Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: AriiiC_    10/07/2013    1 recensioni
C'era una volta una ragazzina, di dodici anni. Viveva nel Distretto 9, e suo fratello era un vincitore. Si offrì volontaria agli Hunger Games. Non sapeva se sarebbe mai tornata, ma voleva salvare la sua migliore amica. Perchè considerava la vita altrui più importante della propria, anche se lo nascondeva troppo spesso.
Ma questo è solo un mito.
E ogni mito ha un inizio e una fine.
Nel caso di Lorelei, però, non è del tutto vero: nessuno potrà mai dimenticare la storia del "Piccolo Falco" del Distretto Nove; né di come quel mito, da semplice storia, divenne realtà.
-
Personaggio partecipante alla storia: "Gli animi forti si innalzano sopra la sorte" di Leddy.
Dalla mietitura:
"Dopotutto suo fratello Brick, che era stato uno dei tre vincitori, otto anni prima, le aveva insegnato un’infinità di trucchetti e strategie.
Prima o poi mi sarei offerta comunque, pensò in quell’istante.
– Ma abbiamo una giovane volontaria! Non è mai capitato da queste parti, giusto? – disse Dwille con un sorriso. – Come ti chiami?
– Lorelei Uk – rispose la ragazzina. Non era molto loquace. Al parlare preferiva osservare. Era un piccolo falco, Lorelei.
– Ti sei offerta per la tua amica?
Lei annuì, senza aggiungere altro."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 




 

  - Third act -

 Hawk's hopes.








 

 Il terzo "atto" della mia modesta storia va a Potta,
senza la quale, molto probabilmente, non esisterebbe nessun terzo atto.











 

  «Lorelei.»

 Sua madre, May Frank, la chiamò piano, con quella sua voce che faceva parere ogni parola, anche la più breve, una melodia. Lorelei per la prima volta notò una somiglianza che mai aveva visto in dodici anni di vita: il colore degli occhi di sua madre era identico all’azzurro austero di quelli di Brick. E anche dei suoi. Si sentì vicina a quella donna come ormai non lo era da tempo, da quando, quella sera dei suoi quattro anni, la mamma non aveva sentito le sue urla di dolore disperate. Le aveva ricucito le ferite, certo, ma fatto ciò si era limitata a guardare la figlia che cresceva da sola, senza di lei. Perché lei per prima si era esclusa dalla vita della bimba, e Lorelei aveva semplicemente accentuato questa loro separazione.

 Lorelei iniziò a fissare il grano.

 «May.» le rispose Lorelei, continuando a tenere gli occhi puntati fuori dalla finestra, senza neppure girarsi verso la donna. Erano ormai diversi anni che Lorelei non la chiamava più “mamma”: era vero, l’aveva partorita lei, ma, secondo Brick e – quindi – secondo Lorelei, una madre è colei che cresce una bambina dall’inizio alla fine. Cosa che, di sicuro, May non aveva mai fatto.

 «Cosa guardi?» le chiese la donna, avvicinandosi e posandole una mano sulla spalla.

 «Mi mancherà il grano.» rispose candidamente la dodicenne.

 «Così ti dai già per spacciata.»

 «Ti sbagli: mi mancherà il grano per come lo vedo adesso. Brick dice che, da quando ha vinto, vede le spighe rosse, proprio come il sangue. – si girò verso la donna, scoprendola più vicina di quanto non fosse in realtà. – Ti ricordi cosa dicevi a tutti, quando ero piccola? – non aspettò una risposta. – Dicevi che i miei capelli erano bellissimi, perché…»

 «Perché erano proprio dello stesso colore del grano, ispidi come le spighe mature ma lisci come i chicchi appena raccolti.» concluse May, come fosse la cosa più naturale del mondo.

 «Non sono stati poi buttati via, quei quattro anni.» sputò quasi Lorelei, alzando gli occhi verso quelli della madre in modo accusatorio.

 «Io non butto via niente, quando si parla di te.» May non trattenne un singhiozzo, portando la mano alla bocca nel vano tentativo di soffocarlo. Lorelei si sentì colpevole: una merda per come aveva accusato la madre, per come l’aveva mandata in pezzi senza considerare che la donna potesse stare male quanto lei.

 Allora, senza dire altro, Lorelei l’abbracciò. La strinse forte al proprio petto senza pensare a nient’altro che a loro.

 Fino a che la voce spigolosa di un pacificatore non risuonò da dietro le loro spalle; non poteva essere Aaron: lui non le avrebbe mai interrotte.

 May tirò su col naso, prima di mettersi in ginocchio e aggiustare il vestito della figlia.

 «Ce la fai, Lorelei: se vuoi, tu fai tutto. Ti sei allenata: ci rivedremo presto. – le lacrime ormai le inondavano il viso. – Ti voglio bene, piccina.»

