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Autore: Sarah Shirabuki    17/05/2013    1 recensioni
TUTTI I DIRITTI VANNO AI RISPETTIVI AUTORI NATURALMENTE
Un demone del passato viene risvegliato nell'anima di un giovane ignaro, la chiave di un piano diabolico progettato nell'oscurità degli inferi...
Riuscirà la nuova generazione di guerrieri, con gli ormai più adulti mezzosangue e gli indimenticabili eroi del passato, ad evitare la fine del mondo?Questa storia narra le vicende accadute dopo dragon ball GT. Spero che vi potrà piacere.
( dalla storia)
Si destò.
L’irreale giaciglio in cui aveva riposato scomparve con una lenta dissolvenza, la sua forza vitale che tornava a ripopolare quell’universo di materia plasmabile in cui sembrava costantemente di nuotare.
Non sapeva dire per quanto avesse dormito. Forse un’ora, o un giorno, forse anche per un milione di anni. Non avrebbe mai potuto usare quel metro di valutazione, giacché, nel mondo in cui si trovava, il tempo non aveva misura. Lì, in quell’universo parallelo dove le anime giungevano inconsapevoli al finire dei loro giorni, il tempo non aveva né inizio né fine, solo un’inafferrabile estensione verso l’eternità.
E lei, a cui sulla Terra era stato dato il nome di Chichi, sapeva bene che anche la sua stessa consistenza era puramente effimera,
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bra/Goten, Pan/Trunks
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
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Fackel corse su per le scale di casa, veloce come il vento. Quel libro di matematica, che si era disgraziatamente dimenticata e per il quale era dovuta tornare indietro già a metà strada per Satan City, non si decideva a venir fuori. Il suo quotidiano ordine non aveva mai permesso eventualità del genere, ma la sera precedente aveva avuto la testa da un'altra parte.
E come darsi torto, dopo che la sera prima si era trattenuta fino a tardi a pulire la mensa, inevitabile punizione dopo il disastro combinato a pranzo. Anche Ramen era stata obbligata a farlo, e vederla con addosso un grembiule ed in mano una scopa era stato estremamente divertente. Fortunatamente, tutta l’operazione era stata presieduta dallo sguardo severo della signora della mensa, in modo che le due ragazze non potessero scambiarsi neanche una parola e si tenessero a debita distanza di sicurezza. E così era stato, un lungo, interminabile pomeriggio passato a lucidare pavimenti e a smacchiare i muri, in un inquietante silenzio intervallato solo dai brevi sguardi assassini che lei e Ramen si scambiavano.
Quando finalmente era tornata a casa, aveva avuto appena il tempo sufficiente per finire i suoi compiti. Ma dov’era, adesso, quel dispettoso libro?
Aveva già perlustrato interamente la sua stanza, senza esito, e istintivamente si precipitò nella camera di suo fratello, dimenticando di bussare e spalancando frettolosamente la porta.
“Scusami, Lux, hai per caso visto il mio…”.
Il ragazzo, disteso sul letto e con la testa comodamente appoggiata su un doppio cuscino, fece un balzo improvviso, nascondendo sotto di esso, con un rapido gesto, la rivista che stava leggendo.
“Ehi, potevi almeno bussare!” la rimproverò, con un leggero rossore sul volto, ma la ragazza lo stava già fissando con espressione incuriosita, come se si fosse già dimenticata di ciò che stava cercando.
“Cosa stavi leggendo?” gli chiese maliziosamente, avvicinandosi al letto con passi lenti e inquisitori.
“Non ti riguarda! E adesso vattene, per favore!”.
Ma Fackel lo anticipò con uno scatto, tirando fuori da sotto il cuscino il misterioso giornaletto. Il suo sorriso giocoso si trasformò lentamente in un’espressione più seria, mentre i suoi occhi scrutavano sorpresi la copertina, rimuovendo definitivamente l’idea che si era fatta su ciò che avrebbe trovato.
“Compendio mensile di botanica e zoologia?” chiese con meraviglia. “Io non credevo che…queste discipline ti interessassero a tal punto”.
“Ok, e allora?” si difese Lux, arreso, le braccia incrociate al petto e lo sguardo che si defilava da un’altra parte. “Uno non può avere le proprie passioni?”.
