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Autore: GreenSea    09/07/2013    1 recensioni
Ci sono volte in cui la verità è ciò da cui non vorresti far altro che scappare, il cui sguardo è troppo difficile da incrociare. Ci sono volte in cui la fuga è l'unica soluzione. Lo ha scoperto Gabrielle, che fa la conoscenza della parte più nascosta di se stessa. Che, su un treno in direzione "il più lontano possibile" incontra il suo destino. E così facendo si getta spontaneamente tra le spire del serpente, in un mondo che le si presenta come la salvezza che fa rinascere le sue speranze e la sua stessa perdizione.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Libro I: L'Imperatore di Vetro

Capitolo 1 - La mia definizione di sfiga

 

 

Come dice Lupo Alberto, se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo. E quella che perseguita me, ve lo assicuro, ha una vista di falco. Dite che sono pessimista? Verissimo. Ma aspettate di sentire la mia storia per definirmi esagerata.

Mi chiamo Gabrielle, e ho diciassette anni. Del bastardo di mio padre non conservo alcun ricordo, poiché ha abbandonato me e la mamma quando ancora non ero nata; così abbiamo dovuto vedercela con i miei nonni, che non approvavano la presenza di papà - anzi, non accettavano proprio la sua esistenza - né la mia nascita, e hanno cacciato la loro stessa figlia di casa per paura del parere dei loro amici snob e ficcanaso. Non so come, ma siamo andate avanti, finché mia madre non è morta in un incidente d'auto quando ero piccola, lasciandomi sola con un terribile ricordo.

In men che non si dica mi sono ritrovata reclusa in uno squallido orfanotrofio di periferia, rilegata in un lettino minuscolo tra Samantha, che era solita attaccare caccole sotto il cuscino, e Marta, che aveva qualche problema con le bambole, visto il cimitero di teste di barbie sotto il letto. Già allora non

vedevo il momento in cui avrei lasciato quel posto.

Così è stata la mia vita per dieci, eterni anni.

 

Quando mi svegliai, la mattina da cui inizio a narrarvi, già avvertii che quello era un giorno che iniziava per S-N.

S-N di Sfiga Nera.

Forse fu il modo in cui Marta mi guardava - con quel sorrisetto sghembo che metteva in luce i denti ingialliti dal fumo -, forse il fatto che la Signorina Grace mi disse che non sarei andata a scuola, ma avevo già capito che qualcosa non quadrava.

Penso che sia d'obbligo darvi qualche informazione sulla Signorina Grace, a questo punto. Amelia Grace era una donna sulla cinquantina, che di aggraziato aveva solo il nome. Si presentava come una zitella dalle dimensioni mastodontiche, una di quelle persone che non vorresti mai contraddire per paura di finire spalmata al muro con una manata. Una matassa di capelli color carota e un paio occhietti maligni la caratterizzavano, dandole ancor di più l'aria di una gigantesca vichinga a cui hanno rubato l'elmo cornuto.

« Ehi, tu » mi salutò con un grugnito, « vedi di non svignartela. Alle undici ti voglio nel mio ufficio » e con questa affermazione, tremendamente simile ad una minaccia, si allontanò con il suo solito passo stile terremoto.

Rimasi ad ascoltare il rombo dei suoi piedi nel corridoio, chiedendomi allibita cosa mai avessi combinato, quando una voce nasale parlò dalle mie spalle.

« Novità in arrivo, Gab ».

Mi voltai con una smorfia di disgusto. « Che vuoi, Marta? »

Il suo ghigno si accentuò, e lei scostò i capelli dalla spalla in un gesto volutamente altezzoso, mettendo in mostra la generosa scollatura come si trattasse di una medaglia. « Ma come, Gabby? Ancora non ti hanno detto niente? »

Decisi di ignorare la domanda. Al momento mi interessava di più risponderle per le rime. « Perché invece non vai a lavarti quella fogna di bocca, Pescuccia Zuccherosa? » Quando si dice che il buongiorno si vede al mattino...

Il suo volto assunse una violenta sfumatura purpurea, mentre inspirava profondamente, preannunciando una crisi isterica coi fiocchi, ma proprio sul più bello la Signorina Clare sbucò letteralmente dal nulla e ci abbracciò con slancio.

Eccola, l'ennesima matta della gabbia. La Signorina Clare, alias Clary – come insisteva di farsi chiamare, sebbene nessuno la ascoltasse – era una giovane donna minuta, perennemente vestita di colori vivacissimi in abbinamenti come pugni in un occhio: quel giorno indossava una gonna giallo canarino con una maglietta verde a fiori viola, scarponcini rossi da pompiere e golfino blu. D'altronde quella era la sua idea di “allegria”, insieme alla mania di darci strani soprannomi – come “Pescuccia Zuccherosa”, appunto. I capelli biondi erano racchiusi in una crocchia scomposta per metà disfatta, mentre gli occhi, nascosti dietro lenti spesse come fondi di bottiglia, sembravano esageratamente grandi, donandole un'aria smarrita.