 L’uomo strappò la donna dalla vista della bimba senza neppure immaginare cosa ciò avrebbe causato nell’animo di Lorelei: un buco nero si aprì, mentre una speranza si faceva largo in lei.

 Lorelei sperò con tutto il cuore che quel riavvicinamento non fosse solo temporaneo, non fosse solo perché quello era il momento del bisogno, non fosse solo un’estrema richiesta d’aiuto.

 Con gli occhi lucidi, Lorelei sussurrò al nulla: «Anche io te ne voglio tanto, mamma

 

-

 

Lorelei ebbe appena il tempo di sedersi nella lussuosa e morbidissima poltrona in velluto rosso che sei figure maschili presero posizione in riga davanti a lei.

 La bimba prese un secondo per studiare con attenzione i volti dei suoi fratelli: dal sorriso spento dei ventenni Vince e Sasha agli azzurri occhi tristi di Raphael, all’unica lacrima di Sean; dall’espressione distrutta di Luke a Tobias, che teneva gli occhi bassi senza riuscire a reggere lo sguardo della sorellina.

 Tutti e sette nella stessa stanza, come ogni sera quando May cucinava quel poco che c’era e lo faceva diventare una cena.

 Come ogni sera, mancava Brick.

 «Come ti senti?» fu Sean, diciassette anni, il primo a parlare, avvicinandosi alla sorellina e stringendola tra le proprie braccia come fosse l’ultima volta – e, in effetti, poteva esserlo davvero.

 «Sono a posto. – disse Lor, riferendosi al suo essere in pace con se stessa per ciò che aveva fatto. – Sono tutta intera.»

 La stanza tacque sentendo la determinazione di quella dodicenne che racchiudeva in sé tutto il coraggio di Stan. Stan, l’uomo che l’aveva lasciata da sola quando aveva deciso di picchiarla, perché Brick si stava facendo uccidere.

 «È vero: sei tutta intera. – disse il quattordicenne Tobias, il fratello più vicino a Lorelei in età. – Ma potresti cadere in pezzi.»

 Alzò gli occhi dalle tegole per la prima volta dopo ch’era entrato e mostrò a tutti due iridi chiare circondate da cornee arrossate, stanche, come di chi piangeva da tempo senza interruzioni. Tobias, notò Lorelei, aveva gli occhi azzurri, ma non come lei: l’azzurro di quegli occhi era un azzurro allegro, un azzurro tranquillo che trasmetteva calore.

 «Non rompere le palle, Tobi. – sbottò Luke, appena quindicenne, avvicinandosi alla poltrona della sorella e allontanando Sean, prima di sedersi e prenderla in braccio. – Sai com’è fatta: Lorelei riesce a fare tutto.»

 «Tranne la cacca.» saltò fuori Sasha, nonostante sapesse di essere fuori luogo.

 La bambina gli lanciò un’occhiata assassina.

 «Andiamo, Lori: lo sappiamo tutti che sei stitica.» intervenne Vince, dando manforte al gemello.

 Tutti scoppiarono in una fragorosa risata.

 I restanti minuti vennero trascorsi parlando come fosse davvero sera, come se la mietitura fosse passata e ci fosse un piatto d’orzo in tavola.

 Solo il Pacificatore che scandì il tempo fece notar loro che non era così: tutti uscirono dalla stanza, salutando e baciando Lorelei, convinti che la ragazzina sarebbe tornata.

 Solo Phael aspettò che tutti uscissero per stare solo con la dodicenne: era quello con cui, da sempre, Lorelei aveva il rapporto peggiore. Il preciso Phael, infatti, non approvava la voglia di gloria della sorellina, perciò cercava di evitarla per non doverla criticare.

 Ma, quella volta, Phael era rimasto. E Lor non se lo spiegava.

 «Cosa c’è?» chiese col suo tono più acido al fratello.

 «Non cambi proprio mai, eh?» le sputò in faccia il diciottenne.

 «Fino a che non cambi tu, non vedo perché dovrei cambiare io. Sei semp-»

 «Non sono qui per litigare. – Phael si inginocchiò per essere alto come la sorella. – Voglio solo darti un paio di consigli. Hai dodici anni: ai Capitolini piacciono i bambini. – il Pacificatore riaprì la porta notando che qualcuno era rimasto. – Cerca di apparire dolce, di apparire innocente, e loro ti ameranno. – l’uomo prese il ragazzo di forza, sollevando il gracile corpo del giovane Ukai da terra. – Torna: io so che ce la fai!»

 Detto ciò, la porta si chiuse alle loro spalle.

 Lorelei aveva intenzione di seguire quel consiglio: sperava di riuscire ad essere morbida, bambina come non era mai stata.