Fackel lo guardò affettuosamente, con un sorriso gentile, nonostante sapesse già che non sarebbe stato ricambiato.
“Non è questo il punto, secondo me” gli disse. “Tu hai scelto di seguire le orme di papà, ma a te piace la natura, non la tecnologia…perché non gliene parli?”.
“No!”.
“Ma perché? Sono sicura che sarebbe ugualmente contento!”.
“Basta così!” la zittì, spingendola educatamente ma decisamente fuori dalla sua stanza. “Adesso, se non ti dispiace, ho da fare!”.
Le chiuse praticamente la porta in faccia, lasciando la sorella a fissare il legno allibita. Poi, dopo qualche secondo, mentre già lei se ne stava andando arresa, si riaffacciò con indifferenza.
“Ah, se lo cerchi, il tuo libro è in bagno” la informò con noncuranza. “Credo tu ce lo abbia lasciato ieri sera, tentando assurdamente di studiare mentre ti asciugavi i capelli!”.
 
Otto e trentacinque. Fackel non si vedeva ancora.
Decisamente strano, pensò Nebe, mentre si affacciava alla vetrata trasparente della sala da pranzo, aperta sul giardino. Era perfino riuscito ad essere pronto in tempo, quella mattina.
“Dunque…” ripeteva tra se suo padre, seduto davanti ad una tazza fumante di caffè e ad un blocco per appunti. “…vi garantisco quindi l’assoluta affidabilità, l’inimitabile…no, no, non ci siamo!”.
“Che stai scrivendo, papà?” gli chiese bonariamente divertito, appoggiandosi leggermente alla parete mentre ingannava l’attesa.
Ub lo guardò, mentre un sospiro arrendevole gli usciva dalle labbra.
“Devo sponsorizzare la linea sportiva di un grande magazzino di Satan City…hanno voluto che parlassi all’inaugurazione del negozio, ma non trovo le parole adatte…”.
Abbassò di nuovo la testa, ormai completamente rasata e priva dei bizzarri capelli neri che avevano contrassegnato la sua gioventù, riportando gli occhi corvini su quel maledetto pezzo di carta che rimaneva immancabilmente bianco.
“E perciò vi consiglio, gentili cittadini…” riprese, impacciato. “L’eccezionale qualità di questa linea comoda, pratica…ehm…”.
“…moderna, originale, stravagante, innovativa!” gli aveva prontamente consigliato Zeme, entrando nella stanza e afferrando una delle brioche dal vassoio sul tavolo, assaggiandola con gusto.
“Ma…Zeme” aveva obiettato Ub, grattandosi la testa con indecisione. “Io ho visto questi prodotti…non hanno niente di originale e tanto meno di stravagante…sono comuni tute da palestra!”.
“Appunto, papà! Se si vuole avere effetto bisogna esagerare, aggiungere qualcosa in più a quello che è…alla gente di solito non piace la semplice normalità!”.
Aveva detto quelle parole lanciando una fugace occhiata al fratello, che si voltò di nuovo con indifferenza verso la vetrata. Ub, soddisfatto, accolse con gioia il consiglio del figlio, aggiungendo quella bizzarra serie di aggettivi all’elenco.
“Buongiorno tesoro, buongiorno ragazzi!” li aveva salutati frettolosamente Marron, affacciandosi nella stanza, i capelli biondi raccolti sulla nuca da un fermaglio e la valigetta da lavoro con camice e articoli sanitari. “Stamattina devo correre presto in ospedale, in frigo c’è un po’ di dolce se avete fame, e tu Ub, fammi sapere come è andata l’inaugurazione, più tardi!”.
“Ok, cara, a stasera!” l’aveva salutata l’uomo con un sorriso, abbandonando per una attimo la scrittura.
“Ciao, mamma!” avevano esclamato invece all’unisono i due gemelli.
Marron sorrise, le piccole fossette ai lati della bocca che le davano ancora un’espressione giovanile. Fissò teneramente i suoi due ragazzi: il modo con cui la salutavano, oltre alla loro straordinaria sincronia nel farlo, era probabilmente l’unica cosa che ancora li accomunava. Ne era passato di tempo, da quando lei e Ub facevano addirittura fatica a riconoscerli.
