” Un vago sorriso. “Ran mette in dubbio che Naysiak sia una Xarani autentica, ma io non credo che quell’armatura, e quel feretro, siano stati dati a una millantatrice. Il nostro amico sta per fare una figuraccia.”

Deyan ne dubitava. Naysiak non aveva l’aria di essere fermissima sulle gambe, e rispetto a Ran era decisamente più piccola e magra, specialmente da svestita. 

Ma guardava il suo enorme avversario con una sufficienza che sembrava quasi comica. 

Ran si era messo in guardia... e aveva scaricato un paio di pugni spaventosi su di lei. Naysiak era caduta a terra, con un grido strozzato.

Deyan si era limitato ad alzare le sopracciglia: non aveva mai visto quanto fosse egualitaria, la casta guerriera dei sayanni. Ran aveva adoperato appieno tutta la sua violenza, senza trattenersi: e c’era quasi un sorrisetto di trionfo mentre si massaggiava la mano. 

“Tutto qui, Xarani?”

La donna si era rizzata sulle braccia, scuotendosi le trecce dalla faccia. Si era rialzata, asciugandosi il sangue che le usciva dal sopracciglio, e sbottando qualcosa. 

“Impreca al suo corpo che ancora non va come dovrebbe andare,” aveva tradotto Pushpa.

Ran aveva atteso che lei si rimettesse in piedi, per mollarle un calcio violentissimo all’addome: Deyan aveva visto il movimento di difesa della donna, ma troppo lento; e Naysiak era finita di nuovo per terra, piegata in due dal dolore. 

Appena aveva ripreso fiato, aveva lanciato una sorta di urlo frustrato che non aveva bisogno di traduzioni. Ma non ce l’aveva con Ran: non lo guardava nemmeno. Barcollando, si era rimessa in piedi, tentando di respirare a fondo.

Ran le aveva mollato un altro pugno, stavolta sul mento. Rigettandola di nuovo al suolo.

“Non in faccia,” aveva mormorato Aydie, sconvolto dal veder picchiar così una donna in pubblico.

Ran l’aveva guardato, senza capire. “Come, non in faccia? Pensavo di romperle quel buffo naso che ha, se si rimetteva in piedi.” Aveva fissato la guerriera che ansimava, a terra. “Ammesso che ci riesca. Xarani! Puah... Questa come guerriera non vale niente!”

Naysiak aveva alzato la testa, l’aveva guardato... ed aveva emesso una sorta di ruggito. Un suono incredibile, che non sembrava nemmeno umano, ma l’urlo di una belva mitologica...

Ran si era irrigidito all’istante, con un’espressione di terrore in faccia. 

Naysiak non aveva perso tempo: aveva fatto leva su un braccio, e con uno scatto delle gambe unite aveva affondato entrambi i piedi nel suo stomaco. Ran era barcollato all’indietro, semisoffocato. Con lo stesso balzo la donna si era rimessa in piedi, gli era saltata a gambe aperte intorno al collo, glielo aveva stretto tra le cosce muscolose e con le mani gli aveva afferrato i padiglioni delle orecchie, tirandoglieli. Ran aveva mandato un urlo di dolore.

La donna aveva guardato Deyan, dicendo qualcosa.

“Dice che avrebbe potuto rompergli entrambi i timpani,” aveva tradotto Pushpa. “Non l’ha fatto, non sapendo se volevi o no che questo stupido guerriero restasse sordo.”

“Maledetta strega!...” aveva ruggito Ran, raddrizzandosi. 

Ma Naysiak gli era rimasta saldamente sulle spalle, incrociando i piedi per incastrarlo nella sua morsa. E con una mano gli aveva afferrato il naso per le narici, tirandolo verso l’alto. La testa di Ran aveva seguito quella trazione all’indietro, e lui aveva perso l’equilibrio. Era caduto di schiena, con Naysiak attaccata... e non si era mosso più. 

Deyan era trasalito. “Ran!”

Naysiak aveva visto la sua reazione allarmata, e aveva parlato con tono impersonale.

“Non temere,” aveva mormorato Pushpa, “non l’ha ucciso. Dice che in tua presenza sarai tu a dirle chi uccidere e chi no.”

E con quelle parole, lei si era disincastrata dal collo del sayanni con un movimento quasi languido. Aveva afferrato il suo avversario per le braccia inerti, l’aveva sollevato a sedere e gli aveva stampato un calcio ben mirato nella schiena. Ran aveva sbarrato gli occhi con un singulto animalesco, riprendendo a respirare. 

Di nuovo, la donna aveva parlato, con quella cadenza cantilenante.

“Dice che le serve ancora qualche tempo perché il suo corpo è ancora debole. Ma ti è grata per averle permesso di mettere alla prova le sue capacità, anche se contro un avversario modesto.”

Deyan, suo malgrado, era rimasto impressionato. “Cos’è stato, quell’urlo che ha fatto prima?”

Naysiak aveva fatto un sorrisetto, asciugandosi il sangue dalla faccia tumefatta.

“Xaran’taja.”

“Cosa Xarani,” aveva tradotto Pushpa. 

Ran era rimasto incredulo, senza fiato. Si era guardato intorno, con la faccia violacea dall’imbarazzo. Aveva scorto la guerriera che era andata a rivestirsi, senza sprecare un’occhiata all’uomo che aveva sconfitto. Le aveva ruggito un epiteto che Deyan non aveva mai sentito, ma che aveva fatto strabuzzare gli occhi a Pushpa: lei l’aveva guardato a malapena, aveva alzato una spalla e aveva mormorato qualcosa.