 Sperava davvero con tutto il cuore che il fratello avesse ragione.

 

-

 

 La terza visita fu la più inaspettata per la bambina: Kyle e Aaron entrarono nella stanza a lei designata anche se, era noto a tutti, i Pacificatori non potevano andare a salutare i tributi. Ma lui non era solo un Pacificatore qualunque: era Aaron, il migliore amico di May; l’uomo che le aveva fatto da padre quando un padre non l’aveva più.

 L’uomo brizzolato si chinò su Lorelei, gli occhi scuri inondati di lacrime. Da oltre la sua spalla, Lor scorse il figlio ventiduenne: aveva i capelli marroni più lunghi di quanto ricordasse. Eppure era sempre ricoperto da quel suo fascino, così particolare e unico al tempo stesso: come se niente potesse scalfirlo, come se il mondo fosse lontano da lui e non potesse fargli male.

 «Come ti senti?» chiese Aaron allontanandosi quanto bastava per guardarla in faccia. Lorelei cercò di non mostrarsi seccata, nonostante fosse la seconda volta che gli veniva posta quella domanda. Ma Aaron non lo sapeva.

 «Sto bene, davvero. – disse, poi aggiunse: – Tu capisci, vero? Non potevo lasciarla andare: come avrebbero fatto senza di lei?»

 Aaron chinò il capo, guardando il pavimento. Poi si alzò in piedi, voltandosi verso la porta, pensieroso.

 «Sì, sì: ti capisco… June è la terzogenita dei Morick, l’unica in grado di lavorare. – Lorelei sapeva bene a cosa alludesse: Kendra e Ariana Morick avevano una salute precaria come poche, e mandarle nei campi sarebbe stato come condannarle a morte. – La sola, insomma, che porta da mangiare ai dieci fratelli minori…»

 Gli occhi della giovane Ukai si inumidirono un momento ripensando ai dieci fratelli di June: nella sua mente era chiara l’immagine di quella pagnotta che aveva deciso di portare a casa Morick, un giorno. Era stata, forse, la miglior decisione della sua vita: si era presentata nella loro umile dimora con quel pezzo di pane ancora caldo e, appena l’avevano vista, tutti i piccoli Morick le erano corsi incontro, abbracciandole le gambe e ringraziandola. Erano tutto ciò che Lorelei definiva “famiglia”.

 «Non preoccuparti: – si intromise Kyle. – staranno bene. Passeremo loro qualcosa noi e non moriranno di fame.»

 Lorelei non riuscì a trattenere il pianto: era una ragazza forte, certo, ma arriva il momento in cui essere forte non serve.

 «Grazie.» sussurrò, avvicinandosi al ragazzo ed abbracciandolo stretto. Kyle ricambiò l’abbraccio, cogliendo l’occasione per sussurrarle all’orecchio parole che Aaron non avrebbe mai dovuto sentire: «Ti aiuteremo: io e Brick siamo d’accordo.»

 Lor, in un primo momento, si chiese come avessero fatto i due ad accordarsi. Domanda che le morì in bocca una volta che l’anziano si avvicinò di nuovo per parlarle: «Lorelei, non siamo troppo poveri: troveremo il modo di lasciare qualcosa a tuo fratello per mandarti un dono o due in arena. Ti ho visto con la falce: sei forte.»

 Stava per far notare ad Aaron che non aveva mai ucciso nessuno quando un Pacificatore entrò, facendo notare che il tempo era scaduto. Aaron le baciò la fronte prima di uscire, pronto a dare al collega spiegazioni sul perché e per come si trovasse lì. Kyle si chinò sulla bambina, abbracciandola di nuovo e sussurrandole ancora: «Te lo prometto: fidati di noi.»

 Fu, poi, costretto ad uscire col padre che, altrimenti, avrebbe passato i guai.

 Lorelei ebbe appena il tempo di rendersi conto di cosa fosse accaduto che una nuova speranza fece breccia in lei: sarebbe riuscita a fidarsi della sua – loro – promessa.

 

-

 

 L’ultima ad entrare fu June. Corse incontro all’amica a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato: l’unica cosa di cui Lorelei era certa era che le sue sopracciglia corrucciate non indicavano nulla di buono.

 «Perché?» le chiese sull’orlo di sfiorare una crisi nervosa. Lor sapeva bene che quella era la calma prima della tempesta.

 «Te l’avevo promesso.» sussurrò la ragazzina tenendo le iridi fisse in quelle scure dell’amica. Studiò il suo viso in ogni singolo particolare per non dimenticarlo. Era quasi sicura che l’avrebbe fatto: a Capitol, ai Giochi, tutto cambiava. Dimenticavi il colore degli occhi di tua madre, dimenticavi com’era toccare il grano, dimenticavi perfino com’era poter vivere senza paura di morire o vivere senza mai aver ucciso.

