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Autore: TaliaAckerman    22/07/2013    3 recensioni
[Revisione in corso]
Primo capitolo della serie del "II ciclo di Fheriea"
Dal diciottesimo capitolo:
"Pervasa da un senso di feroce soddisfazione, Dubhne alzò il braccio destro in segno di vittoria. La folla intorno a lei urlava e scandiva il suo nome, entusiasta. E la cosa le piaceva."
Salve, e' la prima fan fiction che pubblico in questa sezione. Più che una ff però è un romanzo, il mio romanzo, ideato e steso in più di due anni di fatiche e grandi soddisfazioni. Spero vi piaccia^^
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'II ciclo di Fheriea'
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Erano passati cinque mesi dal giorno in cui Dubhne aveva messo per la prima volta piede nella sartoria del signor Tomson. Cinque, lunghissimi mesi.
Dopo il patito abbandono dell’amica Johanna, la vita era comunque proceduta tranquilla. Ogni trenta giorni si ripetevano, regolari, le visite dei genitori, e nonostante l’approccio non tanto piacevole fra Dubhne e gli altri ragazzi della sartoria, la bambina era riuscita a tenersi fuori dai guai. Alesha era il suo punto di riferimento, come sempre. Alla fine, dopo il momento di tensione dovuto al litigio con Johanna, Dubhne era riuscita a riappacificarsi con l’amica, spiegandole finalmente cosa fosse successo nelle cantine tra lei e la ragazza. E da quel giorno, se possibile, erano diventate ancora più inseparabili.
Alesha ne era ben consapevole: all’interno di quelle mura, la bambina aveva solo lei. E prendersi cura della propria amica in miniatura le piaceva. Era una bella sensazione quella di poter rendere felice una persona così sventurata; occuparsi di lei le davo uno scopo nella vita.
Dubhne, d’altra parte, aveva finalmente accettato la propria condizione ,e visto che Dills e i suoi compagni avevano finalmente terminato di tormentarla, la ragazzina aveva cominciato a guardare la sartoria quasi come una casa. Alesha era sua mamma, e tutti gli apprendisti suoi fratelli, anche quelli con cui non aveva mai scambiato una parola. Sapeva che era un pensiero infantile, ma era l’unico modo per non sentirsi tanto sola. Aveva persino cominciato a giudicare Dills e Charlons in modo diverso: forse era solo per la paura di essere nuovamente puniti, ma né i due ragazzi, né Jay e Norik le aveva più torto un capello. Nel cuore della bambina, finalmente aveva trovato posto la speranza. Quanto a Kall, dopo che lui l’aveva salvata dalle ire del signor Tomson, i due erano quasi finiti col diventare amici. Non proprio nel vero senso della parola, ma se non altro il sorvegliante era meno duro con lei che con gli altri ed evitava di rimproverarla per leggere sciocchezze, cosa che invece Heixa avrebbe fatto con piacere.
Ma poi, in una gelida serata invernale, quando Dubhne aveva compiuto otto anni da soli dieci giorni, avvenne la tragedia. Suo padre arrivò con l’oscurità, vestito di scuro, e bussò freneticamente alla porta della sartoria per molte volte, finché Deka gli venne ad aprire. Michael fu condotto nell’ufficio del signor Tomson, e pochi minuti dopo Dubhne fu costretta a rinunciare alla propria cena, convocata da Deka in udienza dal Padrone. La bambina entrò nel salottino privato di Tomson con la paura in viso, ma quando scorse suo padre si rallegrò. Fece per correre ad abbracciarlo, allegra e stupita per la visita inaspettata,, ma l’uomo la bloccò, tenendola a distanza. Non c’era ombra di un sorriso sul suo volto magro. I suoi occhi erano colmi di lacrime.
– Dubhne – cominciò il signor Tomson. La bambina si voltò verso di lui, spaventata, e questi proferì. – Mi spiace. Tuo padre mi ha appena riferito… Tua madre è morta.
A Dubhne, colpita alla sprovvista da quelle parole terribili, sembrò che il mondo le stesse crollando addosso. Troppo sconvolta per parlare, indietreggiò, scuotendo la testa. – No - balbettò. – No, lei non può essere morta. È venuta a trovarmi. Il mese scorso stava bene! – Guardò in direzione del padre in cerca di aiuto. Ma Michael taceva, in piedi e fissando il muro, senza riuscire a proferire parola.
– È morta, le cose stanno così, mi spiace. È stata attaccata da una malattia dei polmoni, e non è riuscita a riprendersi.
– continuò Tomson, imperterrito. Dubhne scoppiò in lacrime.
– No, non è vero!- urlò in tono folle, disperata. E senza aspettare risposta si voltò, sgusciò fra Deka e l’apertura della porta e corse, corse quanto le gambette corte le permettevano. La sorvegliante non ci mise molto ad acciuffarla, ma prima di riuscire a domare la furia della bambina si prese un poderoso calcio in faccia. Con la bocca sanguinante, Deka agguantò la bambina per i polsi. – Sta’ ferma!- urlò. – Senti, capisco che tu sia disperata per tua madre, ma se continui così sarò costretta a chiuderti in una cella per il resto del mese!
- Non temere, Deka - fece dietro di loro un voce glaciale. – Con il suo comportamento Dubhne si è appena guadagnata tre settimane di reclusione nelle cantine. Quattro se continuerà ad agitarsi.
A quelle parole, la bambina cessò definitivamente di dibattersi. Per un attimo pensò che suo padre sarebbe intervenuto, che sarebbe corso in suo aiuto strappandola dalle grinfie di Deka per riportarla a casa e piangere insieme sua madre. Ma non accadde niente di tutto ciò: Michael rimase immobile dov’era, come impietrito. A quel punto Dubhne si accasciò a terra e, stremata, pianse.


