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Autore: Sylphs    03/07/2013    6 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 11
 

 
 
 
 
Quando gli occhi di Harriet si abituarono alla luce seppur fioca dell’unica candela presente nella stanza da bagno, socchiuse le palpebre che aveva prudentemente stretto a fessura per difendere le pupille sensibili e le sbatté un paio di volte, percependo le ciglia appiccicose che si staccavano le une dalle altre; l’infelicità della sua situazione le aveva impedito di soffermarsi su cose normali come l’igiene personale, ma ora che il suo carceriere l’aveva praticamente costretta a ricordarsene, si accorse di sentirsi tremendamente sudicia e coperta di sudore gelido, con le labbra secche, la lingua gonfia e i capelli incollati al cranio. Dio, avrebbe ucciso per un sorso d’acqua!
Era confortante e strano insieme poter vedere di nuovo dopo ore e ore di completa oscurità, e come prima cosa fissò proprio il mozzicone di candela appiccicato in quella che aveva l’aria di essere una nicchia scavata nel muro di pietra di fronte alla porta che lo stronzo aveva sbattuto alle sue spalle, con la cera calda che colava in rivoli sul pavimento e la fiammella che ondeggiava appena, proiettando ombre distorte e inquietanti sul basso soffitto e sulle strette pareti che le si chiudevano addosso in modo soffocante, provocandole una vaga sensazione di claustrofobia. Non avrebbe potuto utilizzare una lampada, o una torcia? Quell’esile candela aveva un aspetto fragilissimo, e temeva che il minimo soffio di vento avrebbe potuto spegnerla e precipitarla nuovamente nel buio.
E non ho intenzione di rinunciare alla luce così facilmente, ora che posso usufruirne.
Si osservò attorno con attenzione, facendosi avanti a piccoli passi con le braccia incrociate sul seno e la pelle d’oca nei vari punti che la camiciola da notte lasciava scoperti. Più che un bagno, quella sembrava proprio essere una latrina, e il puzzo di fogna che la appestava a causa delle piccole dimensioni le fece arricciare il naso. Fortuna che aveva visto di peggio: le toilette dei fast food erano uno spettacolo che non si dimentica facilmente! Aveva forma quadrata e tutto era in pietra nuda e disadorna, con qualche traccia di mucillaggine biancastra sui muri. Una grata in alto a destra faceva entrare un minimo di aria respirabile ed erano stati collocati sul pavimento, apposta per lei, un pitale, una tinozza piena d’acqua e, sopra una lastra in compensato, uno spazzolino da denti male in arnese, un tubetto di dentifricio, un asciugamano, un paio di jeans ripiegati con maniacale precisione e un pullover rosso.
Fece una smorfia.
Ha pensato proprio a tutto, il bastardo.
La vista di quegli oggetti e in particolar modo del pitale la fece sentire umiliata, nel profondo. Nessuno avrebbe dovuto vivere in quelle condizioni, nessuno avrebbe dovuto soggiacere ad un trattamento così disumano. Certo, se avesse voluto vedere il bicchiere mezzo pieno avrebbe potuto dirsi che poteva andar peggio, che certi ostaggi erano stati tenuti in guisa ben più tremenda della sua, che li avevano legati, picchiati, abbandonati nella loro sporcizia e nei loro escrementi, ma doveva ammetterlo, al momento di loro le importava ben poco. Era la sua situazione a bruciarle, e soprattutto i motivi per cui era costretta a sopportare quella porcata. In fin dei conti, il suo rapitore voleva vendicarsi di Jesper, non di lei, ma, sorpresa sorpresa!, a pagare era lei, che non c’entrava niente, che in certi giri loschi non aveva mai voluto entrare, che si era sforzata soltanto di farsi bastare quel poco che aveva, di vivere in pace.
Invece no, oltre al danno si era aggiunta la beffa. Peraltro quell’R doveva essere alquanto malinformato, se credeva che il giovane rampollo si sarebbe privato dei suoi preziosi averi per salvarla. Un’altra disposta a diventare la nuova signora Lawrence se la sarebbe potuta trovare in quattro e quattr’otto, una che ne fosse davvero felice, una bella e seducente come Christine. Sarebbe stato quasi divertente assistere alla reazione del suo carceriere quando Jesper avrebbe fatto sapere che non aveva alcuna intenzione di cedere al ricatto. Ma non aveva la minima voglia di interpretare, per l’ennesima e ultima volta, la parte di quella zitta che non dà problemi, del cadavere floscio e patetico abbandonato in qualche campo o gettato nelle profondità del mar Baltico. Non sarebbe stata la vittima delle beghe dei potenti, qualsiasi fossero. Non stavolta.
Mentre si toglieva, riluttante, la camicia da notte, da qualche angolo recondito della mente giunse un’idea bizzarra e ripensò al duplice omicidio avvenuto a Lawrence Borg ormai quindici anni prima, l’assassinio del padre di Jesper e del figlio terzogenito Viktor che all’epoca aveva destato tanto scalpore. Non si era mai trovato il colpevole e il caso era stato chiuso da tempo, e per giunta i Lawrence superstiti non avevano mai spinto affinché si indagasse per bene, avevano lasciato che la tragica vicenda scivolasse nel dimenticatoio, rifiutando categoricamente di tornare sull’argomento.
Ma negli ultimi giorni, al castello erano avvenuti una serie di fatti strani: la comparsa di R alla festa di Halloween, il nervosismo che Jesper aveva ostentato dopo aver parlato con lui sul balcone, la scomparsa di Jonas…
Un momento! E se quella sparizione fosse stata, in qualche modo, collegata al suo rapimento e all’omicidio di Hugo e Viktor? Se l’assassino che a quei tempi aveva manifestato il proprio odio per i Lawrence in maniera tanto efferata e violenta (si diceva che i cadaveri fossero stati trovati in condizioni pietose) fosse tornato per portare a compimento la sua vendetta? Magari passando prima a fare una “visitina” a Jonas? Se R e quel pluriomicida fossero stati la stessa persona? In quel caso era finita nelle mani di un omicida senza pietà, uno che uccideva senza pensarci due volte…del resto, non le riusciva difficile credere che qualcuno potesse odiare i Lawrence, parevano avere la bastardaggine nel dna, e non era sicura che gestissero i loro affari in modo pulito, anzi…
Ma se lo scopo dell’assassino era vendicarsi di loro, perché rapirla per ottenere un riscatto? Non poteva semplicemente far fuori Jesper ed Erin ed eliminare i discendenti della famiglia dalla faccia della Terra? Non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farlo, sul balcone era stato completamente solo con il suo fidanzato, e, oh, Dio, si era presentato alla festa al braccio di Erin…quella carogna aveva ingannato la bimba per poter penetrare indisturbata nel maniero e le era stata accanto a lungo, l’aveva usata, mentre la piccola lo credeva ingenuamente un amico, ignara di aver offerto vitto e alloggio all’assassino del padre…
Insomma, se avesse desiderato estirpare i Lawrence, avrebbe potuto farlo benissimo, ma non l’aveva fatto. Aveva scelto di ricattare Jesper. O forse il suo ragionamento era tutto sbagliato, e quel bastardo non c’entrava niente né con Jonas né con l’omicidio di papà Lawrence e figlio, era solo un volgare, losco individuo che mirava all’ingente patrimonio di cui il suo fidanzato, vista l’assenza del primogenito, sembrava essere l’unico detentore. Anche se non ne aveva granché l’aria. Sembrava più un folle esaltato e inasprito, e non le aveva dato l’idea d’essere molto attaccato al denaro…odiava i Lawrence, questo era poco ma sicuro, però le aveva fatto intendere d’essere stato vittima di un torto grave da parte loro…beh, non era certo l’unico! E poi, sebbene fosse restia ad ammetterlo, in qualche modo era rimasta colpita da lui. Un individuo ben strano e fuori dal comune, decisamente, con doti alquanto inquietanti. Ma un punto debole doveva averlo di sicuro, come tutti.
Immerse il piede nudo nella tinozza e cacciò uno strilletto, togliendolo subito in una fontana di schizzi e saltellando in preda ai brividi. Accidenti, non credeva che l’acqua fosse così fredda! Cioè, non che si fosse aspettata una sorgente termale, ma aveva la temperatura di un fiordo artico in pieno inverno, santo cielo! Se a questo si univano le pessime condizioni in cui il suo carceriere la teneva e il clima di quella specie di sotterraneo, si sarebbe ammalata in un batter d’occhio.