Nebe guardò di nuovo fuori, sperando di vedere arrivare un’inconfondibile chioma lavanda al di là della cancellata.
“Quant’è che la stai aspettando, Nebe?” le chiese improvvisamente suo fratello, avvicinandosi a lui, la colazione ancora in mano e il cappellino già in testa.
“Oh…è in ritardo di soli dieci minuti, in realtà” rispose il ragazzo, alzando le spalle. “Ma sai com’è Fackel…è sempre così puntale!”.
Zeme sorrise tra se, scuotendo la testa divertito.
“Non parlavo di stamattina, fratello…sai cosa intendo”.
Nebe distolse repentinamente lo sguardo, ringraziando la sua carnagione scura in grado di celare, in parte, il rossore che adesso gli infiammava le guance.
“E’ troppo tempo, non credi, che le nascondi quello che provi per lei” convenne Zeme, senza malizia nella voce, solo la spontaneità di un’opinione fraterna, quella che da lui trapelava quando si trovavano da soli, fuori dalle mura del liceo. “Non puoi sempre aspettare che le cose piovano dal cielo…devi prendertele, se le vuoi!”.
“Non è così semplice” mormorò Nebe, con un debole sorriso. “Tra noi cambierebbe tutto in quello stesso momento. Niente sarebbe più come prima”.
“E tu forse non vuoi che le cose cambino? Vuoi continuare ad essere solo il suo migliore amico per sempre, quello con cui si confiderà quando uscirà con altri ragazzi? Perché succederà, prima o poi, se tu non…”.
“Il problema è che…Fackel non ama i cambiamenti” lo interruppe Nebe. “Lei colloca tutto in un posto preciso…persone, cose, sentimenti…vuole poterli tenere sotto controllo, averli sempre a portata di mano, conoscerli nei dettagli…se le rivelassi…insomma, se le dicessi la verità, sconvolgerei il suo puzzle perfetto…e forse perderei il mio posto nella sua vita”.
“Mai accontentarsi, Nebe” gli sussurrò lui, mentre recuperava dalla spalliera della sedia la felpa con lo stemma del liceo e si avviava verso la porta. “Certe volte, bisogna avere il coraggio di rischiare!”.
Lo guardò salutare il padre, ancora concentrato sul lavoro, per poi uscire dalla stanza. Quando Nebe si voltò di nuovo verso la vetrata, intravide finalmente la familiare figura di lei che si avvicinava a passo svelto lungo il viale, e il suo cuore sobbalzò.
Probabilmente aveva ragione Zeme. Lui l’avrebbe anche aspettata per sempre, se era necessario, ma forse era giunto il momento di andarle incontro.
 
Finalmente, il semaforo pedonale divenne verde. Una fiumana di persone si riversò nella strada momentaneamente sgombra, avviandosi a passo deciso verso l’altro lato. Uomini d’affari, donne in carriera, magnati dell’alta finanza che parlavano con veemenza al cellulare, tutti che correvano verso la loro quotidiana vita frenetica, verso gli alti uffici che svettavano nel centro di West City, il cuore degli affari.
Lux, invece, per ora doveva solo arrivare dall’altra parte della strada, verso la galleria commerciale.
Credo che lavorare alla Capsule Corporation sia proprio quello che hai sempre desiderato…
E come dare torto a suo padre. Ottenere un posto nell’azienda di famiglia era diventato il suo obiettivo più grande. Aveva fatto sacrifici per arrivare a quella fatidica proposta di lavoro, e adesso, adesso che finalmente era arrivata, non aveva neanche il coraggio di riconoscere a se stesso che quel posto tanto ambito, in realtà, per lui non significava altro che un posto nella vita di suo padre…
Tu hai scelto di seguire le orme di papà, ma a te piace la natura, non la tecnologia…
Continuava a denigrare sua sorella, senza un motivo plausibile, forse solamente perché lei aveva sempre maledettamente ragione. Ma non l’avrebbe ascoltata. Avrebbe continuato a tapparsi le orecchie, a mettere ostinatamente la testa sotto la sabbia, perché quella cosa, quella brutta cosa, era sempre lì, in agguato, pronta ad attaccare ad ogni suo minimo errore. Aveva promesso di fuggire da quella voce interiore, tanto pericolosa, scegliendo invece di farsi trasportare passivamente dalle acque. Acque dritte e rettilinee, proprio come quel fiume di gente tra cui si era trovato a camminare.
