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Autore: Vorarephilia    23/08/2013    3 recensioni
Soleil aveva sedici anni e una vita che a molti potrebbe apparire semplice.
Amelie aveva sedici anni e un'esistenza priva di significato.
Soleil aveva un'amica immaginaria, una volta.
Amelie aveva qualcuno con cui passare il tempo, una volta.
Soleil amava guardarsi allo specchio.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 1

Il dolore dell'abbandono

 

 

Amelie

 

C'era stato un tempo in cui io e Soleil stavamo insieme giorno e notte.

Eravamo inseparabili e, sebbene avesse paura del mondo in cui ero costretta a vivere, mi era stata davvero vicina.

Avevo potuto toccarla, sentire il caldo del sole che si specchiava sulla sua pelle sempre un po' abbronzata, bearmi del profumo fruttato dei suoi capelli e del colore intenso e brillante delle sue iridi scure.

Era stato solo un mese, poi era stata costretta ad andarsene, ma era stato il mese più bello della mia vita.

La luce prima di un'esistenza nell'oscurità di un baratro così profondo da non vederne l'inizio.

Ed io, persa sul fondo di quel baratro, non sapevo neanche se esistesse ancora un mondo, là fuori.

La mia era diventata una vita completamente solitaria.

Non che non lo fosse anche prima di incontrare Soleil, però lei mi aveva mostrato la felicità solo per potermela strappare via.

E ancora, c'erano giorni in cui mi guardava, ma stava in silenzio. Come tutti gli altri avevano sempre fatto.

Avrei dovuto esserne felice.

Finalmente ero normale. Ero come loro.

Ero sola.

Soleil mi aveva abbandonata a quell'esistenza.

Aveva preferito tornare nel suo mondo, quello bello, quello pieno di suoni, quello giusto.

Aveva preferito lasciarmi da sola, svegliarsi, essere di nuovo felice.

Con me non lo era mai stata davvero.

Dieci anni prima, subito dopo quel mese meraviglioso, avevo sentito più volte la sua voce.

Provava a chiamarmi, mi chiedeva scusa. Mi diceva che non potevamo più essere amiche.

-La mamma ha paura.-

-Per favore, perdonami.-

-Scusa.-

-Non voglio lasciarti.-

 

Eppure lo aveva fatto. Aveva ascoltato sua madre e mi aveva abbandonata, lasciata ad un destino crudele, in un'oscurità di cui non vedevo la fine, in un silenzio che dilaniava il cervello e manipolava i pensieri.

Dovevo fare qualcosa o sarei impazzita.

Ero condannata a vedere il suo viso, i suoi occhi blu che rifuggivano i miei ogni volta, vedere le sue labbra che sorridevano a ricordi di un passato lontano e mai dimenticato.

Non si mostrava spesso come un tempo. Lo faceva di rado, forse due o tre volte al giorno. Si metteva di fronte a me ed ero costretta a guardarla.

Faceva così male. Era una tortura.

Poter vedere solo lei in quell'oscurità mi feriva la mente, mi rendeva instabile.

In fondo, non sarei mai stata davvero normale.

Avrei sempre sofferto per qualcosa che agli altri non provocava alcun dolore.

Avrei sempre pianto per il suo sorriso, mai rivolto a me.

 

 

La mia stanza era un disastro. Regnava il tipico disordine della sedicenne in piena fase di ribellione.

Le pareti erano ricoperte di poster dalle figure confuse e scure. I vestiti erano sparsi dovunque. Fogli di compiti, appunti e verifiche erano buttati a casaccio, eppure, mai una volta che mia madre mi avesse detto di metterla in ordine.

La mamma di Soleil glielo diceva spesso.

Ma Mary era diversa da mia madre.

Mary era una persona.

Una persona vera, con vere emozioni, con occhi luminosi e vivi e la voce squillante.

Mia madre nemmeno mi aveva mai rivelato il suo nome.

Non mi aveva mai parlato, mai guardata, mai nemmeno notata.

Ero invisibile, come tutti gli altri.

Ma io degli altri mi accorgevo.

Mi accorgevo della loro apatia, della loro tristezza.