“Che ha detto quella strega?!”

“Che... quel che conta per un guerriero è vincere, non picchiare.”

“È stata sleale! Mi ha battuto con un trucco!”

“Ti ha battuto in un duello ad armi pari,” gli aveva detto Nemel, severamente. “Pensavi davvero di vincere contro un Guerriero della Cometa?”

Deyan aveva fissato quella femmina sconcertante, cominciando a credere alle sue capacità.

“Pushpa, per favore, chiedi a Naysiak quali armi sa usare.”

Lei aveva cominciato una lunga cantilena di parole, tra cui molte che Pushpa non conosceva: vedendolo perplesso, si era chinata al suolo e col dito aveva cominciato a disegnare nella polvere le armi che descriveva; e anche gli altri sayanni avevano allungato il collo cominciando a discutere, riconoscendone qualcuna. Lei ascoltava, ripeteva il nome antico e faceva il gesto di impugnare l’oggetto, e tutti annuivano. 

Pushpa aveva guardato Deyan. “Non riesco a starle dietro, accontentati di sapere che si intende di tante armi.”

“E sa combattere contro più di un avversario?”

Lei aveva ascoltato la traduzione, si era rizzata con un sorrisetto di compatimento. 

“Può insegnare le sue tecniche?”

Aveva scosso la testa, e aveva parlato con voce recisa.

“Dice che tutti qui sono troppo adulti, e tu... tu non puoi impararle perché sei kelith.”

A Deyan il tono di quella frase non era piaciuto. Aveva pensato che era il caso di impartirle una lezione sulle potenzialità della sua razza...

Aveva fatto un lieve movimento delle spalle verso destra, come se volesse girarsi, e nello stesso tempo il suo braccio sinistro era scattato verso Naysiak.

Lei aveva sbarrato gli occhi e istantaneamente si era spostata, ma non era riuscita a evitare il dardo che lui le aveva lanciato. Le era affondato nella spalla. Lei aveva emesso un gemito, afferrandolo con la mano opposta, e se l’era strappato dalla carne. L’aveva fissato, col respiro affannoso, ed aveva avuto un’espressione di rabbia...

Poi, di colpo, le gambe le erano cedute di sotto. Ed era caduta in ginocchio, stupefatta. 

“Ci sono cose che noi kelith facciamo meglio di voi sayanni,” aveva detto Deyan, con un sorrisetto tagliente. “E adesso vediamo come te la cavi con i nostri narcotici.”

Lei sembrava averlo compreso, senza bisogno della traduzione di Pushpa. L’aveva fissato, con un lampo di odio negli occhi. Poi li aveva socchiusi, facendo per afflosciarsi...

 

 

 





 

 

 

Deyan aveva sentito lontanamente una risata, che diventava sempre più nitida e forte. Sembrava una serie di tuoni in una gola di montagna. Non conosceva che una persona, in grado di ridere così. 

Ran.

Aveva aperto gli occhi e si era ritrovato a terra, a fissare il cielo bianco. Poi, tra lui e il cielo si era interposta quella tonda faccia azzurra. 

“Seriema?”

Aveva sentito il sangue defluirgli dalla faccia. Era stato battuto anche lui?! 

Ran rideva a crepapelle. “Adesso sai anche tu cosa si prova, Deyan-shir! La strega se n’è fatto un baffo, del tuo narcotico. Ha finto di cederci e poi, appena ti sei avvicinato... zac... un colpo secco nel collo, e sei andato giù come un cumulo di stracci.”

Naysiak non rideva affatto: continuava a guardarlo con quell’espressione preoccupata. Aveva alzato la testa e parlato a Pushpa, che si era avvicinato per posargli due dita sulla gola. 

“No, stai bene. Lei aveva paura di averti colpito troppo forte... dato che sei un kelith.” Aveva spiegato la situazione a Naysiak, che aveva respirato di sollievo. 

Deyan si era rialzato a sedere e lei aveva gesticolato, parlandogli.

“Dice che il suo codice le vieterebbe di alzare la mano su di te. Ma pensava che tu la stessi mettendo alla prova. Lei non è immune al veleno, però le hanno insegnato a conoscerne molti in natura, e combatterli con lo spirito. Ti chiede se sei contento.”

Contento di essere stato battuto davanti a tutti... da una femmina?!

Si era guardato intorno. I kelith erano rimasti agghiacciati, i sayanni invece avevano l’aria di trovare l’accaduto assolutamente ovvio. 

Si era reso conto di star arrossendo, si era alzato di scatto calcandosi il cappuccio del mantello sulla testa e se n’era andato furibondo, senza una parola. 

Sempre seguito da Naysiak.

Quella notte le schiave avevano avuto a che fare col lato peggiore del loro padrone. Ibal, che se ne intendeva, gli aveva messo nel letto le più robuste salvaguardando le più fragili, ed aveva preparato impacchi per medicarle una volta che lui avesse finito con loro. 

E nuda e tremante di freddo nel cortile, col collare di metallo che le aveva escoriato la pelle, e affamata perché l’avevano lasciata a digiuno, Naysiak aveva fissato il suo mondo sospeso nel cielo, ascoltando le grida dalla shanda e scuotendo la testa.

“Shki t’shish kelith!”

 

  
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