Ricordati che la tua casa è qui, che noi siamo qui, e che siamo sempre con te…
Sua madre…non poteva coinvolgerla sempre nei suoi problemi, non era giusto. Aveva già sofferto abbastanza per lui. Doveva affrontare la sua battaglia interiore da solo, quella stremante, eterna lotta contro il suo lato oscuro.
Entrò pensieroso nella spaziosa panetteria, dove snodati robot, al posto di fornai in carne ed ossa, lavoravano meccanicamente la pasta.
“Buongiorno, signora Cotton”.
La padrona del negozio, una robusta donna sui sessant’anni seduta alla cassa, gli sorrise maternamente, la bocca che sembrava un’allegra mezzaluna.
“Buongiorno, Lux!”.
“Lux?” chiese, voltandosi indietro, una cliente davanti a lui, che stava in quel momento pagando il conto. “Lux Brief, figlio di Trunks Brief?”.
“Sì, è proprio lui” rispose compiaciuta la signora Cotton, mentre il ragazzo infilava distrattamente le mani in tasca e sembrava aver trovato qualcosa di estremamente interessante nella muratura delle pareti. “Ma questo bel giovanotto non è il tipo che si dà le arie, sa, signora Smith, è proprio un bravo ragazzo, sempre così buono e gentile, che quando ha tempo preferisce andare a fare commissioni per sua madre che a divertirsi, mica come la maggior parte dei ragazzi di oggi!”.
Le due donne continuarono per un po’ a commentare sorridenti, ripetendo che non c’erano più i giovani di una volta, che avere un figlio del genere era una fortuna e che bisognava tenerselo stretto, e tante altre belle storie. Infine, la loquace e curiosa cliente se ne andò dal negozio con la sua spesa.
“Ecco qua, Lux, la ricevuta è nella busta!” lo avvisò la commessa, porgendogli i suoi acquisti. “Salutami tua madre!”.
“Senz’altro” rispose Lux con un mezzo sorriso. “Ah, una cosa, signora Cotton…”.
Le si avvicinò lentamente, facendole un segno con la mano come per invitarla ad affacciarsi di più al bancone e a porgergli l’orecchio.
“Io non sono affatto un bravo ragazzo, sa…” le bisbigliò cospirante. “Io sono cattivo…molto, molto cattivo”.
Se ne andò con noncuranza, gustandosi però, con un rapido sguardo, l’espressione allibita della donna, che lo fissava immobile a bocca aperta, il volto rotondo diventato improvvisamente pallido.
Mentre usciva dal negozio, un sorrisetto compiaciuto si disegnò lentamente sul suo volto.
 
“Dottoressa Bra, mi perdoni se la disturbo, ma c’è qui suo figlio che vuole vederla…” comunicò Irina tramite la linea interna, alzando poi gli occhi minacciosa verso il giovane Son che, nonostante l’iniziale negazione della segretaria, aveva insistito per parlare con sua madre.
Quel ragazzo, si disse mentalmente, era tremendamente cocciuto. La vicepresidentessa le aveva detto esplicitamente che era molto impegnata e che non voleva interruzioni di nessun tipo. Adesso finalmente anche lui avrebbe capito che…
Ma la sua espressione, mentre ascoltava la risposta, si fece improvvisamente sorpresa.
“Allora?” gli chiese Golden, incoraggiandola.
“Ha…ha detto che può andare…” balbettò Irina, incredula e sconfitta.
Il ragazzo la salutò con lo sguardo compiaciuto di chi ha appena vinto una sfida, avviandosi poi verso l’ufficio di sua madre. Aprì lentamente la porta, entrando nella luminosa stanza la cui spaziosa vetrata dava su un suggestivo spaccato di West City. Sua madre era seduta alla scrivania, sulla quale regnavano disordinatamente pile di fogli, cancelleria varia e campioni di tessuto, e parlava animatamente al telefono.