E da brava adolescente preda degli ormoni, avevo fatto la prima cosa che mi era venuta in mente.

Avevo ridipinto il mio mondo.

Quello di Soleil era pieno di colori, perchè io dovevo essere costretta in un posto grigio e tetro?

Partii dalla cucina.

Una bella spennellata di rosso sul muro.

Mia madre sembrò disturbata da quel colore.

Lei stava sempre in cucina, forse avrei dovuto chiederle se l'avrebbe infastidita.

-Scusa mamma.- dissi, mentre continuavo la mia piccola opera d'arte.

Per la prima volta in sedici anni, vidi le sue pupille bianche fissarsi sulla mia figura.

Non disse nulla, ovviamente, ma mi guardò.

Mi vide per davvero.

Forse ridipingere era stata un'idea migliore di quanto pensassi.

Più ricoprivo le stanze, le case, le strade e il mio mondo di quel colore intenso e bellissimo, più le persone mi guardavano.

Per una volta, non ero sbagliata.

Ero solo diversa.

Ero l'eccezione.

E mi andava bene, purchè il rosso desse un po' di luce alla mia vita.

 

Rosso come il fuoco.

Rosso come il sole.

Rosso come il sangue.

 

Soleil

 

Crescendo avevo imparato quanto fosse pericoloso non ascoltare le preoccupazioni di mia madre.

Il suo nome era Mary ed era, senza dubbio alcuno, la persona che mi voleva più bene nell'intero universo.

Anche più di Amelie.

Non avevo mai più parlato della mia gemella da quando ero entrata in coma e ci ero rimasta per quasi un mese, dieci anni prima.

Dieci anni in cui non avevo mai più sentito la sua voce, o visto il suo bel viso, o sfiorato i suoi capelli.

Dieci anni in cui non avevo sognato altro che il suo mondo, fatto di persone silenziose e per lo più immobili. Un mondo terrificante e triste, in cui Amelie era rimasta intrappolata, incapace di uscirne.

Nonostante mi sentissi incredibilmente in colpa per averla abbandonata, avevo capito che avere un amico immaginario, durante l'infanzia, era bello finchè non diventava pericoloso.

Ed Amelie era molto pericolosa.

Pericolosa come gli uragani e le tormente di neve e il mare in tempesta.

Amelie avrebbe potuto uccidermi con un sorriso.

-Sole, è ora di andare.- mi chiamò mia madre.

Non le piaceva che stessi davanti agli specchi troppo a lungo.

-Sono quasi pronta.- le gridai dal bagno.

Era il mio primo giorno di scuola.

Mi sentivo emozionatissima.

-Alle due e mezza hai l'appuntamento con la dottoressa Hewett.- mi avvertì mio padre, dandomi un bacio sulla fronte quando ci incrociammo in corridoio.

Lui era ancora in pigiama e vestaglia.

Era uno scrittore di successo e non aveva degli orari da rispettare.

Beato lui.

-Va bene. Ci rivediamo nel pomeriggio allora. Non faccio in tempo a tornare per pranzo.- mi alzai sulle punte dei piedi per abbracciarlo e baciargli la guancia. Il sottile filo di barba chiara mi solleticò le labbra, facendomi ridacchiare.

Mia madre lo salutò con un bacio sulla bocca e, insieme, uscimmo di casa.

La scuola era lontana, ma, fortunatamente, mamma aveva il tempo di accompagnarmi in macchina, prima di andare al lavoro.

Era un'impiegata statale, sottopagata e perennemente oberata di lavoro, ma lo faceva per passione. Chi ci manteneva davvero era papà, che con i suoi best sellers ci aveva permesso di comprare una bella casa e vivere nell'agio.

Mia madre aveva però abolito la proposta di fare la mantenuta, non era da lei.

Le piaceva troppo darsi da fare.

-Ci vediamo stasera, amore. Fai la brava.- mi disse mamma, baciandomi la guancia.

-Ok. A dopo.- scesi dall'auto e mi diressi verso lo spesso portone in legno chiaro.

