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Autore: Peppers    17/09/2013    2 recensioni
Dacia, 117 d.C.
Arinne vive in un piccolo villaggio celtico insieme al fratello Calaid. È una ragazza semplice ma possiede un dono molto particolare: è stata scelta dalla Dea Persefone, la Regina dei Morti.
Ceylon è un elfo della città di Uran. È un potente guerriero, un veterano di mille battaglie noto come Cane Nero. Insieme a Laslie, giovane sacerdotessa della Dea Varghas, Ceylon si imbatte casualmente in un’antica stele incisa.
È l’inizio di una spirale di eventi che inghiottirà i quattro personaggi, portandoli faccia a faccia con antichi miti, verità inenarrabili e segreti proibiti.
«Sbagliate a pensare che i sogni siano solo illusioni» aveva sentito dire molti anni indietro ad una sacerdotessa. «Il corpo non è che un riflesso dello spirito. Chiamate realtà la vostra casa, l’armatura, le armi e i gioielli. Tutto ciò non è che un velo fuggevole posto davanti ai vostri occhi. La realtà autentica sta aldilà di ciò che potete scorgere con i sensi. Prestate fede a queste parole e vi saranno aperte le porte al mondo della Dea Varghas. Solo allora sarete in grado di fare ciò che ci rende Elfi Onirici: potrete allenare la vostra mente e, con essa, anche il vostro corpo si irrobustirà.»
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Soundtrack consigliata : http://www.youtube.com/watch?v=dOibtqWo6z4
 
 
La capanna era troppo grande per l’unica famiglia che vi abitava. A giudicare dall’odore e dagli escrementi gran parte dello spazio doveva essere destinato agli animali, ma con le bestie al pascolo quel tugurio risultava desolante, sensazione rafforzata dal mobilio scadente ed essenziale. Calaid era ben lieto di occuparne solo un piccolo angolo: rannicchiato su un pagliericcio asciutto, mascherava il proprio disagio osservando una donna corpulenta intenta a tessere. Benché avessero perso la grazia della gioventù, le mani callose si muovevano con esperienza tra i fili di lana tesi al telaio. Il fuso scivolava con un movimento lento e regolare, tessendo una trama a motivi geometrici. Accortasi che Calaid la stava guardando, il faccione della donna si aprì in un sorriso che disegnò due piccole fossette agli angoli della bocca.
«Hai fame?» chiese senza interrompere il proprio lavoro. «Vuoi qualcosa da mangiare?»
«Grazie, signora Dehin»
Calaid chinò rispettosamente il capo, ma in verità si sentiva affamato come un lupo. Si limitava ad accettare il cibo che gli veniva offerto solo nel timore di abusare dell’ospitalità di quella gentile famiglia celtica. Nonostante tutte le buone intenzioni, i segni della fame trapelavano in modo inequivocabile dallo sguardo opaco e la guance lievemente incavate. La febbre delirante che lo aveva colto nell’ultima settimana lo aveva lasciato in bilico fra la vita e la morte, prosciugandone gran parte delle forze: se si trovava ancora su questa terra, lo doveva a una buone di fortuna e – soprattutto – alla donna che adesso gli offriva una ciotola di latte speziato. La signora Dehin avvicinò l’orlo della scodella e Calaid ne tracannò con ingordigia il contenuto.
«Piano, o rischi di soffocare»
«Il vostro latte è speciale» si giustificò il giovane celta, affrettandosi ad asciugare le labbra con il dorso della mano.
«Il segreto sta nelle erbe aggiunte». Inorgoglita dal complimento, la signora Dehin sfoggiò un altro dei suoi sorrisi solari. «È una ricetta di mia madre».