“No, mi sembra di averle già detto che ho assolutamente bisogno di quel materiale per domattina!” scandiva spazientita, accavallando una gamba e girando nervosamente una penna tra le dita. “E’ già una settimana che ho fatto quell’ordine, i tempi di trasporto non sono un mio problema!”.
Golden, divertito, si sedette comodamente nella poltrona davanti alla scrivania.
Attraente, in gamba, intelligente e con l’eleganza nel sangue, nel suo tailleur blu scuro, i capelli tirati su e occhiali da vista griffati con la montatura rossa. Se per la rara e ancor fresca bellezza poteva competere con poche altre donne del pianeta anche sotto i quarant’anni, nessun uomo poteva batterla, per intuizione e determinazione, nel campo degli affari. E se suo zio Trunks era spesso e volentieri troppo accondiscendente, sua madre si faceva rispettare e temere da ogni subalterno, che difficilmente si sarebbe arrischiato a permettere un ritardo nelle consegne.
“Cosa? Non ce la fate?” chiese minacciosa. “Beh, fate in modo di farcela o non ci metterò molto a cambiare fornitore!”.
Riattaccò non troppo delicatamente il ricevitore, per poi alzare gli occhi verso il figlio e cambiare totalmente e repentinamente espressione.
“Ciao, tesoro!” lo salutò con gioia, accogliendolo con uno splendido sorriso. “Che piacere vederti! Come mai qui?”.
“Devo forse avere un una ragione precisa per venire a trovare mia madre a lavoro?” chiese innocentemente il ragazzo, trovando un gusto infantile a girarsi a destra e a sinistra con la comoda poltroncina munita di rotelle.
Bra lo guardò bonariamente, inarcando sospettosa un sopracciglio: “Sì!”.
“E va bene” ammise Golden, alzando arreso le spalle. “Mi servirebbe un piccolo prestito, mami… ho avuto diverse spesucce in questo mese, e tu sai che, insomma, lo stipendio che mi elemosina Pan alla palestra è un tantino…come dire…misero!”.
Risero entrambi con gusto, ripensando all’ultima busta paga nella quale, oltre a poche centinaia di yeni, il ragazzo aveva trovato un messaggio leggermente minatorio di Pan:
E’ anche troppo, ragazzaccio, per quello che ti meriti!
Era corso subito a farlo vedere a sua madre e, complici, si erano ritrovati tutti e due a piegarsi in due dalle risa.
“Ok, Gold” acconsentì infine Bra, mentre dal cassetto della scrivania tirava fuori una carta di credito nuova di zecca, la parte metallica che luccicava come oro nella morbida luce pomeridiana.
Golden sorrise soddisfatto, allungando istintivamente la mano, ma la donna ritrasse prontamente l’ambito cartoncino, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
“Un momento!” l’ammonì, con tono inquisitorio. “Non è che…devi usarli per comprare qualcosa di costoso ad una ragazza?”.
“Figuriamoci! Devo solo fare qualche ritocco all’auto!” replicò lui divertito. “E poi, mamma, lo sai che sei tu l’unica donna della mia vita!”.
Bra sorrise, piacevolmente rassicurata, guardandolo con affetto.
Le madri, pensò Golden, potevano essere molto gelose dei loro figlio maschi. Soprattutto quando la madre in questione era Bra Brief.
 
La campanella aveva finalmente risuonato l’ultima nota della giornata, guidando gli stremati studenti verso l’uscita della scuola, ad abbracciare la luce dorata del tardo pomeriggio. I corridoi si erano rapidamente svuotati, solo qualche custode rimaneva tra le aule per le pulizie di fine giornata, e le suggestive macchie d’ombra riversate sui muri sembravano magicamente intervallate da originali disegni di luce.
Infine la vide, davanti al suo armadietto, ai piedi un barattolo di vernice arancione ed in mano un pennello che passava con cura sul fine metallo. I capelli, quei morbidi, stupendi capelli che lei odiava tanto, erano accuratamente raccolti in alto, la fronte libera da ciocche lavanda. Il suo profilo era come una figura di colore in quello spoglio corridoio, meravigliosa in ogni singolo dettaglio, perfetta nella sua semplicità. Un viso dolce, acqua e sapone, dalla carnagione chiara e dalla pelle così morbida che era quasi impossibile non cedere ad accarezzarla, gli occhi neri, che ora controllavano soddisfatti il risultato, profondi e sfaccettati come laghi, in cui avresti solo voluto perderti e non tornare mai più a galla.