E allora? Quando si manifesteranno i primi sintomi, sarai già fuori di qui. E non è il caso di insospettirlo.
Inspirò a fondo ed entrò nuovamente nella tinozza, con tutti i muscoli contratti e i pugni stretti lungo ai fianchi. Il freddo le morse la carne come una bestia feroce e aggressiva, mozzandole il respiro e paralizzandola quasi allorché si sedette all’interno del grosso recipiente, stringendo i denti e combattendo le staffilate brucianti che le penetravano nelle ossa. Avrebbe voluto uscire immediatamente e avvolgersi nell’asciugamano, ma si costrinse a prendere la saponetta che le era stata lasciata sul bordo e a strofinarsi con foga, cercando di fare più in fretta possibile; più restava immersa in quell’acqua gelata, più aveva la sensazione che il corpo si logorasse e s’intorpidisse, e invece doveva essere al pieno delle sue forze, se intendeva tentare di scappare.
Avrebbe dovuto prevederlo, che sarebbe finita così. Avrebbe dovuto dare più retta alle voci secondo cui i Lawrence fossero maledetti, e con loro tutti quelli che gli si avvicinavano. La sua amica di penna londinese, conosciuta durante un viaggio, Amelia Nilsson, l’aveva messa in guardia più volte dopo che le aveva comunicato che avrebbe sposato Jesper. Le famiglie così ricche e potenti, per giunta invischiate nella criminalità, aveva detto, non portavano altro che guai. Prima o poi nemici vari si sarebbero approfittati del suo legame di parentela con il giovane e le avrebbero fatto del male per arrivare a lui.
In effetti, Amy, avevi proprio ragione.
Una lacrima calda le scivolò lungo la gota gelata, ma se l’asciugò con furia, strappandosela quasi dalla pelle. Non poteva apparire debole, neanche a se stessa. Se ricadeva nel solito circolo vizioso di arrendevolezza e autocommiserazione, sarebbe stata davvero spacciata.
Rievocò le parole della sua amica, chiudendo gli occhi per immaginare che fosse proprio lì vicino a lei: “Se quell’uomo ti mette sotto, Harriet, allora tu rendigli pan per focaccia. Voglio dire, siamo cento volte più intelligenti di quei sottosviluppati! Soprattutto tu. Loro avranno anche tanti bei muscoli, ma noi abbiamo cervello. E quello sì, che è una risorsa preziosa”.
“Noi abbiamo cervello” mormorò pianissimo. Sì, poteva, doveva farcela ad uscire da quella maledetta situazione. Magari non era la ragazza più sexy, furba o ingegnosa del mondo, ma non era stupida. A scuola aveva sempre preso il massimo dei voti, era stata membro onorario del gruppo di scienze, piazzandosi prima in classifica al Torneo Regionale (nella frustrazione e nell’odio del suo rivale maschio) ed aveva stupito tutti quando aveva ricavato da un tostapane, una spilla da balia, una lampadina e un campanello da bicicletta un efficiente sistema di allarme. Hannah diceva che assomigliava a Violet Baudelaire della serie degli “Sfortunati eventi”, l’inventrice, sua madre la reputava una dote stupida e inutile. In effetti, per sposare Jesper le sue capacità non le erano servite affatto, ma in questa particolare circostanza, potevano tornarle molto più utili di un bel faccino e di una parlata accattivante.
Sì, posso farcela, posso farcela!
Finì di lavarsi i capelli, strizzandoli per eliminare più acqua che poteva, e si affrettò ad uscire dalla tinozza, rabbrividendo con violenza nell’abituarsi di nuovo alla temperatura normale. Afferrò l’asciugamano scolorito dalla lastra di compensato e ci si avvolse come in una coperta, frizionando il corpo che stillava gocce di ghiaccio puro. A dispetto del bagno artico e dell’aspetto angusto di quella latrina, passare un po’ di tempo sola, al sicuro dietro un uscio chiuso, senza temere in ogni momento una comparsa del suo carceriere e sentendosi quindi libera di riflettere con calma, le aveva fatto bene. Era molto più lucida e determinata di prima. Ed era pronta a mettere in atto il suo piano di fuga. Sarebbe stato rischioso, certo, ma tanto se non fosse scappata sarebbe comunque morta, quindi non aveva niente da perdere. E poi, almeno al momento, era troppo preziosa per essere uccisa. Se R la scopriva l’avrebbe punita, e gravemente, oltretutto, ma non le importava. Non adesso. Non più.
In fondo, lui non era tanto peggiore di Jesper e dei tormenti psicologici che le aveva inflitto. Era solo più sfrenato e privo di controllo. Ed Harriet, a dispetto dell’opinione di qualsiasi essere umano, preferiva soffrire che morire. Proprio così. Dopo quella notte in cui la Morte le aveva respirato sul collo ed era arrivata a sentirne l’odore, dopo che aveva assaporato l’idea di perdere tutto, persino il dolore, che in fondo la rendeva se stessa, al contrario del nulla assoluto, si era scoperta disposta a sopportare qualsiasi tortura pur di vivere.
Perché lui aveva deciso di trascinarla con sé nell’oblio per negarle la sofferenza, e per reazione Harriet si era aggrappata a questa stessa sofferenza con tutta se stessa, l’aveva ritenuta un bene prezioso quanto la gioia e la felicità. Alle volte era stata persino masochista.
Quindi sì, era pronta ad accettare la punizione di R, pur di cercare di rimanere viva.
E poi cosa si può inventare di tanto rivoltante e malato, a parte legarmi di nuovo ad una sedia o frustarmi? Forse mi incatenerà ad un congegno meccanico in stile B moovies con lame incrociate e vampate di fuoco. O magari darà prova della sua famosissima “galanteria” da gentiluomo e si accontenterà di una bella fustigata.
Malgrado tutto, riuscì a ridere sommessamente, e il pensiero del suo carceriere che la udiva e si crucciava nel non vederla in preda allo scoramento più totale accrebbe ancora di più quell’improvviso e insensato buonumore. Si lavò i denti con accuratezza, sputando saliva mista a dentifricio sulla lastra in segno di spregio, e indossò i jeans e il pullover rosso, che si tendeva un po’ troppo sul suo seno abbondante. Chissà dove R aveva rimediato quegli indumenti. Chissà se era davvero lui l’assassino di Hugo Lawrence, del suo terzogenito e di Jonas. Chissà perché si ostinava a vivere nelle tenebre.
Domande che in ogni caso non avrebbero mai trovato risposta, giacché se fosse riuscita a fuggire, sarebbe andata il più lontano possibile da Lawrence Borg e dalle nefandezze celate al suo interno, sotto agli stucchi, alle colonne e al fasto. Magari avrebbe potuto trovare rifugio presso Amy e lavorare a Londra come cameriera o bigliettaia, con un falso nome, finalmente libera. In ogni caso, avrebbe detto addio per sempre a Jesper, a sua madre e Christine. Probabilmente, passato un po’ di tempo, avrebbe fatto sapere ad Hannah ed Erin dov’era e avrebbe ripreso i contatti con loro, ma sarebbero state le uniche. Se avesse potuto le avrebbe portate via con sé, tuttavia era infattibile, e rischiava un’accusa di sequestro da parte della madre della bimba, sempre che le fosse importato della sorte della figlia.  
Ma ora era il caso di concentrarsi sul presente, e di organizzarsi il futuro dopo, quando, e soprattutto se il suo tentativo di fuga avesse avuto successo. Programmare qualcosa che forse non sarebbe mai esistito era inutile, lì, nella tana del lupo.
Aveva bisogno di un’arma, ma non necessariamente di una lama o una pallottola, semplicemente di un oggetto che, in buone mani, sarebbe potuto divenire tale. Ambire ad uccidere il suo carceriere era un piano troppo ottimistico e irrealizzabile, quindi non valeva nemmeno la pena di provarci. Ci sarebbe stato tutto il tempo dopo di denunciarlo, quando avrebbe compreso dove diavolo l’aveva portata, e quanto lontano quella specie di sotterraneo era da Lawrence Borg. Qualcosa le diceva che non si erano allontanati troppo dal maniero: dopotutto, R aveva bisogno di mantenere i contatti con Jesper. Quello che poteva fare al momento era colpirlo in modo tale da renderlo temporaneamente distratto o, nella più rosea delle ipotesi, inoffensivo, per avere la possibilità di arraffare la candela e lanciarsi fuori dalla stanza in cui l’aveva confinata. A quel punto sarebbe stata impacciata dal buio, dal luogo sconosciuto e dalla paura, mentre lui sarebbe stato nel proprio territorio, ma non le venivano in mente altre soluzioni, e spesso bisogna arrangiarsi con quel che si può. In ogni caso, tentar non nuoce, giusto?