Aveva occhi grandi e limpidi; non fosse stato per la sincerità che vi scorgeva, Calaid avrebbe bollato ogni parola che gli aveva raccontato come un tentativo di assicurarsi la propria gratitudine. Invece non dubitava della veridicità di quella storia, ancor più perché si sposava in modo plausibile con certi dettagli che riusciva a ricordare: pochi giorni prima Amhu, la figlia dei Dehin, sorvegliando il proprio gregge lo aveva scorto privo di sensi sulla riva di un fiume. Probabilmente, dopo lo scontro a Piatra Carvii, era stato trascinato dalla corrente per diverse miglia a sud, oltre i confini della terra celtica all’interno dell’Impero Romano. Era un miracolo che non fosse annegato, o che qualche masso non gli avesse frantumato il cranio. Spinta dalle condizioni drammatiche, Amhu lo aveva condotto sul dorso di un montone fino ad Apulum, dove la propria famiglia viveva e si stava prendendo cura di lui.
«Le ferite alla schiena sono quasi guarite»
La signora Dehin era compiaciuta dei progressi della guarigione. Ma per quanto veloce potesse sembrare alla vecchia donna, Calaid aveva l’impressione che il tempo scorresse con esasperante lentezza.
«Te ne sorprendi, forse?».
Dall’alto del suo sgabello, circondato da trucioli di legno, il signor Dehin lanciò una occhiata distratta a Calaid, diede un colpo di tosse e tornò a concentrarsi sul ceppo di legno che stava intagliando.
«Alla sua età» proseguì con tono acidulo, «chiunque guarirebbe in fretta».
«Un mal di reni». La signora Dehin accennò al marito che lavorava curvo con una pazienza che al giovane sembrava eccessiva. «Finché non guarirà, non può più fare alcuno sforzo fisico».
«Se mai guarirò»
A guardare l’aspetto del vecchio celta, Calaid comprendeva perfettamente la sua sfiducia negli impiastri della moglie: era slanciato ma eccessivamente magro, e la sua pelle aveva chiazze giallastre. Del possente aspetto che certamente aveva avuto in passato, rimaneva solo uno sguardo severo e determinato. Eppure, pensò il giovane, si trovavano in territorio romano: scovare un buon guaritore non doveva essere poi così difficile.
«Avete provato con un dottore?» disse Calaid, memore delle storie prodigiose che aveva udito nei suoi viaggi.
«Non mi lascerò mettere le mani addosso da uno stregone romano»
Il signor Dehin sbottò in una lunga serie di imprecazioni, mentre la moglie sorrideva imbarazzata. Il vecchio doveva essere uno di quei celti insofferenti alla presenza romana: Hyrem sarebbe stata entusiasta di conoscerlo. La signora Dehin si chinò a raccogliere una manciata di trucioli dal pavimento e li mise nel braciere, agitando un rozzo ventaglio di stecche di legno e stracci per ravvivare le braci.
La mattina stava lentamente sfumando nel mezzodì. Calaid osservò che, per quanto ampia, la capanna non era fredda, il calore doveva rientrava nel ciclo di cure che la donna gli stava impartendo. Il Signor Dehin strinse le labbra, arricciando i lunghi baffi che spiovevano sotto il naso prominente: un’indubbia espressione di malumore, che Calaid imputò un po’ alla discussione appena conclusa, un po’ allo spreco di preziose risorse della famiglia. I Dehin rasentavano la povertà e non avevano mai accennato a una ricompensa per ciò che stavano facendo. Non che il giovane celta avesse enormi mezzi con cui ripagare le cure, ora che la fattoria di Piatra Carvii era stata spazzata via.
Piatra Carvii.
Un nodo strinse la gola di Calaid. Dov’era in quel momento Arinne? La sorella era una ragazza, una bella ragazza, ma con lo spirito di una bambina. Se anche fosse riuscita a salvarsi dai persecutori, non sarebbe durata a lungo da sola. Non era in grado di cacciare, era Calaid che procurava il cibo. Non era nemmeno capace a costruirsi un riparo per la notte, era Calaid che si occupava dei lavori della casa. Nessuna delle prospettive che gli venivano in mente erano piacevoli e tutte confluivano in un unico pressante pensiero: la necessità di rimettersi in azione.