Incontrai tutti i miei compagni dell'anno precedente. Non ero la più popolare e non andavo d'accordo con tutti, ma amavo i miei amici per quello che erano.

Senza maschere, con tutte le loro bizzarrie e stranezze.

-Ciao Sol.- mi urlò Valkirya, la mia migliore amica.

Aveva occhi di un bel grigio chiaro, e capelli rosso fuoco, che si ostinava a tenere nascosti con un basco nero.

-Ehi, Kiri, hai finito i compiti, immagino.- scherzai. Lei arrossì violentemente e mi tirò un amorevole pugno sulla spalla, sbilanciandomi e facendomi cadere contro Corvette, la ragazza di quarta per cui avevo una cotta da sempre.

Era bellissima, con la pelle color rame e i capelli d'oro. Mi sorrise, mostrando i denti bianchissimi e io mi sentii sciogliere.

-Sc-scusa...- balbettai, rimettendomi in piedi e cercando di lisciare le invisibili pieghe della maglietta verde scuro che indossavo.

-Figurati, può capitare.- mi rassicurò lei. La sua voce era come una cascata di tiepido cioccolato fuso che mi entrava nelle orecchie.

Dovetti reprimere un brivido, avrei rischiato di sembrare ancor più strana di quanto non dessi a vedere di solito.

Di sicuro l'avrei spaventata.

-Ehm... Io sono So-Soleil.- mi presentai, porgendole una mano tremante. Lei la prese, ridacchiando appena della mia goffaggine, e la strinse.

Le sue dita erano affusolate ed eleganti. Suonava il pianoforte, per cui non poteva tenere le unghie lunghe come le altre ragazze alla moda, però prestava loro una grande attenzione, cambiava colore dello smalto praticamente una volta al giorno.

Quella volta erano color perla.

-Lo so. Ci siamo già incontrate un paio di volte. Io sono Corvette, comunque.- mi disse.

Arrossii ancora di più e mi sentii incredibilmente stupida.

-Scusa... Non me lo ricordavo...- provai a giustificarmi.

-Non fa nulla. Ciao Soleil.- mi salutò, andando via con il gruppetto di ragazze della sua classe con cui la vedevo sempre.

-Bè, direi che come primo-ma-non-primo approccio è andato davvero alla grande. So-so-so-so-sono So-So-So-So-Soleil.- mi prese in giro Valkirya, battendomi una pacca sulla nuca.

-Tu e le tue fottute manine di fata!- esclamai, massaggiandomi la parte lesa.

-Oh, scu-scu-scusa.- rise così tanto che la sua faccia divenne rossa come un pomodoro maturo, si teneva la pancia con le mani e non riusciva a stare in posizione eretta.

-Va bene, era divertente, ora puoi smetterla?- le chiesi, un po' scocciata.

-Sì. Sì, ora sono seria.- disse, ma non ci credeva davvero nemmeno lei, infatti dopo appena due secondi, ricominciò a sghignazzare.

Per lo meno lo fece sottovoce.

Arrivammo in classe con calma. Tanto il primo giorno non si faceva mai nulla.

La professoressa di letteratura, Georgia Louis, ci accolse con un caloroso sorriso.

-Come sono andate le vacanze, ragazze?- ci domandò.

-Bene prof. A parte i compiti.- rispose Valkirya. Non era proprio in grado di essere seria, nemmeno per un minuto.

-E a te?- insistette la donna, fissandomi, mentre prendevo posto in uno dei due banchi liberi della prima fila.

-Benino.- mormorai.

Dover ritornare dalla psicologa dopo quasi cinque anni in cui sembravo guarita non era stato proprio divertente, ma cercavo di affrontarla al meglio.

-I tuoi genitori me l'hanno detto. Se hai bisogno di un aiuto, non farti problemi a parlarmene.- si mise a disposizione. Nonostante non fosse lei, la coordinatrice di classe, le piaceva che i suoi studenti sapessero che lei c'era, per qualunque cosa.

Era una buona donna, Georgia Louis, ed un'ottima insegnante. Sapeva far appassionare i ragazzi come nessuno e, prima di ogni altra cosa, si premurava di insegnare a vivere in mezzo agli altri e l'educazione, che era sempre importante e, purtroppo, carente nei giovani.