Giusto.
L’asciugamano…l’unico uso che poteva farne era gettarlo addosso al suo rapitore come aveva fatto Don Abbondio con Lucia ne “I promessi sposi”, ma una mossa simile avrebbe sortito un effetto troppo breve, e lui si sarebbe liberato del pezzo di stoffa in men che non si dica. E poi era troppo difficile portarlo fuori dalla latrina senza che se ne accorgesse. No, una strada da non prendere assolutamente. La candela sarebbe stata perfetta per scatenare un incendio o addirittura dar fuoco al bastardo, ma era stato chiarissimo al riguardo, mai spostarla da lì, e avrebbe notato immediatamente che l’aveva presa. A malincuore, doveva escludere anche quella. La saponetta era troppo poco dura per stordirlo se gliela avesse fracassata in testa, si sarebbe soltanto infuriato…e fatto una doccia fuori programma. Ridacchiò in maniera, c’è da ammetterlo, lievemente isterica. Il pitale, che non aveva ancora utilizzato visto che era almeno un giorno che non mangiava né beveva niente, sì che lo avrebbe spedito nel mondo dei sogni, ma era ingombrante, altra cosa che avrebbe subito notato.
Si rigirò tra le mani lo spazzolino da denti con le setole umide di dentifricio e passò il polpastrello sul manico liscio e sottile. Era un oggettino insignificante e, all’apparenza, pressoché inoffensivo. Ma era piccolo, fatto apposta per passare inosservato, e avrebbe potuto perforare senza problemi un bulbo oculare, se lo avesse conficcato nel modo giusto…oh, sì. A quel punto il mostro sarebbe stato in preda ad un dolore atroce che sarebbe durato parecchio, e lei avrebbe avuto tutto il tempo di darsela a gambe. Il difficile era uscire dalla latrina senza che lui si avvedesse della sua…
Un bussare sordo interruppe bruscamente le sue macchinazioni e da dietro la porta giunse la voce imperiosa del suo carceriere: “La mezz’ora che ti ho concesso è terminata, ragazza. Esci”.
Harriet sussultò involontariamente e si volse di scatto a fissare l’uscio, serrando la presa sul manico dello spazzolino. Aveva perso del tutto il senso del tempo e non si era accorta di quanto ne fosse passato. Doveva trovare il modo di portare con sé l’oggetto senza dare nell’occhio, e subito, altrimenti tutto quel pensare non sarebbe servito a nulla.
“Allora?!” spazientito, R bussò ancora una volta, ma più che dei leggeri colpetti le sue furono delle vere e proprie botte, con cui squassò rumorosamente il legno: “Sei tanto stolta da mettere ancora più a dura prova la mia pazienza? Perché restare barricata lì dentro non ti salverà. Non è una porta chiusa a tenere lontani i mostri. E i mostri la possono sfondare, se vogliono”.
La ragazza rabbrividì a quella poco velata minaccia. Non doveva farsi prendere dall’ansia, non doveva essere precipitosa. Se la sua voce avesse tremato anche solo un po’, lui se ne sarebbe reso conto. Nervi saldi e sangue freddo, ecco cosa le occorreva. Non era mai stata impulsiva, e non lo sarebbe diventata proprio adesso. Prese un bel respiro, combattendo contro la bestia inquieta che le si agitava nello stomaco gridando sciagura, e si costrinse ad adottare un tono mortificato e docile: “Arrivo subito, io…devo soltanto vestirmi”.
Il risultato non le piacque affatto. Le era uscito una specie di piagnucolio.
La voce del suo carceriere sopraggiunse in un sibilo acrimonioso: “Sono molto stanco di star dietro alle vostre sciocchezze. Molto, molto stanco. Se devi vestirti, fallo, subito. Perché se metterai a dura prova la mia pazienza…mi stai ascoltando?! Se metterai a dura prova la mia pazienza, te ne farò pentire come solo un mostro sa fare. Hai capito bene?”
Ad Harriet battevano i denti, ma deglutì tutta la sua tensione e rispose: “Sì, faccio in un attimo”.
Da dietro l’uscio riecheggiò un grugnito formidabile e profondo che le fece accapponare la pelle.
In fretta, in fretta…
Con le mani che le tremavano, si strappò diversi capelli bagnati, sopportando a denti stretti le brevi e acute fitte che la cute mandava ogni volta che la defraudava della sua “pelliccia”. Era fastidioso, ma tollerabile, molto più tollerabile dell’essere prigioniera di quel pazzo. Quando ne ebbe presi a sufficienza, li unì a formare una ciocca e la lisciò, ringraziando di aver fatto il bagno: se fossero stati ancora ricci, il suo piano sarebbe fallito in partenza. L’acqua li aveva allisciati. Abbassò la cerniera dei jeans e li calò di qualche centimetro, imponendosi meticolosità, ma quando provò a legarsi la fune improvvisata attorno alla coscia, si accorse con orrore che era troppo corta. Le sfuggì un gemito strozzato.
“Che cosa stai facendo lì dentro?” berciò il suo carceriere.
Si morse il labbro fino ad avvertire il sapore del sangue: “E-esco subito, solo un momento!”
“Due minuti, ragazza. Due minuti e sarò da te”.
Oddio oddio oddio…
La foga e il terrore minacciavano di sopraffarla, la fretta rendeva inconsulti i suoi movimenti, e fu con rabbia che si strappò altri capelli, con violenza, incurante del dolore, incurante di ogni cosa a parte la porta che al momento era chiusa e sicura, ma che a breve avrebbe lasciato entrare il suo peggiore incubo. E se fosse successo…
Sbrigati, cazzo, sbrigati!
Fece un nodo all’estremità della prima cordicella di capelli e la legò insieme alla seconda, pregando che fosse abbastanza. Per miracolo o bontà divina, stavolta le circondò la coscia senza difficoltà e lasciò andare il fiato, annodandola con precisione. Afferrò lo spazzolino dalla lastra di compensato e lo agganciò alla fune, provando qualche passo per vedere se teneva.
Teneva.
“I due minuti sono quasi passati, ragazza!”
In preda ad una cieca frenesia, si rialzò i jeans e lasciò la patta aperta, coprendola con il pullover che, per fortuna, era lungo abbastanza. Aveva avuto l’accortezza di sistemare lo spazzolino sull’interno coscia, per cui non vi era alcun rigonfiamento sospetto. Malauguratamente le sue mutandine erano troppo sottili per contenere l’oggetto, dunque, per evitare che R vedesse che lo aveva preso, aveva dovuto ricorrere all’escamotage dei capelli. Non era da escludersi che lui si accorgesse ugualmente di ciò che aveva fatto, sembrava non sfuggirgli nulla, ma se nella vita non si rischiava…
Udì il rumore terribile di una chiave che girava nella serratura e si lanciò in avanti come una disperata: “Ho fatto, ho fatto!”
Non ebbe il tempo di registrare neanche un particolare della figura del suo carceriere, tanto egli si mosse in fretta: in un paio di secondi o poco più, spalancò l’uscio, l’afferrò per un braccio, strappandole un sobbalzo e tirandola fuori dalla latrina, e lo richiuse bruscamente sulla stanzetta illuminata, facendola ripiombare nelle tenebre che le parvero ancora più dense e soffocanti, dopo che le aveva abbandonate per mezz’ora. Sbatté le palpebre, cercando di abituarsi al buio e di mettere a fuoco i contorni della sagoma che incombeva su di lei, e lui le ordinò, gelido: “Alza le braccia!”
Non era il caso di contrariarlo, non ancora, per cui ubbidì, sentendosi terribilmente esposta con il petto scoperto e il pullover che si rialzava di qualche centimetro a causa del movimento, senza, grazie al cielo, rivelare la cerniera aperta. La frugò, controllando nelle tasche, tra i capelli, dietro il collo, ed Harriet si costrinse a farsi rigida sotto il suo tocco impersonale e disgustoso e a sopportare quella perquisizione, con il cuore che le batteva così forte e così violentemente che temeva lui ne potesse sentire le pulsazioni accelerate dalla paura. Era il cosiddetto “momento della verità”. Se la scopriva, doveva scoprirla adesso. Sarebbe stato così abietto da spogliarla e allargarle le gambe per dare una bella occhiata al suo interno coscia, o quel ridicolo “so comportarmi da gentiluomo” stava a significare che non si sarebbe spinto a tanto? Non confidava affatto nel suo onore e nella sua moralità, a malapena sopportava di essere toccata da lui come un oggetto, ma forse, chissà…
“Non ho preso niente” farfugliò, detestandosi per il suo tono spaventato.