E quelle labbra…
Quelle labbra fini, naturalmente rosee, senza traccia alcuna di rossetto ad impastarle, ora leggermente aperte mentre la ragazza era concentrata sul lavoro…quelle labbra che Nebe, per diciassette anni, non aveva mai sfiorato.
“Ciao, Fackel” la salutò, avvicinandosi a lei, zaino in spalla. “Vedo che ti sei messa al lavoro”.
La ragazza si voltò verso di lui, accogliendolo con un caldo sorriso. Sulla guancia si era accidentalmente disegnata una breve striscia arancione.
“Ciao! Sono passati già due giorni e non potevo certo dare la soddisfazione a Ramen di lasciare l’armadietto in quello stato!”.
Nebe allungò istintivamente la mano, con l’intenzione di cancellargli quel simpatico sbafo dal volto con il palmo del pollice. Ma la ritrasse poi con indifferenza, portandola imbarazzato alla nuca.
“Ehm…hai una macchia di vernice sul viso…” la informò, cercando di riprendere il controllo di se. “Non dovevi dipingere solo l’armadietto?”.
Fackel rise, strofinandosi la guancia con le dita. Quel sorriso caldo, aperto, familiare. In quel momento, Nebe capì che non poteva più aspettare.
“Fackel, senti…devo dirti una cosa…” balbettò, cercando di guardarla negli occhi, occhi corvini che, adesso, sembravano puntati su di lui con curiosità.
“Che cosa?”.
“Ecco…io…cioè, tu…insomma…”.
La sua voce aveva iniziato lentamente a tramare, mentre spostava nervosamente il peso del corpo da una gamba all’altra.
“Sì?” lo incoraggiò lei, la testa leggermente piegata di lato.
“Beh, io…volevo dirti che…che…”.
“Nebe…” mugolò stanca la ragazza. “Devo finire questo lavoro e passare in biblioteca, se non ti sbrighi, a casa mi daranno per dispersa!”.
Il ragazzo abbassò prontamente lo sguardo verso il pavimento, in mezzo al quale, in quel momento, avrebbe scavato volentieri una profonda buca dove poter sparire.
“Ecco, niente, volevo semplicemente dirti che…che avrei bisogno di prendere in prestito il tuo libro di chimica!”.
“Tutto qui?” sorrise divertita la ragazza. “Ci voleva tanto? E’ ancora in aula, lo troverai sul mio banco! Se mi aspetti, ce ne andiamo insieme!”.
“O-ok…torno subito…” mormorò lui, sforzandosi di sorridere.
In realtà, avrebbe volentieri voluto prendersi a schiaffi.
 
* * *
 
"Vinto!” esclamò 18 con un sorrisetto soddisfatto, mentre toglieva fishes dal gruzzolo di Chichi e le faceva scivolare verso il suo malloppo, attraverso il piccolo tavolino da caffè che in quel momento sembrava diventato il banco di un casinò. “Queste equivalgono ad altri due turni di ronda che mi devi!”.
Chichi sbuffò leggermente, mentre sul suo viso giovanile compariva un broncio risentito.
“Maledizione! Ero convinta che questa volta ce l’avrebbe fatta!”.
Qualche risolino rassegnato si udì nella grande sala della Residenza, dove i sette shinigami si erano riuniti, finiti i loro turni di lavoro quotidiani, davanti al grande schermo.
“Ma insomma…non è giusto scommettere così sui sentimenti di un povero ragazzo!”.
Era la stata la voce di Crili che aveva mormorato cautamente quella frase, mentre osservava, dolente, suo nipote che si allontanava sfiduciato.
“Ha bisogno di tempo, poverino!” continuò. “Non sono cose così facili da dire…”.
“Scommetto che ha preso dal nonno!” esclamò Yamcha, mentre una risata generale si sollevava tra di loro, lasciando il più basso shinigami immerso in un evidente imbarazzo.