Il giovane fabbro sapeva di essere ancora troppo debole per riprendere a camminare, ma rammentava anche di non poter attendere per sempre. Ogni giorno che passava dai Dehin, era un giorno che sottraeva alla ricerca della sorella. Quel riposo forzato lo rendendo irrequieto,  avvilendolo fino allo stremo. Al costo di una fitta di dolore si girò su un fianco e passò il dito sul pavimento in terra battuta della capanna, cercando di disegnare il volto di Arinne.
«Signora Dehin, quanto tempo pensa ci vorrà prima che riesca a mettermi in sesto?»
La donna si trovava ora di fronte a un tavolo ingombro di statuette intagliate, attrezzi da falegname, tegami in terracotta e fasci di erbe. Avvicinò a sé un mortaio di pietra, vi pose delle ossa di pollo sul fondo e prese a frantumarle col pestello.
«A voler essere ottimisti, almeno un mese»
 Quella constatazione non lo rallegrò.
«Suvvia Calaid, non fare quella faccia». La signora Dehin aggiunse alle ossa frantumate una manciata di erbe, poi versò un poco d’acqua. Lavorò il miscuglio direttamente con le dita, fino a ricavarne un impasto con la giusta consistenza. «Impara a rispettare i tempi del tuo corpo, hai subìto gran brutte ferite».
L’anziana donna gli si avvicinò, svolse le bende che fasciavano le gambe e ripulì il sangue con uno straccio.
«L’acqua continua a scorrere e il sole sorge ogni mattina» mormorò Calaid, fissando la pelle gonfia e segnata da numerose escoriazioni. «Potrei non avere il tempo che lei mi chiede, signora Dehin»
Con mano esperta, la donna celtica spalmò l’impiastro sulle ferite. Il ragazzo fece una smorfia: i tagli bruciavano come fossero stati cauterizzati con un ferro rovente.
«Sei il benvenuto fra noi, Calaid» lo rassicurò la Signora Dehin, bendandolo con delle fasce pulite. «Non sentirti in dovere di lasciare questa casa, ormai sei ...»
«Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per tutto ciò» la interruppe Calaid.
Fissava la parete di legno di fronte a sé, cercando le parole più adeguate per esprimere il tormento che lo dilaniava. Fin’ora aveva preferito tacere sui reali motivi per cui si trovava lì; per quanto inverosimile, nessuno sembrava dubitare delle frottole che aveva raccontato sulla caduta accidentale nel fiume. Adesso tuttavia giudicò necessario rivelare la verità: una parte di sé sperava che, in qualche modo, potesse contare sull’aiuto dei Dehin.
«La notte in cui precipitai nel fiume, il nostro villaggio fu attaccato dai nemici. Diedero alle fiamme le nostre capanne e devastarono il raccolto. Fecero prigionieri gran parte di noi».
Il Signor Dehin interruppe il proprio lavoro, una mano poggiata sui calzoni di tela l’altra a lisciarsi i baffi.
«Caddi nel fiume lottando per la libertà, ma non ero solo. C’era anche mia sorella. Da quella notte non ho più notizie di lei».
La signora si rialzò lentamente, per nulla sorpresa dal resoconto. Anche il marito non batté ciglio, limitandosi a sfregarsi il naso.
«Il mio cuore scalpita, questa lenta convalescenza per me è una reclusione» disse Calaid e, prima che riuscisse a controllarsi, un fremito nervoso fece vibrare le sue labbra. «Voglio soltanto andare via».
Nel silenzio che seguì il giovane intuiva che probabilmente la coppia celtica aveva già capito tutto. In fondo la Dacia era piena di storie come la sua anche se, doveva ammettere, i Dehin lo avevano trattato con molta gentilezza. Cailaid non era mai stato irriconoscente, tanto meno egoista. Quasi immediatamente, di fronte alle parole imbarazzate con cui la donna espresse il proprio rammarico, si pentì del tono brusco con cui aveva parlato. Qualsiasi fosse il motivo della loro attenzione, tuttavia, i Dehin sembrarono accantonarlo di fronte alla necessità dei fatti. Il senso di rimorso si fece più forte per pranzo, quando la signora Dehin, lavorando senza l’abituale entusiasmo, servì tre porzioni di una succulenta minestra di farro e legumi.