Le rispose un sogghigno sarcastico: “Questo lascialo decidere a me. Cosa credi, che io non vi conosca? Siete infide, bugiarde, tutte quante. E non commetterò di nuovo l’errore di fidarmi di voi”.
Di nuovo? Aveva forse già rapito una ragazza in passato? E aveva a che fare con il misterioso “Stephan” che aveva nominato mezz’ora prima?
“Sei pallida…” soggiunse, meditabondo: “E tremi…”
Harriet venne percorsa da un lungo brivido. Maledizione al suo corpo che non riusciva mai a starsene al suo posto! E maledizione a lui che vedeva così bene al buio! Lo guardò a sua volta, curiosa, suo malgrado, di scoprire che aspetto avesse l’individuo che le aveva tolto la libertà, ma l’oscurità era troppo fitta, e per giunta sospettava, a giudicare da quel poco che riusciva a scorgere, che portasse un cappuccio, perché tutto quello che distingueva erano quegli inquietanti occhi chiarissimi che sprigionavano una fioca e malsana luminosità. Sembravano gli occhi di un felino.
Si affrettò a distogliere lo sguardo e ribatté, piano: “È tanto difficile intuire perché sono pallida e tremo?”
“No” fu la risposta sibillina: “Ma ti sanguina il cuoio capelluto”.
Trasalì e portò una mano di scatto a tastare il capo. Percepì qualcosa di viscido e bagnato.
“Io…” ansimò, con il cuore in tumulto e la coscia che pareva ardere nel punto in cui aveva legato lo spazzolino: “Sono…caduta. Ho battuto la testa”.
Lui si produsse in una risatina agghiacciante: “Quanto sei brava a mentire, signora Jesper. Quasi più brava di una certa persona di mia conoscenza”.
Harriet arretrò di qualche passo e incontrò con la schiena la superficie solida e inamovibile della porta che conduceva alla latrina, chiedendosi follemente quanto dovesse apparire pallida e atterrita in quel momento, la bambina colta con le mani nella marmellata, il topolino chiuso in trappola: “Non sto mentendo” disse in un soffio, la voce che rispecchiava quella del condannato a morte quando risuona il famigerato “Dead man walking!”
“Ma davvero?” la canzonò R. La raggiunse, tagliandole ogni via di fuga, e abbatté le mani ai lati della sua testa, facendole rimbombare lugubremente sulla pietra, negandole qualsiasi possibilità di scampo. Avrebbe voluto essere inconsistente come un fantasma per trapassare l’uscio alle sue spalle e sfuggirgli, per non avvertire tanto fortemente la sua presenza fisica che la chiudeva in un angolo e la sopraffaceva, ma era un desiderio impossibile. Una goccia di sudore gelido tracciò il contorno della sua spina dorsale. Era consapevole in modo quasi doloroso dello spazzolino. D’impulso, avvicinò le dita ai jeans.
Gli occhi cerulei erano vicinissimi, due fari nelle tenebre. Il loro possessore le sfiorò una ciocca di capelli, portandogliela dietro l’orecchio, e le sussurrò sulla pelle: “Hai paura di me?”
Harriet ricambiò lo sguardo, serrando forte le labbra: “No”.
La mano che le toccava i capelli si arrestò: “No?”
“No” ribadì, e si accorse di essere sincera. In quel preciso istante, non aveva paura di lui. Proprio come non aveva avuto paura di suo padre, quando aveva accettato che le avrebbe fatto del male, che non si sarebbe fermato. Perché a quel punto scattava l’istinto di sopravvivenza, e nient’altro contava più. Era lei o lui. E non c’era tempo per provare terrore. Si sentiva vuota, immensamente lontana da ciò che le stava capitando, come se assistesse alla scena da spettatrice, e facesse il tifo per la ragazza senza, però, temere davvero per la sua sorte.
Le parve, ma forse era solo una sua impressione, che il suo carceriere fosse rimasto stupito dalla sua affermazione, a giudicare dall’improvvisa immobilità, e capì che il momento era quello, e che se non avesse agito adesso, avrebbe perso per sempre la sua occasione.
“Non ho paura di te” ripeté, infilando una mano nei jeans e districando con un colpo secco lo spazzolino dalla corda di capelli.
Poi glielo piantò dritto in uno dei globi luccicanti che aveva per occhi.
 
Il condominio aveva un’aria sudicia e decadente. I muri erano rovinati da una quantità spropositata di graffiti che disegnavano sul cemento scolorito frasi oscene e simboli vari, al soffitto mancavano parecchie tegole e le finestre, a poca distanza l’una dall’altra, davano su appartamenti minuscoli e malridotti. Al primo piano due ragazze adolescenti ballavano, dimenando i corpi seminudi e ancora acerbi in una goffa imitazione di sensualità, due vecchietti guardavano la televisione con un’espressione vuota e più da cadavere che da vivente, un omone pelato e tatuato sfogliava la sua copia di Playboy e un uomo e una donna, forse sposati, forse fidanzati, forse soltanto attratti l’uno dall’altra, facevano sesso. Non c’erano tende a nasconderli, le loro occupazioni erano perfettamente visibili a chi si fosse preso la briga di soffermarsi ad osservarli. Ma sinceramente nessuno con una vita degna di essere vissuta l’avrebbe sprecata in quel sudicio vicolo invaso dai rifiuti e dai gatti randagi, pervaso da quel tanfo particolare che Christine chiamava “puzza di miseria”, a spiare gli scarti dell’umanità che cercavano di ammazzare la noia e la depressione.
Nessuno, tranne lei.
Odiava fare ritorno al luogo in cui era nata e vissuta finché quell’inetto di Jonas le aveva fatto la grazia di trapiantarla dalla stalla alla stella, eppure non poteva farne a meno. In qualche modo aveva un legame, con quel purgatorio, legame che non era stato spezzato dal suo matrimonio, e sentiva il bisogno, soprattutto adesso che le cose si erano fatte tanto difficili, di sguazzare nella merda che l’aveva partorita, di ricordare a se stessa di essere migliore di Jesper e di quelli come lui, la cui fortuna era piovuta dal cielo, di essersela guadagnata con le unghie e con i denti, soffrendo, vendendosi, umiliandosi, strappandosi a forza a quella topaia gretta e maleodorante per “ascendere” al favolesco maniero che incombeva sopra alle misere casupole del paese, sovrastandolo dal promontorio a picco sul mare dove era stato edificato, forse proprio per ricordare ai comuni mortali quanta differenza ci fosse tra loro e i Lawrence. I Lawrence.
Meritate di essere schiacciati, distrutti tutti quanti!
C’era un abisso, tra quei condominii e il castello, e lei l’aveva oltrepassato. Se ne rendeva conto più che mai proprio in quei momenti, quando contemplava, accanto ad una fila sbilenca di cassonetti e avanzi di cibo cinese, i suoi “simili” che si crogiolavano nel loro marciume, scopando, masturbandosi, guardando quei programmi televisivi falsi e patinati o ascoltando la musica a tutto volume per non pensare, o accorgersi di quanto in basso si trovassero nella catena alimentare. Erano insetti, luridi scarafaggi che strisciavano frenetici in cerca di una via di fuga, e i Lawrence i giustizieri armati di DDT che potevano decidere chi far vivere e chi no.
Sua madre l’avevano eliminata senza la minima pietà. Era morta di overdose, certo, ma la droga era solo una conseguenza, il colpo di grazia glielo avevano vibrato loro. Un tempo, prima che lei nascesse, non era stata il miserabile rottame con cui Christine era vissuta fino ai tredici anni e a cui aveva retto la testa un’infinità di volte mentre si vomitava anche l’anima, accompagnandola sul divano e pulendo tutto. Un tempo era stata una ragazza vivace e bellissima, non quanto lei, che aveva ereditato il diabolico fascino di quei bastardi oltre alla naturale bellezza materna, ma abbastanza da far girare la testa a chiunque posasse gli occhi su di lei. Non c’era fiamma che ardesse quanto i suoi meravigliosi capelli, né ambra che scintillasse come i suoi occhi color miele.