Solo Vegeta, al margine del divano e leggermente scostato dagli altri, fissava serio lo schermo, senza trovare il medesimo interesse in quelle monotone situazioni quotidiane. L’unico commento che gli veniva in mente era che, nonostante quei bambocci fossero suoi nipoti ed i loro genitori portassero entrambi geni sajan, il loro sangue, con il passaggio di una generazione, si era ulteriormente arrugginito. E come poteva essere altrimenti…
Una ragazzina tutta numeri la cui unica sfida era competere con un’inutile ballerina…
Un fanciullo tutto casa e studio che aveva ancora paura dell’uomo nero come un poppante…
E infine, un giovincello completamente fuori di testa il cui sorriso smagliante compariva costantemente nel genere di riviste che, quando era ancora in vita, lui usava solo in una stanza e con un unico scopo…
Da non credere che quei marmocchi fossero nipoti suoi! Sicuramente dovevano aver preso dai Son!
D’un tratto, l’orologio a muro cominciò a battere forti rintocchi, mentre nella sala le voci femminili si zittivano bruscamente.
“Silenzio!” ammonì Bulma, mentre si accomodava sulla punta del bianco divano, telecomando stretto in mano come fosse un’arma da combattimento. “Ci siamo, ci siamo, sta per cominciare la 6945esima puntata di Sentieri infernali!”.
Sullo schermo, intanto, reimpostata la visione dei canali celesti, si faceva strada, sonorizzata da un’avvincente canzone, la sigla della soap con i volti dei protagonisti.
“Che cosa? Dovremmo vedere questa roba?” chiese Yamcha, con una smorfia di disgusto.
“E’ ovvio!” scandì Chichi, eccitata. “Come potremo perderci quest’episodio, Angel sta per rivelare a Serafin che l’ha tradito con Cherubin, mentre Belzebù è finalmente sul punto di baciare Luciferin!”.
“Per favore…” sbuffò Tensing. “Avanti, Vegeta, fai qualcosa tu per risparmiarci questa lagna!”.
Ma Vegeta neanche lo sentì, gli occhi d’ebano rapiti dalle immagini sullo schermo, le mani che stringevano un sacchetto di popcorn che sgranocchiava passivamente.
“Sshhh!” si limitò a fiatare, facendo distrattamente segno con la mano di abbassare la voce, mentre gli altri tre uomini, metà scioccati e metà divertiti, lo guardavano allibiti.
Ma non dovettero attendere molto per vedere l’espressione concentrata del principe mutare repentinamente, trasformandosi in un’occhiataccia omicida mentre, al posto dell’avvenente protagonista maschile, compariva la brutta faccia di Enma.
“Qualcuno batte la fiacca, eh?” chiese il gigante, accarezzandosi nervosamente la barba scura. “Ti sei forse scordato, Vegeta, la tua espiazione di colpe quotidiana?”.
Il principe sbuffò adirato, era già abbastanza noioso essere regolarmente mandato ad alimentare la bollente fornace del fuoco perpetuo, non c’era bisogno che quel guastafeste glielo ricordasse proprio nel momento cruciale della sua soap preferita!
“Avanti, sbrigati a tagliare la corda, o per colpa tua ci perdiamo la puntata anche noi!” lo esortò la cyborg, mentre le altre donne reclamavano trepidanti il ritorno del programma e i tre insulsi maschi se la ridevano di nascosto.
Se ne andò borbottando qualcosa contro il padrone dell’oltretomba, uscendo con rabbia dalla Residenza. Mentre raggiungeva a passo svelto il primo teletrasporto, si ritrovò improvvisamente tra i piedi quella vecchia scocciatrice di Baba, che, appoggiata al suo bastone, stava risalendo lentamente il Limbo nella sua quotidiana passeggiata.
“Salve, bel fusto” gracchiò la vecchia, lanciando un’occhiata allusiva al principe. “Te ne vai al lavoro anche oggi?”.
“No, vado a farmi una sauna al Fuoco perpetuo!” rispose sarcastico lui, sbuffando.