- Dubhne…
- Vattene.
– Dubhne, ti prego…
- VATTENE! – urlò la bambina a pieni polmoni, afferrando il vaso da notte e scagliandolo con violenza verso la parete. Pianse con rabbia. Alesha, dall’altra parte della porta sospirò tristemente, facendo scivolare il vassoio del pranzo sul pavimento della cella di Dubhne.
– Mangia. Ti prego, o finirai per morire di fame. – disse con voce sconfitta, e si voltò per tornare al proprio lavoro del pomeriggio. Dubhne rimase immobile, sperduta nel proprio dolore. Sapeva di stare commettendo un terribile errore trattando Alesha con così tanta crudeltà, ma davvero non riusciva a fare altrimenti. Non riusciva più a ragionare. La sua mente girava vorticosamente, e riusciva a formulare una sola frase. Risentiva la voce di Tomson, fredda, insensibile, terribile, che nella testa continuava a ripetere:
tuo padre mi ha appena riferito… Tua madre è morta. La bambina rimase per qualche interminabile minuto immobile, seduta sul freddo pavimento della stanza umida. Poi, piano, esitante, scivolò verso il pasto non più tanto caldo che Alesha le aveva portato.
Oh, Alesha, pensò. Al, mi dispiace tanto. Ti ho trattato malissimo, quando tu sei davvero l’unica persona che mi voglia veramente bene, qui dentro. Ti prego, scusa!
Dubhne trattenne a stento l’ennesimo singhiozzo, consumando a fatica il proprio pranzo. In effetti, era da quasi tre giorni che non mangiava. Nonostante l’insistenza di Alesha, la ragazzina davvero non era riuscita ad assaggiare neanche una crosta di pane. Il corpo di Dubhne, stremato da quei continui sbalzi di energie, si era ridotto ad un mucchietto di ossa e carne, pieno di lividi e graffi. La bambina tentava di non pensare al viso di sua madre, ma invano. Le immagini di tutti i momenti trascorsi insieme non le davano pace. La sua figura esile. La voce dolce e sottile. Le visite alla sartoria dei mesi precedenti. Il suo saper sempre le parole giuste da dire per rassicurare la figlia. Scossa dai singulti, Dubhne non riuscì a ingurgitare altro e rotolò sul pavimento, fino a ritrovarsi con il viso rivolto verso il soffitto.
Il resto della punizione Dubhne lo trascorse tremando dal freddo. Le giornate si accorciavano sempre di più, e la temperatura calava rapidamente. Stava iniziando l’inverno dello Stato dei Re, una stagione breve eppure così gelida. Un giorno, tossendo, la bambina si alzò dal proprio angolino per assicurarsi che la finestra fosse ben chiusa, visti i continui spifferi che provenivano da essa,, quando d’un tratto sentì bussare sommessamente alla porta. Pensando che si trattasse di Alesha, Dubhne non rispose. Aveva paura che l’amica fosse venuta per dirle che non potevano più essere amiche, proprio come aveva fatto Johanna, o per coprirla di insulti per il modo in cui lei l’aveva trattata negli ultimi tempi. E così rimase ferma, appiccicata al muro, senza osare fare rumore. Finché una voce non la scosse:- Dubhne? Dubhne vieni qui. Ho una cosa per te.
Non era Alesha. E – per fortuna – non erano neanche Dills o Charlons. No, la bambina fu sommamente sorpresa nel capire che quella voce maschile apparteneva al sorvegliante Kall. Timorosa, si avvicinò alla porta. – C-chi sei? – chiese per sicurezza, pur conoscendo già la risposta.
– Sono io, Kall – confermò l’uomo sussurrando. – Ma adesso fai silenzio.
La ragazzina udì scattare la serratura, e la porta della cantina si aprì leggermente. Kall, più magro ed emaciato che mai, le stava porgendo una coperta di lana. – Tieni - le disse in fretta. – Al termine della tua punizione ci penserò io a farla sparire.
Dubhne, troppo grata per parlare, afferrò subito la coperta e se la avvolse attorno al torace. – Grazie mille - tossì.
Kall sorrise debolmente e, dopo un attimo di impacciato silenzio, richiuse la porta; la povera ragazzina si ritrovò nuovamente sola.




Note: un minuto di silenzio per la morte di Camlias... Bene! Rieccomi con un nuovo capitolo. Non è un granché, lo so... Ma se vi è piaciuto fatemelo sapere con una recensione :) A presto, aggiornerò il prima possibile :D
  
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