Ma la bellezza è un’arma a doppio taglio, una rosa irta di spine nascoste, e aveva finito per essere la sua rovina. Un uomo avido, corrotto e affascinante aveva notato quello splendido fiore e aveva deciso di coglierlo, e sua madre, come ogni ragazza povera e di belle speranze, lo aveva riversato di tutti i suoi sogni e le sue aspettative, aveva visto in lui il fottuto Principe Azzurro sul cavallo bianco che l’avrebbe portata via dalla miseria, nel suo palazzo, come Richard Gere con Julia Roberts in quel polpettone fasullo, “Pretty woman”, e aveva subito aperto le gambe per lui. Christine non era mai riuscita a capire perché le fanciulle fossero così idiote e illuse, perché cazzo non si rendessero conto di una dinamica ormai divenuta un cliché.
Dopo essere stata deflorata e scopata ancora, e ancora, e ancora, dal bellissimo Principe Azzurro biondo con la fede nuziale al dito, che saliva da lei per una sveltina e spariva come uno spettro, per poi ricomparire dopo giorni, e a volte addirittura settimane, la ragazza piena di  fragili illusioni aveva finalmente cominciato a mettere in moto il cervello e gli aveva chiesto con più insistenza di lasciare la moglie, cosa che lui le aveva promesso spesso con tono distratto, accompagnando simili giuramenti a qualche “ti amo” che al principio l’aveva rabbonita, ma che ora non le bastava più. Il Principe Azzurro, a quel punto, anziché prendere tra le braccia la sua Cenerentola vestita di stracci e calarla sul nobile destriero in attesa fuori dalla finestra rotta del condominio fatiscente, si era rivestito dei suoi capi pregiati, era salito in sella e si era dileguato al galoppo in fretta e furia, lasciando la fanciulla sola e incinta e consapevole di averlo preso in quel posto.
Le aveva dato un nome fasullo, ma lei aveva capito chi era veramente, e il bello era che a quel punto non aveva neanche pensato di metterlo nei guai, di vendicarsi in qualche maniera! No, la povera, sedotta e abbandonata Liv Andersson aveva solo e solamente incolpato se stessa dell’accaduto, perché non era stata abbastanza bella, fascinosa e ubbidiente da indurre il Principe a scegliere lei anziché la moglie. Aveva pianto lacrime per il suo amato scomparso e aveva tenuto il bambino, una ben magra consolazione, abbandonandosi a piaceri più miserevoli di quelli che lui le aveva donato carezzandola e avvolgendola con le sue braccia scolpite: alcol ed eroina.
Christine non le aveva mai perdonato quell’arrendevolezza, quella mesta rassegnazione, quel disfacimento a cui era andata incontro per un uomo che l’aveva usata e gettata via, e di cui le parlava in toni estatici, ignara dell’odio che la figlia aveva lentamente coltivato per lui e per la sua famiglia, dell’acrimonia che era cresciuta in lei, una bastarda (forse nemmeno l’unica!) dimenticata e archiviata come un cattivo ricordo. Aveva assistito come una schiava fedele e sottomessa la carcassa in cui si era tramutata la bellissima fanciulla dai capelli di fiamma, lavorando al posto suo, accogliendo quelle merde degli uomini del quartiere in casa per farsi sbattere fin dagli undici anni e guadagnarci qualcosa, sotto i suoi occhi allucinati e strafatti che non parevano nemmeno rendersi conto di quel che succedeva, aveva reso la propria avvenenza il mezzo con cui sopravvivere, l’unico dono concessole dal padre desaparecido. Quando poi Liv era morta di overdose, aveva giurato a se stessa, durante il misero funerale, che l’avrebbe vendicata, che avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di infliggere atroci sofferenze ed eterne torture alla genia che le aveva entrambe rovinate. Non si sarebbe accontentata di ucciderli, no, si sarebbe infiltrata tra di loro come una serpe, sondando il territorio, e li avrebbe dannati per sempre.
Dal primo all’ultimo. Nessun Lawrence, neanche il più ignorato, si sarebbe salvato. Non avrebbe avuto pietà, così come non l’aveva avuta Hugo Lawrence quando era svanito all’orizzonte, nel suo mondo perfetto. Non aveva parlato a nessuno della sua relazione adulterina con Liv Andersson, una delle tante che gli avevano scaldato il letto, dunque nessuno dei figli era a conoscenza di avere una sorellastra.
Aveva sedotto Jonas con ridicola facilità. Si era alleata con Jesper e ci aveva fatto sesso senza che lui sospettasse mai nulla. Ma alla fine avrebbero capito. Nella loro suprema boria, si sarebbero resi conto di aver fatto male i calcoli. Grazie al piano di Jesper, divenuto suo a tutti gli effetti, avrebbe potuto ritorcergli contro la sua stessa strategia e dare pace a se stessa e a sua madre.
Perché nessuno più di Liv meritava di avere salva l’anima.
“Scusi, signora, ha mica qualche spicciolo?”
Christine si volse, strappandosi a pensieri che si concedeva solo lì, dove tutto era cominciato. Un vecchio senzatetto con addosso una giacca composta da pezze di stoffa spaiate cucite insieme e guanti senza dita, la pelle vistosamente coperta di chiazze brune, rughe e cicatrici e il mento punteggiato di radi peletti bianchi, le si era accostato zoppicando, facendosi strada tra i rifiuti, e la guardava speranzoso, passandosi la lingua gonfia sui pochi denti rimasti.
Una terribile sensazione di deja vu la assalì.
“Ehi, Chris, me lo fai un pompino?”
“Ehi, Sven, te ne vai affanculo?”
“Che c’è, fai la preziosa?”
“Solo con chi non ha abbastanza soldi, Sven. E, tanto per mettere le cose in chiaro, non ho monete da darti”.
“E dai, neppure per una birra?”
“Neanche per idea”.
“Andrai all’inferno, Chris”.
“Allora ci vediamo lì”.
Era ridotto peggio di quanto ricordasse. All’epoca aveva una barba degna di questo nome e almeno quattro denti in più, e di quello sfogo violaceo sulla tempia non c’era traccia. Puzzava da far paura, un puzzo che in passato non le aveva mai dato alcun fastidio e che invece ora avvertiva con violenza, tanto da arretrare di diversi passi. Si strinse nella sua costosa pelliccia di visone, incassando la testa nelle spalle, e fu colta dall’improvvisa paura di essere riconosciuta, di dover fare i conti con quella parte della sua vita, quando era soltanto la sciacquetta Chris Andersson che la dava via a chiunque, la figlia della drogata, e non la signora Christine Lawrence, vedova del defunto Jonas Lawrence, suo marito e fratellastro.
Alla fine, un modo per acquisire il cognome che le spettava di diritto l’aveva trovato.
“Ce l’ha qualche spicciolo?” ripeté Sven, speranzoso: “Fa un freddo del diavolo, muoio dalla voglia di scaldarmi con una vodka”.
Christine fece una smorfia e aprì rabbiosamente la borsetta di marca con il cinturino d’oro, ansiosa di liberarsi di lui, di mandar via quello spettro indesiderato che pareva deciso a costringerla a ricordare. Mentre armeggiava con il suo fottuto portafoglio fatto a cartellina, con decine e decine di scomparti in cui teneva la carta di credito sua e del marito, le tessere dei vari club a cui si era iscritta con Jonas, il passaporto, la foto di sua madre, le banconote, Sven la scrutò attentamente, guardando sotto alla pelliccia, all’orologio con il cinturino di brillanti, al trucco impeccabile, e borbottò, cogitabondo: “Mica l’ho già vista da qualche parte, signora?”
La donna strinse le labbra e gli porse con gesto brusco una manciata di spiccioli: “No, credo proprio di no”.
Il vecchio si affrettò ad intascare il denaro, ma non smise di puntarle addosso quei suoi occhiacci rapaci: “Giurerei che è identica a…”
“Si sbaglia” lo ghiacciò Christine, freddandolo con un’occhiata al vetriolo delle sue, quelle che avevano sempre ammutolito quel coniglio di Jonas, rattrappendolo nella sua modesta persona. Sven levò le mani magre e chiazzate in segno di resa, ridacchiando: “Okay, okay, mi scusi. Le consiglio di tornare dalle sue parti, non è posto per una signora perbene come lei, gira brutta gente”.