« Buoooongiorno! » esclamò con la sua vocetta squillante. « Su, su, non incomincerete già a bisticciare, tesorucci? » Ciò che ancora mi sorprende di lei è che, mentre ci parlava con quei toni melensi, non stesse facendo dell'ironia.

« Assolutamente, signorina Clare » risposi con uno smagliante sorriso, falso come le caramelle di plastica. « Marta ha solo detto che vorrebbe tanto portare fuori la spazzatura ». Naturalmente feci in modo che solo Marta mi sentisse quando aggiunsi: « Sa, tra simili ci si attrae... »

Così, mentre una furente Marta veniva trascinata verso il suo destino, io andai in bagno per prepararmi. Come di rituale, sospirai alla vista dei miei capelli nello specchio. Ormai mi ero abituata all'idea che avessero volontà propria, e decidessero spontaneamente se apparire lisci o ricci. E quel giorno, altro inequivocabile segno di S-N, avevano optato per un miscuglio di entrambi. Mi rassegnai a nasconderli sotto il solito cappello blu scuro, domandandomi cosa ancora mi sarebbe capitato in quella giornata nera.

 

Cazzo.

Corri, Gabrielle.

Corri o muori.

E io correvo come se avessi avuto l'Inferno alle calcagna.

 

Voltai l'angolo aggrappandomi al muro per aiutarmi e iniziai a scendere le scale perdifiato. Forza, altri due gradini! Li saltai in uno sfoggio di agilità che non credevo di possedere. Zigzagai tra i tavolini, le sedie e le varie cianfrusaglie sparse nel corridoio, rischiando di rompermi l'osso del collo su un pattino abbandonato; schivai la Signorina Clare e mi buttai di peso sulla porta subito dietro. Boccheggiando, entrai nella stanza e, per prima cosa, guardai nel panico l'orologio appeso al muro: 11:02. Ce l'avevo fatta.

E, considerando che fino a trenta secondi prima ero del tutto immersa nel mio universo di poetico rock e suprema estasi, non potei non sentirmi potente. Ma tutta la mia euforia era destinata a scomparire di lì a pochi minuti; in gran parte si dileguò alla vista della Vichinga – ehm, la Signorina Grace.

« Tu! »

« Presente, signora ». Ero tentata di battere i tacchi e farle un saluto da soldato, ma è meglio evitare di prendere in giro il Colosso.

« Sei in ritardo » osservò con un'occhiata omicida. Feci per blaterare delle scuse, ma mi interruppe con un gesto brusco. « Ho delle notizie per te » esordì. Era già la seconda volta che sentivo quella frase, ma questa volta ci credetti.

Come se non esistessi, la Grace continuò: « Ti ricordi di quella famiglia che ieri ha fatto visita al nostro orfanotrofio, no? ». Annuii. Come accadeva con ogni famiglia, avevo dato il meglio di me per apparire sgradevole, ribelle e maleducata sotto ogni frangente. E questa coppia era rimasta particolarmente sconvolta dal mio comportamento strafottente. Solo che non capivo cosa c'entrasse quella famiglia con me. Un'idea iniziò a farsi spazio nella mente, ma la respinsi ancor prima di poterla concepire in modo più concreto.

La mia regola era diventata “sopporta l'Inferno, e a diciotto anni sarai libera”, da quando compresi che essere scelti dalle famiglie era più unico che raro, specie quando sei una bambina di sei anni con tremendi incubi notturni, che strilla terrorizzata nel sonno e guarda le altre persone come se la volessero assalire. Quando poi superi i dieci anni, nessuno ti presta più attenzione. Quindi non mi restava che fare del mio meglio per dissuadere le famiglie dall'adottarmi, e ci riuscivo bene, concentrandomi invece sull'obbiettivo di lasciare l'orfanotrofio appena avuta la possibilità, e rincominciare la mia vita da capo, cancellando quella parte del mio passato per fingere che non sia mai accaduto.

Imparai solo in seguito che ogni scelta che facciamo durante la nostra vita si ripercuoterà inesorabilmente sul futuro, come monito, per ricordarci che il passato è sempre dietro di noi, in agguato, a seguirci passo passo. Commetti uno sbaglio, e te ne pentirai per tutta la vita.

Quella volta il mio sbaglio fu di essermi svegliata in un giorno di Sfiga Nera. E me ne pentii atrocemente.

E mentre la mia mente galoppava a briglie sciolte, la Vichinga proseguì: « Hanno detto che ti vogliono adottare ».

  
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