«Nessuna coorte romana ha lasciato Apulum nelle ultime settimane» disse il signor Dehin, porgendogli la scodella fumante. Contro ogni aspettativa il taciturno artigiano celtico sembrava in vena di chiarimenti.
«Non ho mai detto si trattasse di soldati romani».
Calaid portò alla bocca il cucchiaio, masticando lentamente il cibo. Qualcosa del viso del signor Dehin, gli ricordava il padre. Forse gli stessi baffi portati alla maniera celtica, forse l’abitudine di andare dritto al punto delle conversazioni.
«Riesci a muoverle?»
Il vecchio fece un cenno alle gambe con un’espressione di pensierosa attenzione. Puntellandosi sui gomiti, Calaid scoprì di poter sgranchire le dita senza alcuno sforzo. Era un buon inizio. Lentamente sollevò una gamba poi, tremando per lo sforzo, mosse anche l’altra. Serrò la mascella per non cedere al dolore.
«Basta così» lo interruppe il signor Dehin. «Più tardi ti aiuterò a fare degli esercizi. Sei giovane e forte: in breve riuscirai a tenerti in piedi da solo, a giorni camminerai e fra una settimana sarai fuori di qui».
Senza attendere una risposta, il vecchio artigiano si allontanò. Tossì piegandosi leggermente su se stesso e sedette al tavolo con la moglie, che consumava il proprio pasto volgendo le spalle a Calaid. Aveva ottenuto ciò che desiderava, accelerare la guarigione e riprendere le ricerche, eppure la vista dei Dehin, raccolti uno a fianco dell’altro dalla parte opposta della capanna, gli sferzò il cuore.
Nel pomeriggio il vecchio si distese su una pelle di daino consunta, cadendo immediatamente in un sonno pesante. Calaid, invece, non riuscì a chiudere occhio. Lo scalpiccio della gente in transito per la città romana gli impedì di andare oltre uno sfibrante dormiveglia: udiva stralci di conversazioni insignificanti, il nitrito di cavalli lanciati al galoppo e persino lo sferragliare di una formazioni di soldati. Il signor Dehin, poi, ronfava troppo pesantemente. Per non parlare della moglie; proprio in quel momento doveva mettersi a lavare i panni? Dalla bassa tinozza, un rivoltante odore di urina si spanse per l’intera capanna. Di tanto in tanto l’anziana signora azzardava occhiate interrogative in direzione di Calaid, che finse di non accorgersene, voltandosi contrariato verso la finestra: rinunciò a dormire. Rimase disteso, con una pagliuzza fra i denti, osservando rassegnato le nuvole rincorrersi sullo sfondo nitido del cielo.
Con l’approssimarsi del crepuscolo, si udì l’eco di uno scampanellio farsi sempre più vicino: Amhu e il suo gregge stavano tornando a casa. Alla porta della capanna, la Signora Dehin mostrava una gioia impaziente. Si scostò quanto bastava a far entrare in lenta processione pecore, capre e montoni, poi inghiottì la figlia in un caloroso abbraccio. Amhu mostrò un imbarazzo che in realtà non provava. Quelle eccessive dimostrazioni da affetto le facevano piacere perché era poco più di una bambina. Dopo essere sfuggita alla madre, corse dal padre. Si mise in punta di piedi, poggiandogli un delicato bacio sulla guancia. Appoggiò al muro il ramo nodoso che usava come bastone per governare il gregge e si voltò con una curiosità affamata verso l’angolo in cui sapeva di trovare Calaid.
La piccola Dehin era ancora troppo giovane per potersi definire una bella ragazza. Portava i capelli corti, tagliati in modo sbarazzino secondo un’acconciatura maschile, e indossava una veste lanuginosa troppo grande, che non riusciva a nascondere né la corporatura acerba, né il lezzo di stalla di cui, inevitabilmente, era impregnata.
