Sherlock/The Hunger Games
Primum Vivere
Parte 2
Primum Vivere
Parte 2
« Avete tre minuti ».
La guardia all’ingresso aprì la porta della stanza con un cigolio sinistro e John non attese nemmeno che fosse completamente spalancata. Scattò all’interno e si inginocchiò di fronte alla figura di loro figlio, in piedi davanti all’unica finestra che dava sul cortile che avevano appena lasciato, stringendolo fra le braccia in un sospiro dolorante. Sherlock rimase in piedi dietro di loro, in silenzio, le sopracciglia aggrottate in un’espressione ferita.
« Andrà tutto bene... » disse John, stringendo di più Hamish a sé: « andrà tutto bene. Sei bravo, ed intelligente come tuo padre... ce la farai... ce la farai ».
Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, quelle bugie, ma erano le uniche parole che riusciva a trovare nel profondo di sé.
Hamish non faceva altro che rimanere aggrappato al padre con tutte le sue forze; era impossibile per lui continuare a fingere una calma che non aveva mai posseduto e si limitava a guardare Sherlock da sopra la spalla di John, occhi lucidi e sguardo preoccupato e spaventato.
Non ce l’avrebbe fatta, Sherlock lo sapeva; così come lo sapeva John, e Hamish stesso. Aveva solo dodici anni e nessuna esperienza, o forza, o possibilità.
Loro figlio sarebbe morto. Morto agli Hunger Games.
Morto per cosa?
Sherlock si avvicinò ai due e, appoggiando una mano sulla testa del bambino, lo abbracciò a sua volta. John si appoggiò contro di lui e Sherlock poté essere sicuro che fatto che stesse trattenendo le lacrime, forse per mostrarsi forte davanti al piccolo, forse per orgoglio personale o forse per entrambi i motivi.
« Sopravvivi, Hamish. Il più a lungo possibile. Non cercare la battaglia, non metterti nei guai di tua iniziativa. Impara le tecniche di sopravvivenza e rimani in vita, almeno finché non ci saranno pochi avversari rimasti. Abbassa le probabilità che ti trovino nascondendoti dove ti è possibile. Fai in modo di avere poche persone contro cui combattere alla fine dei giochi » disse Sherlock a bassa voce. Hamish, sotto il tocco della sua mano, annuì ogni volta.
Ciò che Sherlock non pronunciò fu John ad aggiungerlo, come sempre. « Ti vogliamo bene ».
Il tempo per le visite scadde e, così come erano entrati, John e Sherlock furono costretti ad uscire dalla stanza. L’ultima cosa che sentirono fu la voce impaurita di Hamish rispondere: « vi voglio bene anch’io ».
Solo quella mattina, John aveva preparato la colazione a suo figlio mentre Sherlock lo aiutava con i bottoni della camicia nuova. Ci si doveva vestire bene per la Mietitura e Sherlock era riuscito a tenere da parte qualche soldo per comprare al piccolo un paio di pantaloni ed una camicia nuova al mercato del paese.
Solo quella mattina avevano fatto colazione con toast e miele – era un’occasione speciale, dopotutto – e John aveva sorriso al pensiero che la vita, nonostante fosse ingiusta e scostante, avesse deciso di donargli Hamish e Sherlock, le persone per lui più importanti al mondo.
Solo quella mattina, nonostante la Mietitura, erano ancora genitori.
Solo quella mattina poteva chiamarsi “padre” e poteva andarne fiero. Poteva sorridere dei bei voti di Hamish a scuola e guardare con ammirazione figlio e marito analizzare e catalogare tipi diversi di api per le ricerche di Sherlock.
Solo quella mattina Hamish era lì con loro... ed ora non c’era più.
Ora, il salotto della loro modesta casa era vuoto e silenzioso. John, seduto sul divano, fissava un angolo del tappeto senza realmente vederlo, le mani abbandonate al suo fianco e la schiena appoggiata pesantemente allo schienale.
Non era ancora morto ma era come se lo fosse. Come poteva non essere considerata una condanna a morte? Aveva solo dodici anni... dodici anni ed era suo figlio, il suo bambino, il suo... mondo intero, e gli era stato portato via.