Il sorriso sdentato della maga si aprì orripilante, mentre pensieri tutt’altro che innocenti le attraversavano quella piccola testa rugosa:
“Peccato che non possa vedere quella mercanzia di muscoli bagnati di sudore mentre alimenti la fornace a torso nudo!” esclamò, mentre pian piano riprendeva il suo cammino, senza mancare però di voltarsi rapidamente indietro per osservare la figura del sajan da un’altra prospettiva. “Mi accontenterò del belvedere che si intravede da quel paio di pantaloni di pelle attillati!”.
Vegeta sobbalzò per l’imbarazzo, sentendosi improvvisamente vulnerabile alle occhiate languide di quella vecchia pervertita. Ci mancava solo lei per maledire definitivamente quella pessima giornata.
Salì rapidamente sulla pedana del teletrasporto, proiettandosi finalmente verso l’ultimo girone. E così via, di nuovo ad espiare le sue antiche malefatte a palate di carbone.
Intanto, per fortuna sua ma non delle donzelle che dalla Residenza seguivano speranzose la trasmissione, Angel non trovava ancora il coraggio di rivelare il suo tradimento, mentre Belzebù e Luciferin rimandavano alla puntata successiva il loro tanto atteso bacio.
La solita storia, scontata e prevedibile, proprio come le vicende che, ormai da molti anni, erano soliti spiare sulla Terra.
 
* * *
 
“Ti sto chiamando, oscuro signore delle tenebre…riesci a sentirmi?”.
Solo denso fumo compariva per ora nella piccola sfera translucida, stretta tra i bramosi artigli dell’invocatore. Il silenzio, l’oscurità e l’impaziente attesa opprimevano con forza il suo piccolo rifugio, facendo di quelle improvvisate mura una bolla di pathos crescente.
Nessun nome da invocare, nessuna direzione precisa a cui rivolgersi, solo un’ancestrale consapevolezza, una primitiva fiducia verso il potere dell’ignoto. Ci aveva creduto fortemente e, liberando la propria mente dalle barriere fisiche, aveva srotolato il suo intelletto come fosse una fune calata dalla finestra, lanciandola poi verso quell’indistinto punto dello spazio.
“Parla”.
Solo una parola era giunta finalmente alla sua coscienza, non trasportata dall’etere ma soltanto da quel labile filo mentale. Una voce profonda, echeggiante, a cui, all’interno della sfera, facevano da sfondo solo ombre vaghe e distinte, sagome scure dai contorni inquietanti.
Il contatto era finalmente riuscito. Un sorriso fiero si disegnò sui suoi tratti.
“Io ti chiamo da lontano, oh signore, qualora non ho modo di raggiungerti. Non c’è ragione che ti dica il mio nome, tu sai chi sono, puoi sentirlo…”.
Qualche attimo di silenzio, solo un ovattato fruscio disturbava quella quiete. Lo percepiva distintamente, percepiva la mente della creatura che lo sondava attentamente attraverso quel collegamento psichico, come una mano felpata sulla sua testa.
“Ti ho cercato a lungo” continuò, avvertendo il progressivo dissiparsi dei dubbi. “E finalmente ti ho trovato su questa lunghezza d’onda. So che sei in trappola, mio signore, ma io conosco il modo per donarti di nuovo la libertà”.
Qualche movimento nella sfera, impercettibili cambiamenti di luminosità e consistenza.
“Quale compenso avresti per te?” chiese la voce, grave e fredda come il marmo.
L’invocatore sorrise avidamente, nessun dubbio passava minimamente per la sua mente:
“La vendetta”.
La mano felpata lo sfiorò ancora virtualmente, questa volta penetrando negli anfratti più oscuri della sua anima, alla ricerca della verità. E la trovò, perché era proprio ciò di cui si trattava.
“In che modo?”.
Domanda legittima.
“Ho un contatto” spiegò, con autocompiacimento. “Adesso è silente, dorme un profondo sonno da tanto tempo, addormentato piacevolmente in un nuovo, inconsapevole sangue…ma si desterà presto al mio richiamo, percorrerà la strada che io gli ordinerò, e aprirà infine la vostra antica prigione”.
Nella sfera, proiettandovi con un breve sforzo l’immagine del suo pensiero, si delineò lentamente una giovane figura umana, i contorni dolcemente sfumati come nel riflesso di un lago.
“L’ora è giunta” concluse. “Presto la Terra non sarà più la stessa”.
 
Continua…
  
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