«Oggi ti senti meglio, Ta’anih?» chiese impaziente, sedendosi di fronte a Calaid.
I suoi occhi brillavano luminosi, non lasciando dubbi sui sentimenti che si dibattevano nel suo giovane petto. Calaid era certo che, da quando aveva lasciato la casa all’alba, Amhu non aveva fatto che sognare il momento in cui sarebbe tornata.
«Un po’ meglio, grazie» rispose, stringendosi nelle spalle.
Si nascose dietro un sorriso forzato, attento a non dare alcuna inclinazione particolare alla propria voce. Se da una parte temeva di lasciar trapelare la propria insofferenza per la pastorella, dall’altra non poteva correre il rischio di alimentare i suoi sogni. Non si trattava solo del suo odore, o comunque non solo di quello. Era il pensiero di dover la vita a una bambina sempliciotta che lo faceva sentire odiosamente incapace. Ancor più perché Amhu sembrava fregiarsi di ingenue pretese: non lo chiamava mai per nome, preferendo l’appellativo Ta’anih, Dono del Fiume. Un paio di volte Calaid aveva provato a sradicare quell’abitudine con lunghi giri di parole. Ma erano discorsi troppo complicati perché Amhu potesse capire, per cui abbandonò l’impresa, lasciandola sospirare quello stupido titolo con aria sognante.  
«Ho una cosa per te, Ta’anih» disse la ragazza, mettendo in mostra i pugni chiusi.
Dopo aver atteso qualche secondo, aprì le mani rivelando una pietra piatta e incisa. Era un sasso dall’insolita sfumatura verde, in cui due amanti avevano inciso i propri nomi all’interno di un cuore.
«Non dovevi disturbarti per me, Amhu»
«L’ho trovato sul fondo di un ruscello» proseguì, studiando attentamente la reazione del giovane celta. «È una pietra rara, ti porterà fortuna».
Calaid non dubitava delle proprietà magiche della pietra, ma era anche certo che Amhu avesse scelto quel particolare sasso in virtù delle incisioni. Ovviamente non era in grado di leggerle, per cui non poteva sapere che quei nomi appartenevano a una coppia che in quel momento viveva chissà dove. Nella sua infantile convinzione, doveva aver creduto che gli Dei stessi avessero inciso sulla pietra l’amore che lo legava a lei. Un gesto tutto sommato carino, peccato che fosse proprio lui al centro delle inopportune attenzioni di Amhu.
«Sembra di buon auspicio» disse lucidando la superficie levigata del sasso con un lembo della veste. Rigirò ancora la pietra fra le dita, fingendo interesse, poi la pose nel mucchio di altri banali oggetti che Amhu gli aveva regalato: il manico ossidato di un pentola in bronzo, il frammento di una brocca dipinta secondo lo stile greco e una lunga serie di fiori di cui aveva inventato i nomi.
«Hai passato una giornata interessante?» le chiese, cercando di sviare alla svelta il discorso. Fu un brillante successo: in pochi secondi Amhu era balzata in piedi e aveva già dimenticato la pietra.
«C’è una cosa che devo assolutamente raccontarti, Ta’anih» iniziò, accalorandosi nella descrizione di come era riuscita a recuperare un agnellino che si era separato dal gregge. Il racconto andò per le lunghe e Calaid, che non riuscì a reprimere uno sbadiglio, si pentì di averle posto quella domanda. Passò un tempo angosciosamente lungo, prima che il signor Dehin interrompesse la figlia.
«Basta così, piccola»
Il vecchio celta non era cieco di fronte all’abbagliante predilezione che la figlia mostrava all’ospite, anche se Calaid sospettava che avesse ormai fiutato il proprio disinteresse in quella faccenda. Se non altro, aveva il buon senso di lasciar evolvere l’infatuazione di Amhu, cercando cautamente di smorzarla.
«Perché papà?»