Un velo di amarezza si dipinse sul viso algido e imperturbabile di Christine, mentre gli occhi blu si sollevavano a fissare l’appartamento in cui l’uomo e la donna, finito di fare sesso, si erano messi a litigare furiosamente, quello in cui erano vissute lei e sua madre: “Già…”
Forse poteva sembrare una signora, ma si sentiva ancora sporca sotto agli abiti pregiati, al trucco scintillante e ai gioielli. Solo il sangue dei Lawrence avrebbe lavato via la lordura. Voltò le spalle a quel vecchio fantasma del passato, i capelli rossi accuratamente raccolti sotto una coppola di pelliccia nera, il suo vero marchio distintivo, e raggiunse in fretta la Cadillac che la aspettava fuori dal vicolo, sul ciglio della strada. Oscar, l’autista personale dei Lawrence, si fumava una sigaretta appoggiato pigramente al cofano, ma appena la vide scattò quasi sull’attenti e la schiacciò sotto la suola della scarpa, aprendole la portiera: “P-prego, signora Lawrence”.
Christine sorrise, accomodandosi sui sedili di pelle dal profumo intenso. Jonas aveva sempre reputato quelle sue visite al quartiere malfamato del paese una bizzarria di cui non curarsi, un istinto nostalgico nella moglie.
E ora, grazie a Dio, marcisci in qualche terra straniera così come meriti.
Quasi era grata al mostro quartogenito del suo paparino per aver reso un favore al mondo levando dalla circolazione suo marito. Peccato che le avesse messo i bastoni tra le ruote, e che l’avrebbe ucciso per questo, insieme a tutti i parenti.
“Oscar” disse, imperiosa, togliendosi i guanti: “Riportami al maniero”.
“Subito, signora Lawrence”.
 
Un ratto grosso quanto un chihuahua, dall’ispido pelame nerastro e dagli scintillanti occhi rossi, passò correndo sopra al piede di Harriet e la ragazza non riuscì a trattenere un gridolino raccapricciato, indietreggiando scompostamente. La bestiaccia, con le zampette che ticchettavano appena sull’umido pavimento di pietra, si dileguò all’istante, lasciandola di nuovo sola.
Era già il terzo che si poneva sulla sua strada e ancora non aveva fatto l’abitudine alle apparizioni fulminee di quegli sporchi e rapidi abitatori delle tenebre. Si sfregò le braccia, ansimando, nel tentativo di limitare i violenti brividi che la squassavano fino al midollo, e sgranò gli occhi il più possibile nel buio denso, senza, tuttavia, riuscire a vedere oltre i lastroni bagnati su cui metteva i piedi. Udiva, in sottofondo, uno sgocciolio macabro ed esasperante, un plic plic plic che si rifrangeva dal soffitto alle pareti ricoperte di piante infestanti e chiazze di viscida materia verde, ma a parte il “verso” dell’umidità le sue orecchie non captavano altri rumori, e la consapevolezza che lui era, probabilmente, molto vicino, da qualche parte in quei sotterranei, dandole la caccia e covando propositi violenti nei suoi confronti, annientava brano a brano tutto il suo buonsenso, istillandole un panico acuto. Le sembrava che fosse ovunque, sopra, sotto e ai lati, quasi un tutt’uno con quel luogo sordido e marcio, e che tendesse artigli di ombra per ghermirla, che ad ogni angolo le sarebbe apparso davanti, punendola per ciò che gli aveva fatto.
Era andato tutto dannatamente storto.
Quando aveva approfittato del suo momento di debolezza per piantargli lo spazzolino nell’occhio, non aveva colpito con la solida intenzione di ferirlo e non era riuscita né a cavargli un bulbo, né tantomeno ad accecarlo, gli aveva soltanto causato un dolore che lo aveva indotto a crollare in ginocchio con le mani premute sul volto e la bocca spalancata in una voragine di denti e ferocia che vomitava ululati, maledizioni e grida. In preda al terrore, aveva evitato sia di vibrare un secondo colpo, sia di impadronirsi della candela e l’aveva scavalcato con un salto, muovendosi a tentoni nell’oscurità e trovando un’apertura nel muro grazie alla quale era uscita dalla sua cella, ritrovandosi, tuttavia, in un immenso, sconosciuto e tenebroso complesso di gallerie, tunnel e condotti in cui si era immersa totalmente a caso, mossa unicamente dal desiderio di allontanarsi il più possibile dal suo carceriere. I “Maledetta!” e i “Vipera!” che le aveva urlato con voce frantumata dalla furia omicida e dalla sofferenza le avevano messo le ali ai piedi e le erano penetrati nel corpo come un veleno letale, dandole un’idea piuttosto chiara di cosa avrebbe subìto, se fosse riuscito a riprenderla.
Correre però era difficile in quel posto, se non addirittura controproducente, ed era inciampata più volte sul suolo viscido e scivoloso, procurandosi lividi e graffi e imbrattandosi i vestiti puliti di chiazze verdi. Come se non bastasse, il buio le impediva di guardarsi attorno e procedeva con le mani tese dinnanzi a sé, a guisa di un sonnambulo, per evitare di cozzare contro i muri o di incontrare qualche oggetto, svoltando senza alcuna logica e sentendosi sempre più persa, spacciata e lontana dalla salvezza e dalla luce del sole. Aveva l’impressione di essere una pedina in un enorme percorso a ostacoli e di muovercisi a stento, mentre il suo rapitore rideva e la contemplava dall’alto come Jack in “Shining” con la riproduzione in miniatura del labirinto dell’Overlook Hotel, pronto a schiacciarla in qualsiasi momento. Se lo sentiva alle spalle, che la inseguiva sibilando tra i denti minacce e imprecazioni, ed aveva il terrore di essersi messa a girare in tondo e di finirgli a breve dritta in braccio. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a pentirsi di aver provato a scappare. Un essere umano non poteva resistere in quelle condizioni.
A giudicare dalle dimensioni e dall’aspetto del luogo in cui era stata condotta, poteva dedurre che si trattasse di un impianto fognario in disuso, o di una catacomba (ma non c’era traccia di loculi), o dei sotterranei di un qualche castello antico. Forse proprio Lawrence Borg? Sarebbe stato fantastico crederci, ma era improbabile. Troppo scoperto, a suo parere. E poi l’isola di Gotland era famosa per i suoi edifici austeri, gotici e datati, chissà quanti manieri sul genere erano disseminati nei dintorni. Ora come ora, l’ipotesi del sotterraneo era la più plausibile. Non ne era sicura, giacché a malapena riusciva a camminare senza finire col sedere per terra, ma, costeggiando il muro con una mano, aveva incontrato il legno di alcune porte, molte delle quali con una piccola apertura in basso, tipica per farci scivolare del cibo, ed aveva pensato immediatamente a delle celle, e poi a scheletri incatenati, a fantasmi che si trascinavano dietro cigolanti catene e a sale delle torture.
Ma queste ultime fantasie erano più dovute al panico che ad altro.
In ogni caso, non aveva tempo di farsi una cultura o di capire per bene in che genere di posto quel bastardo l’avesse trascinata, di sicuro non ci aveva messo molto a riprendersi dalla “spazzolinata” e si era lanciato subito al suo inseguimento, avvantaggiato dalla vista soprannaturale, dalla conoscenza del luogo e da un modo di muoversi più fluido e silenzioso. Se non si sbrigava a trovare una via d’uscita, qualunque via d’uscita, si sarebbe ritrovata da capo a dodici, e ancora peggio di prima. Ma intorno a lei non cambiava niente, niente, lo sgocciolio monocorde accompagnava i suoi passi goffi e rumorosi, il puzzo di putrefazione, umidità e muffa non accennava minimamente a diminuire, i topi strisciavano dappertutto come se volessero farle dispetto e il buio le si premeva addosso come una coperta soffocante, permettendole di distinguere solo i muri, il soffitto e il pavimento, tutti uguali, in qualsiasi corridoio o tunnel svoltasse. Cambiavano solo le dimensioni: alcune gallerie erano tanto larghe da proiettare un’eco infinita, altre così strette da darle un senso di soffocamento e costringerla, in certi casi, a procedere chinata.
La frustrazione e la foga aumentavano, le probabilità di fuggire no.
Maledizione, maledizione!!
Faceva troppo rumore, mentre il suo carceriere era troppo silenzioso. A causa della sua impossibilità di vedere bene, calava i piedi a terra con pesantezza, per ancorarsi al suolo e sentirsi meno sospesa e in pericolo, e sbandava spesso, tenendosi rasente ai muri per svoltare quando occorreva. Per di più aveva gridato quando quello stupido ratto le era passato sul piede e l’eco aveva propagato lo strillo alla perfezione, facendolo arrivare senza dubbio alle orecchie di R. C’era solo da sperare che quella specie di labirinto sotterraneo fosse così intricato e ampio da confondere le sue tracce e rendergli arduo il compito di acciuffarla. Poi l’occhio doveva dolergli…non gliel’aveva cavato, d’accordo, ma per sanguinare aveva sanguinato…quindi aveva senz’altro reso la sua vista meno acuta!
