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Autore: TaliaAckerman    10/08/2013    4 recensioni
[Revisione in corso]
Primo capitolo della serie del "II ciclo di Fheriea"
Dal diciottesimo capitolo:
"Pervasa da un senso di feroce soddisfazione, Dubhne alzò il braccio destro in segno di vittoria. La folla intorno a lei urlava e scandiva il suo nome, entusiasta. E la cosa le piaceva."
Salve, e' la prima fan fiction che pubblico in questa sezione. Più che una ff però è un romanzo, il mio romanzo, ideato e steso in più di due anni di fatiche e grandi soddisfazioni. Spero vi piaccia^^
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'II ciclo di Fheriea'
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21




Mentre la bambina se ne stava tranquillamente semi immersa nell’acqua tiepida, qualche lacrima di solitudine le scese sulle guance.
Dove sarà Alesha adesso? Si chiese tristemente, mentre le piccole onde provocate dalla brezza la cullavano delicatamente. Chissà com’è l’Ariador in realtà…
L’amica le aveva raccontato dei prati color smeraldo, i laghi argentei e le montagne rocciose dell’ovest. Le città scintillanti e marmoree, i fiumiciattoli limpidi… Tutti sapevano che l’Ariador aveva la fortuna di trovarsi in una posizione climaticamente perfetta e Dubhne avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo vedere. E poi c’erano tutte le storie sulle Guerriere… combattenti formidabili, le migliori dell’intera Fheriea, forse… Kalya, Jesha, Misa… tutti nomi famosi. Ragazze straordinarie, abili, coraggiose e… bellissime. Da sempre Dubhne aveva desiderato di poter cambiare il proprio aspetto, far sparire quegli ordinari occhi color nocciola e sostituirli con quelli limpidi degli Ariadoriani. I capelli non erano un problema invece: li aveva sempre amati, tanto da impedire ai suoi genitori di tagliarglieli per molti lunghi anni… Pochi giorni dopo il suo arrivo nella sartoria del signor Tomson Deka glieli aveva accorciati con un paio di grosse forbici, ma non era stato un taglio drastico e i capelli avevano impiegato meno di un mese a tornare come prima.
Per la prima volta dopo tanto tempo, la ragazzina ripensò all’incontro misterioso con quel ragazzino strano, alla sartoria. In particolare, ripensò ai suoi occhi: azzurri, lucenti, così chiari e misteriosi…



Guardando il Limbos che aveva catturato rosolare pigramente su quella sorta di primitivo spiedo, Dubhne avvicinò le mani al fuoco per riscaldarle; c’era vento quella sera, e le fronde degli alberi ondeggiavano paurosamente. La bambina si strinse nei propri abiti. Aveva freddo.
Non pensarci.
Con un pizzico di malinconia, Dubhne volse lo sguardo verso il cielo stellato. Le stelle, così luminose e numerose, l’avevano sempre affascinata. Avrebbe tanto desiderato poter essere lì con loro.
È lì che si trova la mamma, adesso.
La ragazzina rimase un attimo immobile, assorta nei propri pensieri. Poi, con un sospiro, fu costretta a tornare alla realtà; controvoglia, levò il piccolo Limbos da fuoco e cominciò a consumare la propria cena in silenzio. Dopo aver mangiato, si avvicinò al laghetto e con le mani raccolse un po’ d’acqua per dissetarsi. Dopo ripeté l’operazione, ma questa volta la gettò distrattamente sul fuoco, che emise uno sbuffo di fumo. Così non avrebbe rischiato che le fiamme dilagassero mentre dormiva. Dubhne si distese sull’erba morbida e attese che il sonno la portasse via.
Buona notte, mamma.
Fu svegliata poche ore dopo, da un forte odore di bruciato.
– Mmm… ma che succede? – si chiese in tono sonnolento. Poi, con orrore, avvertì una sensazione di calore quasi insopportabile proprio accanto a sé.