«Dobbiamo aiutare Calaid a far fare due passi»
 Il viso della pastorella si illuminò per la straordinaria novità, anche se ignorava che la guarigione avrebbe portato il giovane fabbro ben lontano da Apulum. Sostenuto dal signor Dehin e dalla figlia, Calaid si mise in piedi provando un irreale senso di vertigine.
«Un passo alla volta» lo incoraggio il falegname.
«Avanti, ce la farai Ta’anih»
Calaid annuì con vigore e mosse i primi passi sotto lo sguardo ansioso della signora Dehin. Percorse in maniera incerta l’intera lunghezza della capanna, con la sensazione di avere le gambe intorpidite. Riuscendo a compiere tre volte il perimetro interno della costruzione, iniziò a nutrire fiducia nelle prospettive di guarigione.
«Lasciate che provi da solo» disse con feroce determinazione, puntando la parte opposta della casa, verso il recinto entro cui erano stati stipati gli animali.
«Nemmeno per sogno, Calaid! Non puoi affatic...»
La signora Dehin, con le mani ai fianchi, stava lanciandosi in una protesta, ma l’indice del marito la richiamò al silenzio.
«Ce la farà» disse il vecchio celta, con un cenno di intesa. «Sei pronto, ragazzo?».
Calaid chiamò a raccolta tutte le proprie forze. Che il signor Dehin condividesse la sua stessa fiducia era un forte stimolo per tentare di percorrere il breve tratto che lo divideva dal recinto. Cosa potevano essere due metri, per lui che aveva percorso così tante miglia trascinato dalla corrente? Si svincolò dalle braccia di Amhu e del padre, lanciandosi in avanti. Al primo passo era certo che ce l’avrebbe fatta;  al secondo, accusò una fitta appena sopra la caviglia; al terzo perse l’equilibrio. Il quarto non fu compiuto.
«Ta’anih
La voce bianca della pastorella prese la forma di un urlo, mentre il giovane celta stramazzava sul pavimento. Quella non era fiducia, pensò Calaid, scosso dalla rabbia. Il signor Dhein sapeva che non poteva farcela. Strinse la terra fra i pugni, con gli occhi chiusi e la fronte nella polvere. Lui sapeva e, per di più, avrebbe potuto afferrarlo durante la caduta. Invece no, era rimasto immobile come una statua. Gli occhi del vecchio lo avevano guardato con severo distacco, lasciando che la propria superbia gli insegnasse una lezione che lui rifiutava di accettare.
«Ti sei fatto male, Ta’anih
Amhu si stava lanciata sul caduto, ma il padre la bloccò con un gesto del braccio. Calaid grugnì e strisciò in avanti mordendosi le labbra. Avrebbe dimostrato di cosa era capace, lui. Come poteva ritrovare Arinne, se non riusciva a raggiungere il recinto? Gemette ma non desisté. Come poteva scovare Cane Nero se non riusciva a raggiungere il recinto? Si issò in piedi a fatica, aggrappandosi ai pali di legno che formavano lo steccato. Cane Nero. In qualche modo sentiva che i loro sentieri doveva incrociarsi ancora una volta. Che fosse per liberare la sorella o solo per reclamare vendetta, si sarebbero rincontrati. Ansimava per lo sforzo e aveva la fronte madida di sudore, ma non provò la gratificazione che aveva sperato. Al contrario, la delusione sfumò un’amara frustrazione. Si lasciò scivolare per terra e nascose il viso fra le mani. Piangeva, accusandosi del fallimento della fuga di Piatra Carvii. Singhiozzava, ammettendo a se stesso la paura di Cane Nero.
«Non abbatterti, Calaid»
La signora Dehin lo sollevò con tutta la dolcezza di una madre, mentre Amhu gli si avvinghiava al braccio, con gli occhi lucidi e il volto arrossato.
«Hai fatto più di quanto di quanto avrei scommesso, ragazzo» borbottò il signor Dehin, accompagnandolo a una sedia. Nonostante la freddezza delle sue parole, Calaid riconosceva negli occhi del vecchio il rispetto per quell’ostinazione tipicamente celtica.