Si fermò un attimo a riprendere fiato, ansando, con i capelli ancora umidi per il bagno che le si appiccicavano al volto madido. Intorno a lei, le tenebre, ma intuiva di avere il soffitto ben alto sopra la testa e il plic plic si era fatto più insistente, così come il fetore di vomito e decomposizione. Che cazzo aveva fatto per meritarsi questo? Bisognava arrendersi all’evidenza, non sarebbe mai riuscita ad uscire di lì senza che qualcuno le indicasse la strada, e aveva la sensazione che gridare aiuto avrebbe solo rivelato la sua posizione al mostro, senza attirare l’attenzione di possibili salvatori. Era finita dritta nel Tartaro, tra i topi e il marciume, e il resto dell’umanità incombeva sopra di lei, in quel mondo di luce, gioia e agio da cui R l’aveva brutalmente strappata. A ben pensarci, quei sotterranei rispecchiavano appieno la personalità del suo carceriere: putridi, corrotti e venefici come lui. A furia di costeggiare le pareti con la mano e di sbatterci contro, si era imbrattata tutta quanta della mucillaggine verdastra e i piedi nudi erano in condizioni pietose, sporchi, melmosi e graffiati. Il secondo topo l’aveva anche morsa sulla caviglia.
Ci mancherebbero solo il colera o la rabbia…
“Ragazza…”
Trasalì, con il cuore che le si fermava in petto e risaliva fino alla gola. La voce pacata e raschiante, talmente atona da mettere spavento, era echeggiata lungo le gallerie e nei muri come un veleno ed era arrivata fluttuando fino a lei, agghiacciandole le vene. Non sembrava molto vicina, ma se lo era abbastanza perché lei la udisse, allora il suo carceriere aveva coperto gran parte della distanza che aveva guadagnato.
“Sto venendo a prenderti, ragazza…” proseguì in un sibilo smorto, ben peggiore della rabbia di poco prima, il suo aguzzino: “Non puoi nasconderti qui dentro…”
Terrorizzata ma stranamente lucida, Harriet non fece nulla di avventato o di stupido come mettersi a correre o cacciare un urlo. Si appiattì al muro più vicino, ogni muscolo teso e fremente, e serrò le labbra per trattenere i respiri rotti e ansimanti sputati dai suoi polmoni ricolmi di bile, strisciando in avanti con la massima cautela nella direzione che reputava opposta a quella da cui era risuonata la voce.
“Non puoi uscire di qui, ragazza. Non puoi tornare nel tuo angolo di paradiso. Sta tranquilla, non ti farò niente. Dopotutto, sono un ottimo padrone di casa…ti terrò solo buona e tranquilla così non SCAPPERETE PIÙ, MALEDETTE!”
Sul finire della frase egli stava ringhiando, con rabbia autentica ma con un timbro vocale curiosamente spezzato, ed Harriet prese a strisciare lungo il muro con maggior foga, combattendo il terrore e l’ansia che le si agitavano dentro. Avrebbe voluto essere piccola e invisibile come il ragno appiccicato alla sua destra, un essere ignorato e lieto nella sua pace tutto intento a tessere la propria tela. Invece era grossa, grossa e ingombrante, e pur muovendosi con cautela produceva rumori che risultavano assordanti alle sue stesse orecchie. Non osava pensare all’eventualità di venire presa, se lo avesse fatto, i suoi nervi avrebbero ceduto.
“SONO STANCO DEI VOSTRI GIOCHETTI!” ruggì il suo aguzzino da un punto pericolosamente prossimo a quello dov’era lei, rabbioso come un animale ferito, sperduto come un bambino pieno di risentimento con una voragine nel petto, voragine che aveva potuto riempire solo di odio, solitudine e sete di vendetta: “SONO STANCO DI VOI!”
La ragazza girò l’angolo e il terreno le sfuggì da sotto ai piedi.
Gridò, mulinando le braccia come eliche nel disperato tentativo di mantenere l’equilibrio, ma non riuscì ad indietreggiare e sprofondò nel dislivello che, a causa dell’oscurità, non aveva notato, immergendosi fino alle ginocchia in un orrido liquame verdastro, dai torbidi arabeschi blu, gialli e bianco sporco, che scorreva lungo tutto il condotto che aveva sfortunatamente scelto, lambendo due muretti, uno alla sua sinistra, e l’altro alla sua destra, quello da cui era caduta, con un lugubre e osceno sciabordio. Il puzzo che quella roba emanava era rivoltante, e la sensazione di viscido che le trasmise così intensa da provocarle un conato di vomito.
Cazzo, cazzo, cazzo…
Provò a risalire sulla terraferma, ad aggrapparsi ai bordi di pietra e a tirarsi su, ma erano troppo in alto per lei e le sue dita non facevano presa, si contraevano invano e scivolavano sulle pietre umide. Si spezzò un’unghia, gemendo, e una risata agghiacciante riecheggiò tutt’intorno come lo sparo di un cannone.
“Sei finita in acqua, piccola sirena senza coda?”
Boccheggiando in preda al panico e impossibilitata di risalire sul pavimento, Harriet strinse i denti e avanzò lungo la galleria invasa dall’orrido liquame, odiandolo per come aveva ridotto le sue gambe ad un ammasso malsicuro e terribilmente lento; le imprigionava in una morsa molle ma fortissima, incollandosi alla stoffa dei jeans come i tentacoli di Alien alla faccia di John Hurt, e faceva una fatica tremenda a muoverle per spostarsi, combatteva strenuamente per allontanarsi da un mostro che a breve l’avrebbe ghermita. Le sembrava la scena di un horror di serie B, l’ambientazione era perfetta, anche se non era bionda, non aveva due enormi seni palpitanti e non indossava un abitino succinto. Il pazzo insegue la ragazza in un inquietante sotterraneo ed ella è priva di scampo…a breve sarebbe dovuto emergere ruggendo Killer Croc o una piovra gigante come quella che aveva tentato di utilizzare Johnny Depp in Ed Wood di Burton.
La ragazza sarebbe morta per mano del mostro acquatico o del maniaco psicopatico?
La tua segreta passione per l’horror e per i fumetti di Batman non ti salverà.
Perché diavolo si metteva a pensare a certe cose in quella situazione?! Era assurdo, assurdo!!
Via via che avanzava lungo il tunnel che pareva dilatarsi all’infinito davanti e dietro di lei, forse una delle arterie principali del complesso sotterraneo, il livello dell’acqua putrida si alzava, arpionandole prima tutte le gambe, poi la vita, come l’abbraccio avvolgente e umidiccio di un maniaco sessuale. Eppure non poteva fermarsi, non poteva tornare indietro, giacché sentiva chiaramente che il suo carceriere era entrato in quel tunnel e la inseguiva dal muretto, i passi agili e leggeri che procedevano sicuri sulla pietra mentre lei annaspava e arrancava in quella maleodorante prigione liquida.
“Ti sei forse chiusa in trappola?”
Stavolta la voce raschiante era vicina, troppo vicina, ma Harriet si impose di non voltarsi. Se l’avesse visto alle sue spalle, proprio come Orfeo aveva visto Euridice, il risultato sarebbe stato identico a quello del mito: una totale disfatta. Se non lo guardava, invece, poteva illudersi di avere ancora tempo, di avere una speranza, poteva imporsi di staccare i piedi dal suolo e continuare ad avanzare, che per una volta sarebbe stata premiata.
Il liquame le arrivava ormai a metà busto, tutto il suo corpo era lambito dal suo tocco viscoso e molliccio, e l’odore era talmente insopportabile da farle rigurgitare un misto di saliva e succhi gastrici, l’esiguo contenuto del suo stomaco vuoto, e ancora non intravedeva la fine di quella galleria, la cessazione delle sue sofferenze, di quella fuga umiliante e disperata.
“Non puoi venirne a capo, ragazza” sibilò il suo aguzzino: “Arrenditi!”
Era proprio dietro di lei, ma Harriet non si girò: “FOTTITI!” ruggì, le ciocche di capelli che iniziavano ad imbrattarsi di marciume e a spargerlo sul suo collo: “CHE CAZZO TI HO FATTO, EH?! COSA VUOI DA ME?!”