Chiuse gli occhi e smise di pensare a qualsiasi cosa. Si concentrò sui rumori all’esterno, come il sibilo del vento che entrava sottoforma di spifferi dalle finestre o il frusciare delle foglie della quercia in giardino, o come i passi di Sherlock sul vialetto, poi la porta si apriva e richiudeva, i passi del marito nel corridoio e la sua silenziosa presenza sulla soglia della stanza.
« È insieme ad altri due dodicenni, dal Distretto 8 e dal 10 » cominciò l’ex detective con tono pragmatico: « tutti gli altri hanno dai quindici ai diciotto anni » gli disse.
John non lo voleva sapere. Aveva detto a Sherlock di andare a vedere il riassunto della Mietitura altrove, dai vicini o in piazza, perché non poteva sopportarne la vista. Non voleva sapere nulla di dove Hamish sarebbe morto, delle persone che lo avrebbero ucciso o degli individui che glielo avevano portato via a causa di una stupida Rivolta, di uno stupido Trattato o di uno stupido show, a causa del maledetto Presidente Snow che se ne stava comodo a Westminster a vedere dei bambini trasformarsi prima in martiri poi in assassini ed infine in semplici vittime.
Sherlock, ignorando il suo silenzio, continuò a parlare. « Non credo che abbia molte possibilità. Sopravvivrà alla Cornucopia e riuscirà ad andare avanti per qualche giorno ma quando i Favoriti cominceranno a dargli la caccia– ».
« Taci ».
L’ordine di John fu perentorio e sibilato con rabbia. Sherlock chiuse la bocca e rimase in silenzio.
« Come fai...? » chiese poi, la voce bassa ma ferma, quasi paurosa. « Come fai a parlare in quel modo di Hamish, tuo figlio, il nostro bambino? Come fai?! » domandò incredulo, alzando progressivamente la voce e sollevandosi dal divano, camminando a passo di marcia in direzione di Sherlock.
L’ex detective non si mosse. Lasciò che John si avvicinasse e lo spingesse con forza contro il muro, sul quale sbatté la schiena e la nuca.
Si guardarono negli occhi. Uno sguardo che voleva dire molte cose tutte insieme, tutto ciò che non si dicevano a voce era racchiuso nei loro sguardi. Rabbia nell’uno e semplice silenzio nell’altro.
John premette Sherlock contro la parete con il proprio corpo, petto contro petto e gambe intrecciate, e attaccò senza delicatezza le sue labbra sottili con le proprie.
I loro baci erano raramente dolci e lenti. Solamente durante le piovose mattinate invernali o i malinconici pomeriggi di pioggia si lasciavano andare alle carezze e ai giochi d’amore. Le altre volte era la fretta, l’adrenalina, a fare da padrona. La violenza di un istinto profondo e radicale, la pulsione di possedersi vicendevolmente e di dimostrarselo l’un l’altro con foga. La gelosia sporca nei confronti di tutti gli altri occhi che guardavano John, che apparteneva solo a Sherlock, e Sherlock, che apparteneva solo a John.
Sherlock rispose al bacio, gli occhi socchiusi incatenati a quelli di John, dischiusi a loro volta. Riusciva a capire di cosa il marito avesse bisogno in quel momento, perché lo stesse baciando con tutto quell’ardore e quella fretta, con tutta quella rabbia e quella violenza, strappandogli quasi le labbra dal viso con i denti e rubandogli il respiro ancora prima che lo prendesse. Lo sapeva perché era John e perché, come sempre, capiva molto meglio i fatti che le parole.
Dopo alcuni, frenetici istanti, John si allontanò di qualche centimetro dalle labbra rosse e umide di Sherlock, osservandole con occhi languidi, eccitati ed iracondi al contempo.
« A volte vorrei ucciderti » soffiò sulla bocca di Sherlock: « per quello che dici, per come sei, per quello che pensi. A volte vorrei ucciderti » ripeté.
« Non è vero » rispose Sherlock.
John lo guardò. L’astio nei suoi occhi si trasformò in altro, si tramutò in rassegnazione. Chiuse gli occhi ed appoggiò la fronte sulla sua spalla. « Hai ragione, non è vero ».