 Lorelei lo sapeva bene: Brick le aveva raccontato tutto. In una sera timida e calda di metà luglio, Brick le aveva confessato di avere anche dimenticato il suo viso.

 «Ma non pensavo lo avresti fatto davvero!» iniziò ad avere le cornee lucide. June era una ragazza forte, certo, ma ci sono cose che vanno ben oltre la forza del singolo individuo.

 «Mi conosci da sette anni: lo dovresti sapere che se dico una cosa, la faccio.» la voce incrinata ma decisa, piatta, quasi come se non avesse emozioni. Era ciò che faceva di solito: nascondeva ciò che provava per poter dare agli altri l’impressione di non provare nulla. Era fatta così, Lorelei: difficile, scura, sola anche in mezzo ad una piazza piena di persone.

 «Pensavo fossi più ragionevole.» sputò quasi.

 «Pensi saresti potuta sopravvivere, nell’arena? Io so cosa ti fanno là dentro, June: ti dipingono il cervello di rosso! Immagina se fossi morta: come avrebbero fatto Fred e gli altri senza di te? Dimmelo!» Lorelei non si rese conto che la sua voce, da sussurro, era passata ad un tono alto, pericolosamente vicino all’urlo.

 June non parlò, forse toccata nel vivo dei propri sentimenti, forse solo ferita.

 Lorelei la mandò via con un cenno della mano ed aria di sufficienza: le dava davvero fastidio quando faceva così. Non capiva che l’aveva fatto per lei?

 «Torna.» fu tutto ciò che sussurrò June andandosene.

 Lor attese qualche secondo dopo che lei uscì per iniziare a piangere. Corse poi ad aprire la porta, sperando di vedere l’amica, sperando di poter parlare, di chiederle scusa. Sperando che non si sarebbero lasciate così.

 Un corridoio vuoto uccise quelle speranze di Lorelei.

 

-

 

 Brick Ukai aspettava la sorella fuori dal palazzo di giustizia per accompagnarla al treno. I paparazzi facevano scattare i loro flash freneticamente, accecando i due ragazzi. Ma, in fondo, era raro che una dodicenne sorella di vincitore si offrisse volontaria. Soprattutto se quel vincitore era Brick Ukai.

 Il ventiduenne strinse la mano destra sulla spalla di Lorelei con fare rassicurante, ma la bimba rabbrividì sentendo il contatto con la protesi del fratello. Ecco cosa volevano dire gli Hunger Games.

 La paura la portò a mordersi il labbro talmente forte da farlo sanguinare.

 Chiuse gli occhi forte e, un attimo prima di salire sul treno, scappò dalla presa del fratello per mostrarsi alle telecamere.

 «Gli Ukai sono tornati!» fu tutto ciò che disse, ma i giornalisti si bearono di quel gesto.

 Lor sperò che la Capitale la prendesse bene, e non come una sfida: tutto ciò che volevano era spettacolo, e Lorelei Uk era pronta a darglielo. Il viaggio in treno fu snervante, la ramanzina di Brick sulla sua incoscienza suonò già sentita e risentita alle orecchie della bimba. I suoi occhi studiarono il viso di Alec così tante volte da farglielo risultare famigliare.

 Sperò che non l’avrebbe dovuto uccidere, sperò anche che lui non avrebbe ucciso lei. Sperò di poter vincere e, dopo la vittoria, dormire tranquilla senza la paura di chiudere gli occhi a causa degli incubi. Sperò di piacere alla capitale, sperò che l’amassero e avessero il buon cuore di aiutarla nella sua impresa inumana.

 Sperò di farcela, anche se i dodicenni non ce la facevano mai.

 Sperò di essere l’eccezione che confermava la regola.

 Le speranze di Lorelei, alla fine, si ridussero a due: morire da eroina o vivere abbastanza da diventare leggenda.

 

 

Time is running out.


































 Adolf's corner.

 

 Questo terzo atto temevo non sarebbe mai arrivato.
 Per questo motivo ringrazio di nuovo Potta che mi ha incoraggiato a scrivere di Lorelei come nessuno
 L'impaginazione fa pena, lo so, ma ho dovuto usare un editor alternativo perchè quello di efp ha deciso di lasciarmi nel momento del bisogno.

 Adesso mi sembra come se mia figlia se ne stesse andando di casa. Alla fin fine, mi sono davvero affezionata a Lor.
 E bao, spero anche voi.
 Lorelei è nelle mani di Leddy, ora, ma io vi voglio ringraziare per averne voluto sapere di più su di lei. 
 Grazie davvero, perchè a Lor ci tengo come a pochi.
 Basta con gli addii smielati.

 Bao a tutti♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: AriiiC_