Io vedevo i miei compagni e mi chiedevo come fosse possibile essere così infantili, rozzi, sgarbati e chiusi di mente.

Poi mi rispondevo che era più facile così.

Essere educati, gentili, altruisti, maturi, tutto questo costava fatica e impegno.

-Grazie.- dissi alla professoressa.

Sentii i miei compagni sussurrare maldicenze e voci di corridoio, ma non mi premurai nemmeno di zittirli.

Tanto non sarebbe servito a nulla. Potevano pensare ciò che volevano. Io sapevo quale fosse la verità, e così i miei amici.

 

Restai a pranzo a casa di Valkirya, che abitava a pochi metri dallo studio della dottoressa Hewett.

Mi stava simpatica, era una donna comprensiva e paziente e dagli ideali importanti. A tempo perso faceva l'attivista per i diritti delle donne, dei gay, degli animali e di tutti gli altri.

Mi accolse con il suo solito sorriso, gli occhi scuri illuminati dalla luce solare che filtrava dalla grande finestra e i capelli nerissimi lasciati ricadere sulle spalle minute.

-Ciao. È da tanto che non ci vediamo.- mi disse.

-Già. Quasi cinque anni.- borbottai, prendendo posto di fronte a lei, su una poltroncina di pelle.

-Tua madre era preoccupata. Dice che hai ricominciato a parlare nel sonno. A parlare di lei.- mi spiegò.

Lo sapevo bene perchè mi avessero mandata lì. Di nuovo.

Lo sapevo e ne ero spaventata.

-A volte faccio degli incubi.- era una bugia.

Tutte le notti facevo gli incubi.

Incubi che raccontavano di un mondo grigio, scuro, triste e dannatamente silenzioso.

Ed era reale.

Sapevo che era reale perchè c'ero stata.

Un intero mese in quell'Inferno, al fianco di una bambina di sei anni che aveva il mio stesso viso, ma che sapeva di acqua e di tempesta in ogni suo dettaglio.

-Ti va di parlarmene?- mi propose.

-No.- ridacchiai. Non ne avrei parlato a nessuno.

-L'hai vista di recente?- mi domandò, appuntando qualche frase sul suo taccuino, celando un moto di delusione dietro le pagine spesse e profumate di carta e inchiostro.

-Chi?- chiesi. Lei sapeva che avevo capito, ma mi accontentò lo stesso, rispondendomi.

-Amelie.-

-No. Sono dieci anni che non la vedo.- risposi.

-E ti dispiace? Vorresti vederla?-

Sì. sì, avrei voluto poterla rivedere, poterla sfiorare, poterle intrecciare i capelli ai miei.

Sole e pioggia insieme.

-No.-

Non avrei dovuto abbandonarla.

Mi sentivo talmente in colpa. L'avevo lasciata nel Silenzio, nella solitudine, nel grigiore del suo mondo, tutta da sola.

Non avrei mai voluto lasciarla andare.

-Sicura?- chiese conferma.

-Sì.- mentii ancora.

Non aveva molto senso far spendere soldi ai miei genitori per una psicologa, se poi non dicevo la verità, ma non potevo fare altro.

Se le avessi detto che ogni volta che mi guardavo nello specchio, solo per un attimo, solo con la coda dell'occhio, vedevo le sue pupille bianche sostituirsi alle mie, avevo il terrore che mi facesse prendere dei farmaci, o mi chiudesse in qualche istituto per gente come me.

Gente che vedeva cose.

Folli.

 









NdA: Ringrazio tutti quelli che hanno recensito il prologo, che hanno letto e che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.

 

Fun Fact:

Soleil, in francese, significa “sole” (ma davvero?!)

Il soprannome di Amelie, Ame, invece, significa “pioggia” in giapponese.

Lo so, non è un fatto molto Funny, però mi sembrava carino dirvelo.

 

Il prossimo capitolo lo metterò la prossima settimana.

Cercherò di essere il più puntuale possibile.

Alla prossima.

JJ.

  
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