Orripilata, la bambina si tirò su a sedere, e quel che vide la terrorizzò. La radura in cui aveva riposato era immersa nelle fiamme. Dopo qualche secondo di puro sconvolgimento, Dubhne comprese: il vento. Doveva aver sospinto il suo fuocherello verso le foglie secche durante la notte. La bambina si maledisse per la leggerezza compiuta la sera prima: avrebbe dovuto accertarsi che il fuoco fosse effettivamente spento del tutto prima di abbassare la guardia e mettersi a dormire. Per un attimo fu presa dal panico, ma capì quasi subito cosa fare. Ansimando rumorosamente, afferrò la propria sacca di tessuto e la freccia e, piangendo dalla paura e per le scottature, si avventò verso l’acqua del lago. Dovette saltare più alto che poté per evitare una pericolosa lingua di fuoco, ma poi si ritrovò immersa nell’acqua scura fino alla vita, salva.
Che cosa… che cosa faccio adesso? La ragazzina non aveva mai imparato a nuotare. Riluttante, e tenendo d’occhio l’incendio che dilagava, Dubhne indietreggiò, fino a sprofondare con i piedi nella sabbia e l'acqua fino alla gola. Respirando affannosamente, la bambina si infilò le mani fra i capelli, disperata. Devo andarmene da qui.
Si guardò intorno e, dopo un istante di puro panico, adocchiò un gruppo di rocce proprio vicino alla riva di est. Correndo goffamente a mollo nell'acqua, Dubhne si lanciò verso quei ripari, sempre tenendo stretta al petto la freccia e la saccoccia. Erano i suoi unici averi; non poteva perderli. Con fatica, la ragazzina raggiunse le imponenti rocce bianche vi si aggrappò, stremata. Intanto, guardò la sponda opposta, che il fuoco stava lentamente divorando.
Devo uscire di qui prima che l’incendio dilaghi.
Gemendo per lo sforzo, Dubhne si issò sul masso più basso con una mano, tirandosi dietro la sacca e la freccia con l’altra. Salì ancora, finché fu al livello della spiaggia. Allora, disperata, balzò giù dallo scoglio e corse via con tutta la forza che le gambe corte le permettevano. Fuggì atterrita, senza neanche rendersi conto di che direzione seguisse.
Le fiamme le erano andate vicino. Molto vicino. Se avesse atteso ancora un po’, la ragazzina sarebbe sicuramente morta bruciata.
Schizzò fra gli alberi come impazzita, e alla fine, quando non ebbe più forza neanche per muovere un passo, crollò a terra, sfinita. Con il petto che si alzava e si abbassava freneticamente, la bambina scoppiò a piangere senza ritegno. Aveva avuto paura, tanta paura, come mai in tutta la sua vita. Aveva rischiato di morire, e in che modo osceno. Alzò gli occhi verso sud, e vide che il cielo rimaneva illuminato dalle fiamme che in lontananza stavano divorando tutta la vegetazione che incontravano.
Il fuoco si espanderà. Non posso restare qui. Morirò se lo faccio. Ma io… sono così stanca… non ce la faccio più a correre…
Fu così lieve che la bambina pensò di esserselo immaginato. Eppure, dopo qualche secondo accadde di nuovo. Una minuscola goccia d’acqua le cadde sul palmo teso della mano. Come in un sogno, Dubhne volse lo sguardo al cielo, dove non si scorgeva più l’ombra di una stella. Ridendo incredula, prima sommessamente, poi sempre più forte, la ragazzina respirò profondamente. Era salva. Piano, dolcemente, l’acqua cominciò a bagnare il terreno della foresta.
Sì, sì… non ci posso credere!
La bambina improvvisò una specie di girotondo in solitaria per la gioia, mentre in lontananza le fiamme cominciavano a sbiadire.
– Grazie, grazie!- ripeté Dubhne sottovoce, senza sapere esattamente a chi o che cosa si stesse rivolgendo. – Oh, grazie!
Mentre si lasciava crollare a terra, rise così forte da sembrare impazzita. Superata la terribile paura, lacrime di gioia le scendevano sul viso, assieme ad una sensazione di sollievo così forte da sembrare innaturale.
Sono viva. Sono viva. Ancora una volta, ce l’ho fatta.
La bambina appoggiò la testa sull’erba e, sfinita, si addormentò.