Sherlock gli cinse la vita con le braccia e lo strinse a sé.
Caesar Flickerman aveva i capelli blu elettrico cotonati sulla testa ed un fastidioso sorriso a trentadue denti stampato in viso. Si godeva gli applausi del suo caloroso pubblico e si alzò in piedi per dedicare loro un inchino.
John sentiva di odiarlo. John odiava quell’uomo da quando, giovane ed inesperto, aveva diretto le cerimonie della prima edizione degli Hunger Games.
Strinse la mano di Sherlock, seduco acanto a lui al buio sul divano. Sherlock non disse nulla ma gliela strinse a sua volta.
Era la sera della discussione ufficiale sui Tributi insieme al Primo Stratega. Hamish doveva essere ancora sulla via per Londra in quel momento e in sole ventiquattro ore lo avrebbero trasformato in un fenomeno da baraccone, completo di vestiti stravaganti e lustrini, messo su di un carro trainato da cavalli e gli avrebbero fatto fare la Parata dei Tributi, prevista per la diretta la sera successiva.
E poi, dopo due settimane di allenamento individuale, nell’Arena.
Il dottore lasciò andare un sospiro tremulo. Sbollita la rabbia si sentiva in trappola, in un limbo fra l’incapacità e la tristezza che si trasformava in disperazione quando guardava la parte vuota del divano accanto a sé, dove solitamente si metteva Hamish. Un Governo sporco ed ingiusto aveva presto il suo bambino – avrebbe ucciso il suo bambino – e lui non poteva fare niente. Inutile.
Si sentiva inutile.
« Inutile... » sussurrò infatti.
Sherlock spostò l’attenzione dal televisore a lui.
« Inutile. Sono inutile » ripeté John.
« Come chiunque altro, John » rispose Sherlock, passando il pollice sul dorso della mano del marito. Non aveva mai saputo come consolare la gente – soprattutto John, che era sempre colui che consolava gli altri e non sembrava averne mai bisogno a sua volta – ma faceva del suo meglio per rendere almeno nota all’altro la sua presenza.
« Avevamo giurato di proteggerlo » continuò però Watson: « quando era piccolo e lo tenevamo in braccio; quando asciugavamo le sue lacrime e lo guardavamo sorridere... abbiamo giurato di proteggerlo, ed ora... ».
« Lo so » gli rispose Sherlock. « Lo so ».
Rimasero in silenzio mentre, in televisione, Caesar Flickerman mostrava alcuni spezzoni presi da edizioni precedenti dei giochi. Un ragazzo del Distretto 1 stava pugnalando ripetutamente al petto una ragazza del Distretto 7 nonostante fosse palese che fosse già morta.
Per un istante, John vide Hamish impugnare quel pugnale e chiuse di scatto gli occhi.
Hamish sarebbe morto. E per non morire avrebbe dovuto diventare un assassino ed uccidere sicuramente almeno una persona. Gli Hunger Games, insieme alla guerra, erano un ottimo espediente per trasformare i bambini in assassini e gli assassini in eroi.
E non c’era niente che potessero fare per fermare questa macabra giostra.
« Non tornerà più a casa, non è vero? » domandò spezzando il silenzio. « Per questo hai detto quelle parole, oggi pomeriggio. È un dato di fatto, giusto? ».
Sherlock non rispose.
Girando il capo in sua direzione, John osservò il marito, lo sguardo fermamente puntato al televisore. Era un’espressione che John non vedeva da tempo, da prima della Rivolta, da quando Sherlock attaccava appunti e foglietti con codici da decifrare allo specchio sopra al camino e passava nottate intere a fissarli e a pensare, passando mentalmente in rassegna ogni simbolo e codifica che conosceva, ogni stanza di quel Mind Palace di cui sembrava aver buttato via la chiave anni prima.
Era lo sguardo di una persona che ha la soluzione a portata di mano ma non riesce ad afferrarla. Oppure, di una persona che ha già trovato la suddetta soluzione ma che ne sta cercando altre, forse migliori.
John si era sempre sentito fuori dalla portata di quello sguardo. Ma quello non era il momento adatto perché Sherlock lo escludesse dai suoi pensieri.
« Sherlock? » chiamò John.