Sedettero attorno a un tavolo, consumando una cena a base di pane, olive e formaggio. Durante il pasto i Dehin parlarono poco, scambiandosi occhiate impazienti: evidentemente aspettavano che fosse Calaid a spezzare il silenzio, ma il ragazzo non era in vena di condividere i propri pensieri. Finita la cena, rimase a sorseggiare del pessimo vino diluito con acqua.
«Ho voglia di sentire il vento» disse infine, alzando gli occhi verso il resto della famiglia.
Il signor Dehin ratificò il suo assenso con un verso simile a un muggito, mentre la moglie non sembrava per niente d’accordo con quell’ulteriore sforzo fisico.
«Avanti mamma» insisté Amhu, col viso appoggiato alle mani. «È da giorni che Ta’anih non esce dalla capanna».
Convinta dall’insistenza della figlia, la signora Dehin aiutò Calaid a fare una passeggiata appena fuori dalla capanna. La notte era fredda e la luna brillava sulla collina simile a un medaglione spezzato. Da lontano giungeva il rumore di un ruscello, a cui si sovrapponeva il trillo dei grilli nascosti fra gli alberi. La baracca dei Dehin sorgeva accanto a un piccolo orto, lungo la via principale che conduceva ad Apulum. Ai lati della strada, Calaid scorse innumerevoli capanne: alcune rivestite di argilla essiccata, altre costruite con tronchi sovrapposti e incastrati, ma tutte portavano i segni della tipica architettura celtica. Le finestre, rischiarate dalle lucerne, si aprivano a scorci di vita familiare. Volti a lui ignoti parlavano, ridevano, mangiavano, intonavano canti e suonavano strumenti musicali. Nonostante la fascia più povera della popolazione fosse costretta a vivere al di fuori delle mura della città, Calaid ne invidiava la mite tranquillità delle loro serate.
A un centinaio di metri da dove si trovavano, le sagome scure di alcuni carri si inerpicavano in alto, oltrepassando un ponte di legno che sovrastava un fossato. Imprecazioni in un latino dal forte accento greco, rivelavano la provenienza e la natura della consegna: erano carri di grano, indispensabili per rifornire i magazzini imperiali di un gigante come Apulum. Oltre il fossato e il terrapieno con la palizzata in legno, si scorgevano i tetti delle prime case della città. Calaid immaginò che si dovessero trattare di costruzioni in muratura ben diverse dalle fatiscenti capanne che lo circondavano. In fondo, Apulum non era diversa dalle tipiche città dell’Impero. A sentire la signora Dehin, lì abitavano la gente più ricca: mercanti, soldati, ricche famiglie patrizie ma anche gruppi di celti romanizzati. Ancora più in alto, un possente muro di pietra cingeva la sommità della collina, stagliandosi contro la luna come una maestosa corona. Il signor Dehin spiegò con orgoglio che si trattava delle difese dell’originaria fortezza celtica poi, con tono risentito, aveva descritto come i romani vi avessero insediato gli uffici governativi.
«Hanno usurpato la nostra collina, crogiolandosi sulla fatiche dei nostri padri» sussurrò a mezza voce, assicurandosi che nessuna guardia avesse udito.
«L’ultima volta che sono venuto ad Apulum, era poco più che un borgo di provincia» disse Calaid, respirando a pieni polmoni la fresca aria della notte.
«Non ci hai mai detto che conoscevi Apulum, Ta’anih»
Amhu si era arrampicata sul ramo più basso di una quercia e faceva ciondolare i piedi nudi avanti e indietro.
«È  stato parecchi anni fa, quando stavo per arruolarmi nella legione»
«Sei stato un soldato?»
Dal tono della voce, la signora Dehin sembrava sorpresa dalla notizia. Il marito invece espresse il proprio disappunto con uno sputo indignato.