Al proprio risveglio, la prima cosa che vide fu l’immensa colonna di fumo che si ergeva all’orizzonte. In un solo, vorticoso istante la bambina ricordò tutto: l’incendio, la paura, il trionfo. Dubhne si alzò, stiracchiò i muscoli ed estrasse ed estrasse dei lamponi selvatici dalla sacca; era stata fortunata, la mattina precedente, a imbattersi in un roveto che n’era colmo. Durante la fuga della notte prima si erano un po’ schiacciati riducendosi a una specie di marmellata, ma non importava.
Dopo aver consumato in silenzio l’esigua colazione – la sacca era di nuovo vuota e avrebbe dovuto cercare al più presto qualcosa con cui riempirla - raccolse da terra i propri averi e ricominciò a camminare. Tenendo d’occhio la posizione del sole, era quasi sicura di stare procedendo verso nord. Questa volta però riuscì a mantenersi calma: non doveva farsi prendere dall’ansia per gli avvenimenti che sarebbero accaduti in seguito; in effetti, aveva una mezza idea di scappare verso nord, lontana dalla calura estiva che andava avvicinandosi e da altri possibili incendi.
Avanzò in quella direzione fra gli alberi per tutta la mattina, il cuore carico di speranza. E poi, mentre il sole di mezzogiorno filtrava tra le fronde riscaldando la foresta, senza preavviso accadde: una voce. Una voce limpida di bambino fra gli alberi.
- Tana libera tutti!
Che diavolo significava? Qualcuno era forse prigioniero? Eppure, la voce che aveva gridato quella strana frase sembrava piena di allegrezza. Forse si trattava di una specie di gioco.
Era da settimane che Dubhne non incontrava anima viva. Questo poteva significare una sola cosa: il limitare del bosco era vicino e lei doveva trovarsi nei pressi di una città. Che senza accorgersene non avesse fatto altro che girare in tondo riportandosi proprio a Célia?
Rimase lì immobile, paralizzata e indecisa, mentre la voce, a cui se ne erano aggiunte altre due, si avvicinava sempre di più. Alla fine, dagli alberi emersero tre figurette: erano due bambini e una ragazzina, tutti leggermente più piccoli di Dubhne. I ragazzini avevano occhi e capelli castano chiaro, ma la femmina aveva un aspetto più vivace: bruna e minuta, aveva due grandi occhi di un intenso color mattone, quasi rossi, e la carnagione abbronzata. Dubhne non aveva mai visto persone del genere.
– Chi sei? – chiese all’improvviso uno dei due bambini, mentre anche gli altri due la squadravano con curiosità. Ma lei aveva la gola secca: era da tanto tempo che non rivolgeva la parola con un altro essere umano. Tutto quello che riuscì ad emettere fu un basso gorgoglio. Non aveva idea di cosa dire.
– Da dove vieni? – la incalzò la bambina, sgranando gli occhioni rossi.
L’ansia la assalì alla gola. – Io non…
- Allora parli! – esclamò il secondo ragazzino, scoppiando a ridere. Dubhne li ignorò e, di getto, chiese: -Come si chiama la città più vicina? Venite da lì?
Dopo averla fissata con sguardo tra lo spaurito e il perplesso, la ragazzina fece:- Chexla è proprio qui vicino. Devi camminare in quella direzione solo per qualche minuto e il bosco si dirada.
– Grazie!- esclamò Dubhne, e prima che gli altri potessero fermarla, cominciò a correre nella direzione indicata. In effetti, era da non poche ore che la ragazzina non si nutriva, e ben contrariata all’idea di rischiare accendendo un altro fuoco, aveva deciso di cercare cibo in una qualsiasi città.
Tanto qui sono già lontana da Célia. Non può esserci nessuno che mi conosce. In effetti, non aveva mai sentito nessuno fare il nome di Chexla, alla sartoria.
Mentre spariva fra i cespugli, udì la ragazzina commentare:- Che strana tipa… dai, torniamo da mamma e papà. Saranno preoccupati…





Note: buongiorno, eccomi qui :) Volevo postare stamattina, ma non ce l'ho fatta e ho rimandato ad ora. Spero il capitolo sia stato di vostro gradimento, comincio ora a scrivere il ventiduesimo :D A presto!
  
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