L’ex detective staccò gli occhi dal televisore e li portò in quelli del medico. Allungò poi una mano sulla sua guancia e, con un tocco leggero dato dall’esperienza, fece in modo di attirarlo a sé e lo baciò.
Le iniziative prese da Sherlock nei confronti del contatto fisico si potevano contare sulle dita di una mano. Non si poteva dire che non gli piacesse – era un amante straordinario – ma probabilmente preferiva che fosse John a fare il primo passo.
Fu questo a renderlo starno.
Sherlock lo baciò con dolcezza, accarezzandogli le labbra con la lingua come per chiedergli il permesso di approfondire il bacio, e quando John glielo concesse Sherlock mantenne un ritmo lento e delicato, rispettoso, sentito. Quello era un bacio per esprimergli il suo amore, simile a quello che si erano scambiati quando si erano sposati, ma questa volta aveva il retrogusto dell’addio.
Quando si separarono, John lo guardò dritto negli occhi.
« Tu hai un’idea » disse – non chiese: disse – aggrottando le sopracciglia. « Tu hai un’idea e non vuoi coinvolgermi » specificò.
Sherlock arricciò l’angolo destro delle labbra, ma era un sorriso triste. « Le tue capacità di osservazione sono migliorate » commentò, come a voler cambiare discorso.
« Non c’entra ‘osservazione, conosco quello sguardo. E se avessi potuto farlo mi avresti baciato così solo prima di buttarti da quel maledetto tetto. Ti sbagli se pensi che rimarrò indietro ancora una volta, con le mani in mano a marcire d’ansia, Sherlock Holmes. Ti sbagli » gli rispose in tono duro.
Sherlock strinse le labbra ed aggrottò le sopracciglia. « Non voglio che tu muoia ».
« Ma tu morirai ».
« È probabile » ammise Holmes.
John fece passare alcuni istanti di silenzio, in cui non smise mai di guardarlo negli occhi. « Questa volta per davvero, eh? Non è un’altra finzione... » domandò con un sorrisetto stentato e triste.
Sherlock si limitò ad annuire. « Per Hamish » disse solamente.
Per Hamish vale la pena dare la mia vita, sembravano dire i suoi occhi chiari.
John chiuse i suoi e sospirò. « Sei pazzo a pensare che io sia forte abbastanza per perdere mio figlio e mio marito senza crollare ».
« Lo sei ».
« No, non lo sono » ribatté John. « Motivo per cui mi metterai al corrente del tuo piano e mi ci includerai. Così come ho giurato di proteggere Hamish ho anche giurato di passare il resto della mia vita con te, ed è ciò che intendo fare ».
Sherlock lo osservò in silenzio per qualche secondo, poi distolse lo sguardo nell’unico segno di imbarazzo per quelle parole che avrebbe mostrato. John sorrise e poggiò velocemente le labbra su quelle del marito in un gesto d’incoraggiamento.
« Coraggio. Raccontami tutto ».
Stavano sorgendo le prime luci dell’alba quando John, indossando la sua vecchia divisa dell’esercito ed uno zaino mediamente pesante sulle spalle, chiuse la porta di casa a chiave. Sherlock, in piedi accanto a lui nel migliore dei suoi completi scuri, si sistemò meglio la borsa a tracolla ed il colletto del cappotto.
In silenzio, si guardarono.
Con un sorrisetto stentato, John alzò la mano sul cui palmo era appoggiata la chiave di casa. Probabilmente nessuno di loro avrebbe mai avuto il bisogno di usarla.
Sherlock la prese e, con un movimento elegante, la nascose dentro un mattone vuoto a destra dello stipite, il solito posto in cui la mettevano quando uscivano tutti e tre la casa rimaneva vuota.
Come sempre, pensò John. Abitudine, routine, quotidianità. Come se non ci stessimo dicendo addio, ma solo “arrivederci”.
Il dottore annuì in silenzio, sforzandosi per allargare il sorriso. Guardò Sherlock e non servì altro, solo gli occhi di suo marito nei suoi.
« Per Hamish » sussurrò Holmes.
« Per Hamish » rispose Watson.
Chiudendo gli occhi si voltarono e si incamminarono in direzioni opposte.