I passi agili e silenziosi rallentarono leggermente. La giovane, invece, seguitò ad andare avanti, ormai nuotando più che camminando, i vestiti si erano tramutati in un peso immane che la rallentava, la impacciava, la trascinava sotto. Sollevò la testa il più possibile, respirando a pieni polmoni quell’aria puzzolente che però aria era, e che tra poco sarebbe scivolata via in un luogo inaccessibile, e si disse che non avrebbe mollato. Preferiva morire annegata anziché finire nuovamente nelle mani di quel folle. Se era destino che non ce la facesse, perlomeno si sarebbe scelta da sola la propria fine. Certo non si sarebbe arresa agli altri. Non più.
“Fermati!”
Si stupì perché l’ordine che R le aveva lanciato conteneva una nota di panico, forse di cui lui stesso era inconsapevole, uno spavento inconscio che non era riuscito a nascondere. Sapeva che temeva solo per i propri propositi circa Jesper, che se avesse perso il suo prezioso ostaggio, non avrebbe più ottenuto ciò che desiderava…
…ma certo deve avere in programma di uccidermi, dato che Jesper non ha nessuna intenzione di…
…eppure non resistette e, con il liquame all’altezza del naso, lo fissò, fissò per appena qualche secondo i suoi occhi azzurri che brillavano nelle tenebre, uno meno del solito, proprio alla sua destra, e gli occhi azzurri ricambiarono lo sguardo. Le loro iridi rimasero impigliate per un lungo istate, poi quelle verdi di Harriet scomparvero sotto il livello dell’acqua, e andò sotto.
Non era come immergersi nel mare, o in un fiume. Piuttosto assomigliava allo sprofondare lentamente in una massa appiccicosa e contaminante di catrame, in una sostanza che la infettava e prendeva possesso di ogni parte di lei, penetrandole all’interno con mille propaggini acuminate e violandola, torturandola, smembrandola. Sentiva la putredine serrarsi attorno a lei, abbarbicarsi ai suoi capelli che più che ondeggiare divenivano più pesanti, bloccarle i muscoli e impedirle di tornare indietro, dove si poteva respirare, o risalire in superficie. Era troppo densa, troppo torbida, e non riusciva a vedere più nulla, neanche dilatando gli occhi al massimo. Sebbene non lottasse per sopravvivere, non voleva inghiottire quel marciume, consentendogli di terminare l’opera, e serrava le labbra più che mai, si teneva stretta la propria purezza, ma forse l’aveva già persa da tempo, forse suo padre aveva ragione, e in quel mondo non aveva senso custodirla, e faceva fatica a pensare con chiarezza, a ricordare cosa stesse facendo, o dove fosse. Immagini confuse e prive di senso le lampeggiavano davanti alle pupille e le convulsioni le scuotevano i muscoli ormai sfuggiti al suo controllo.
Più che annegare, stava soffocando nella putredine.
Una fine iniqua, disgustosa, umiliante. Ma inevitabile.
O forse no?
Qualcosa di duro e di terribilmente forte la agguantò all’improvviso per i fianchi, senza delicatezza, senza nessuna traccia della cura che si sarebbe aspettata dalla Morte che veniva a prenderla, ed espulse dai suoi polmoni che bruciavano e dolevamo da impazzire quel poco ossigeno che le rimaneva, facendole bere una sorsata abbondante e venefica di quel liquame. Le invase la gola, amaro, infetto, repellente, e tutto si dissolse in una marea di puntini bianchi, mentre la Morte, o chissà chi, la trascinava via a forza, trasportando quel corpo impazzito che si dimenava convulsamente negli ultimi spasmi e che non sentiva più proprio.
Il bastardo potrebbe sempre rapire Erin, ne sarebbe capace… fu il suo ultimo e sparuto pensiero.
 
La pugnalavano al petto. Con vigore. Con sadismo. Non si interrompevano neanche un minuto, i colpi si susseguivano ad un ritmo vertiginoso, ed erano uno più tremendo dell’altro. Facevano un male d’inferno.
Mugolò, un suono disarticolato e folle.
“Respira!” ruggiva una voce remota e lontana, che le riusciva in qualche modo familiare, ma che le provocava una sensazione sgradevole. Chiunque fosse, era una cattiva persona. E il suo comando non ammetteva repliche, ma i polmoni bruciavano troppo, la gola ardeva come se fosse foderata di carta vetrata, e le tenebre la chiamavano, spingevano per soffocare quei confusi barlumi di coscienza. Fino a poco tempo prima le aveva temute, ma ora erano dolci, erano invitanti, erano belle.
Un’altra pugnalata devastante le schiacciò i polmoni, rigirandosi ben bene nei muscoli inerti, e loro vomitarono a zampilli una disgustosa sostanza viscida che le fece bruciare il palato ancora di più. Tossì, consapevole delle lacrime di dolore che si mischiavano all’acqua sul suo viso. Faceva…così male.
“Respira, maledizione!” tornò a ringhiare la cattiva persona, con voce rabbiosa, frenetica e, in qualche modo, spaventata. Harriet provò l’impulso di consolare la cattiva persona, di sorriderle e dirle che sarebbe andato tutto bene. Un impulso…davvero strano.
La cattiva persona non sembrava saper bene cosa fare, come destreggiarsi, per cui, mossa da quella bizzarra ondata di compassione, cercò di aiutarla, di liberarsi i polmoni, anche se era difficile, tanto difficile, e l’acqua che rigurgitavano non sembrava finire mai.
“Ecco, sì…respira!” ansimò la cattiva persona con rinnovato vigore, colpendola di nuovo al petto. Il getto di liquido che le fuoriuscì dalla bocca fu copioso, la fitta di dolore anche. Avrebbe voluto dirgli di far piano. Ma le tenebre premevano ancora ai margini della sua coscienza.
Non poteva accogliere il loro invito, però. Non prima di aver scacciato la putredine.
“Forza!” la incitò la cattiva persona, sollevandola e colpendole, questa volta, la schiena. Harriet si piegò in due, tremando in modo incontrollabile, e vomitò ancora. Ma la gola e il petto facevano troppo male. Voleva dormire. Però doveva far capire alla cattiva persona che sarebbe andato tutto bene…
Socchiuse le palpebre, serrandole per scacciare il buio e le macchie scure che chiazzavano il suo campo visivo, e scorse un volto a pochi centimetri dal suo, stravolto e ansimante.
Il mostro alla fine l’aveva trovata davvero, proprio come in un film.
O forse era solo un’allucinazione.
Si abbandonò tra le sue braccia e perse conoscenza.
 
Angolo autrice: Bene, bene…eccomi qui con questa roba di cui non sono per niente soddisfatta…una roba che, per comodità, chiameremo capitolo. Confesso che è stata una bella sfida, non è filato liscio come il precedente, ma gli eventi erano più…diciamo influenti, ed ecco il risultato. Raphael ha salvato Harriet dall’annegamento, perché gli serviva, certo, ma inconsciamente si è preso una bella strizza quando l’ha vista affondare…una strizza diversa da quella di chi perde un ostaggio…e vedremo poi cosa succederà tra questi due : ) spero di non aver deluso, ma del resto, per adesso Raphael è ancora un nemico per la giovane, e non è ancora tempo che la difenda e che difenda se stesso dagli altri…per cui l’ha salvata dai “sotterranei”, diciamo così :’)
Quanto a Christine, è la figlia bastarda di Tywin Lann Hugo Lawrence ed è decisa a vendicarsi della famiglia che ha ripudiato lei e sua madre…quando Niglia ha paragonato lei e Jesper a Cersei e Jaime di Trono di Spade aveva ragione sotto un punto di vista perché sono fratellastri! Ma in che consiste il loro piano? Perché gli serve Harriet? A proposito, secondo voi lascio raiting arancione o lo metto rosso per temi come l’incesto? Secondo me arancione basta, ma non voglio turbare nessuno : )
Nel prossimo chapter entreranno in scena Berg ed Erin e avremo un po’ di Harriet/Raphael (secondo voi come coppia come li si potrebbe abbreviare?) anche se in minor quantità. Ringrazio infinitamente Niglia, Homicidal Maniac e Beauty che con il loro sostegno, disponibilità e gentilezza illuminano le mie giornate <3      
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Questo è il FANTASTICO disegno che Homicidal Maniac ha fatto di Raphael  *_* quando l'ho visto sono andata in brodo di giuggiole!  Grazie ancora, carissima <3 per lunedì dovrebbe arrivare l'altro racconto su Bunny, scusa il mostruoso ritardo!
  
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