«Dovevo far parte di un’unità di soldati ausiliari: per lo più ragazzi celti provenienti dalle mie parti e attratti dalla promessa della cittadinanza romana»
«Vili traditori» puntualizzò il signor Dehin, ma Calaid non badò al commento.
«Avevo appena completato l’addestramento e si parlava di un possibile trasferimento nella frontiera dell’alto Reno»
La spiegazione si attenuò in un silenzio, che Amhu si affrettò a spezzare.
«E poi?»
«Prima che partissi, arrivarono nuove reclute. Alcuni di loro erano vecchie amicizie di infanzia, mi riferirono che i miei genitori erano morti e fui costretto a tornare a Piatra Carvii: non potevo lasciare sola mia sorella»
«Se proprio avevi voglia di combattere, potevi farlo nella tua terra»
Il signor Dehin drizzò la schiena fissando oltre il ruscello l’orizzonte a nord.
«Da noi non esiste un esercito stabile e la paga, quando arriva, consiste nel semplice bottino di guerra. Qui nell’Impero è diverso, i soldati sono retribuiti ogni mese. Ci pensai su, ma alla fine  decisi di abbandonare la carriera militare, preferendo l’arte del fabbro».
Naturalmente sopra ogni ragione economica, era stata l’idea di prendersi cura di Arinne a convincerlo ad impugnare tenaglie e martelli, ma preferì non farne parola, custodendo gelosamente per sé i segreti più intimi della propria vita familiare. Rimasero a parlare ancora un po’, finché il freddo pungente della notte li costrinse a rientrare. Il signor Dehin mise la barra alla porta, mentre la moglie si preparava a dormire. Amhu si avvicinò al pagliericcio di Calaid alla luce di una piccola lucerna: doveva ancora avere una gran voglia di parlare, ma il ragazzo non assecondò le sue curiosità, così si rassegnò ad augurargli una buona notte.
L’intera famiglia scivolò nel sonno e l’unico rumore della casa fu lo sporadico belare di una pecora nel recinto e il fruscio del vento fra la paglia del tetto. Calaid sentiva il sonno premere sulle proprie ciglia. Ripensò al passato, a quanto aveva raccontato alla famiglia Dehin, e si proiettò nel futuro, immaginando di riabbracciare la sorella. La lunga chiacchierata aveva scalzato i cattivi pensieri: era tornato di nuovo fiducioso e determinato a rimettersi in forze. Aveva una missione e l’avrebbe compiuta a costo della propria vita. Lo giurò muovendo impercettibilmente le labbra, poi gli occhi si chiusero e gli spiriti della notte vennero a vegliare su di lui.



 L’ANGOLO DEL BARDO:
La fine di questo capitolo sfiora un totale di 50 pag di word, sancendo l’Oniricon come la storia più lunga che io abbia mai scritto *-* a proposito, devo rettificare i ringraziamenti fatti nell’aggiornamento passato. Ho ringraziato tutti, eccetto una persona che ( volente o nolente ) è costretta a sopportarmi tutto il giorno. Sto parlando di mia sorella, i cui frequenti confronti portano sempre qualcosa di buono
Ok, ora che ho sventato una crisi familiare, possiamo passare al testo. Non è un mistero che io scriva con la musica nelle orecchie ma, a volte, si incappa in melodie così particolari che non si può fare a meno di identificarle con dei personaggi ben precisi. È da quando ho abbozzato la trama dell’Oniricon che nella canzone dei Metallica che vi ho proposto ho sentito battere il cuore di Calaid, della sua ostinata perseveranza, della sua miseria, delle sue paure e dei suoi sogni. Da qualche parte nei miei appunti avevo scribacchiato il titolo della canzone, etichettandolo come “Calaid theme” eheh, ho altre sorprese in serbo da questo punto di vista, ma le tengo ben nascoste nella mia valigia! Spero che vi sia piaciuto il lungo aggiornamento, a presto
PepperS
Ps. Ormai non c’è più bisogno di dirlo, sotto trovate la mappa con l’esatta posizione di Apulum.




   
 
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