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Autore: Beatrix Bonnie    22/09/2013    2 recensioni
-Seguito de Il torneo Trecolonie-
Edmund, ormai figlio adottivo del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda, si lascia alle spalle il suo passato, per diventare Edmund McPride, un giovane ambizioso, bello e pieno di talento. Ma presto dovrà fare i conti con la realtà: l'uomo in cui ha riposto la sua fiducia si rivelerà essere un meschino arrivista, mentre il suo passato verrà a bussargli alla porta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Un misterioso orologio d'oro con le lancette ferme, una setta di folli scienziati, un codice impossibile da decifrare...
Ma quando, tra il clima di terrore e le sconvolgenti rivelazioni sul suo passato, Edmund non riuscirà più a vedere la luce, nel suo orizzonte si staglierà l'unica cosa certa: l'amicizia di Mairead e Laughlin.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 26
Una nuova alba






Nessuno dei ragazzi aveva mai volato su un tappeto magico. Faonteroy informò loro che per forza nessuno ci aveva mai volato, perché in buona parte dell'Europa erano stati dichiarati illegali per il fatto che mettevano a rischio la segretezza del mondo magico. Se un Babbano della Siria o dell'Egitto avesse visto un tappeto volante, probabilmente avrebbe attribuito il fatto ad un'allucinazione causata dal caldo del deserto. Ma difficilmente un Babbano della Svezia avrebbe pensato la stessa scusa.
In realtà, il saccente sfoggio di cultura di Faonteroy era il suo modo di rispondere al pericolo appena scampato, per cui nessuno gli diede troppo ascolto. Erano tutti troppo impegnati a ringraziare il cielo di essere ancora vivi, o a lagnarsi di quanto sarebbero stati sgridati dalla madre per via del Bordone Magico spezzato, o a guidare il tappeto volante senza investire qualche uccello, o a indicare eccitati il panorama che scorreva sotto i loro occhi. Dal momento che Mairead aveva puntato verso nord-ovest, seguendo un po' le indicazioni di Dominique (che sembrava quello più presente alla situazione), un po' il suo innato senso dell'orientamento, erano giunti vicino ad una spiaggia e ora stavano attraversando un immenso prato di acqua. E Dominique sperava vivamente fosse il Mediterraneo. Il tappeto volante viaggiava ad una velocità incredibile, se veniva spinto al massimo; tuttavia doveva avere un qualche incantesimo di protezione dal vento, perché i ragazzi non sentivano altro che una leggera brezza che accarezzava loro il volto.
Solo due viaggiatori se ne restavano taciturni sul fondo dell'improvvisato mezzo di trasporto: Melita, silenziosa, con gli occhi arrossati di pianto e le mani strette a pugno; e Edmund, troppo turbato da tutto ciò che era accaduto quella notte per prestare attenzione all'incredibile viaggio.
Fu Melita a interrompere il silenzio. «Edmund.» Era la prima volta che lo chiamava per nome. «Non ha senso che venga con voi.»
Edmund trattenne il respiro. «Ma, i Mangiamorte...»
«Non tornerò a Petra, ma non ha nemmeno senso che venga con voi.» Melita scosse la testa come per far capire che il discorso era concluso. Edmund sospirò, ma chiese gentilmente a Mairead di atterrare, non appena ne avesse avuto la possibilità. Lei gli lanciò uno sguardo a metà tra lo scocciato e il perplesso, ma alla fine annuì.
Nonostante la loro velocità, ci volle quasi un'ora per raggiungere la terraferma, da un lato perché il mare che avevano attraversato sembrava non finire più, dall'altro perché Mairead aveva incontrato una corrente d'aria che l'aveva obbligata a puntare prima verso ovest e poi verso nord. Quando finalmente trovò un punto lontano dai Babbani dove poter atterrare con sicurezza, non aveva la più pallida idea di dove fossero. L'unica loro fortuna era stata che, avendo viaggiato verso ovest, dovunque fosse il posto dov'erano giunti, lì il sole stava ancora sorgendo.
Melita scese per prima, seguita dagli occhi di tutti i ragazzi del Trinity, che si chiedevano chi fosse e che cosa avesse a che fare con Edmund. Quest'ultimo la seguì a ruota, sentendosi a sua volta un po' osservato. Cercando di ignorare le tacite domande dei suoi amici, raggiunse Melita, che si era fermata a fianco di un ulivo e osservava i primi raggi del sole che bucavano l'orizzonte.
Edmund si sentì in dovere di dire qualcosa. «Mi dispiace per tuo padre» gli uscì spontaneo, nel tentativo di consolarla.
Melita indurì la mascella e lo sguardo. «Tu non puoi capire. Non hai mai avuto un padre.» Nonostante la tiepida aria mattutina, scese un velo di ghiaccio tra loro, spesso e impenetrabile.
Anche Edmund si irrigidì. «Non per mia scelta» fu la sua secca risposta. Cosa era successo alla dolce bambina Melita che aveva visto nel ricordo? Che motivo aveva per essere tanto glaciale con lui?
Melita si voltò di scatto a guardarlo, gli occhi azzurri due schegge di ghiaccio. «Nessuno nasce per sua scelta. Ma tu... una scelta mio padre ce l'aveva: mi sono chiesta mille volte perché non ti abbia ucciso il giorno in cui sei venuto al mondo.»
Edmund ricevette come un pungo sul costato, proprio all'altezza del cuore. Sentì perfino il fiato mozzarglisi in gola. La sua bocca si aprì, per gridare che era stata lei a salvarlo, ma le parole non vollero sapere di uscirgli. Rimase lì a boccheggiare come un idiota, gli occhi rivolti a terra, mentre Melita irrigidiva il volto, le mani, lo sguardo.
Ho ragione, sembrava voler dire. Saresti dovuto morire quel giorno.
Anche Edmund aveva pensato che sarebbe stato meglio morire il giorno stesso in cui era venuto al mondo. Ma ora non lo pensava più. Perché c'era stato qualcosa di buono, nella sua vita, che la rendeva degna di essere vissuta: i suoi amici, tanto per cominciare, che erano venuti fino a Petra per salvarlo; e il Trinity, il poter imparare tante cose, la sua biblioteca, i professori. Perfino il sole che stava sorgendo in quel momento era qualcosa per cui valeva la pena vivere.
Inoltre, McFarren gli aveva come affidato una missione prima di morire: continuare i suoi studi sulla Mela d'Oro, scoprire dove fosse e recuperarla per spezzare la sua maledizione. Poteva farcela. Ce l'avrebbe fatta.
Edmund rialzò gli occhi su di lei, sereno. Sorrise. «Tuo padre non mi ha ucciso perché tu gli hai chiesto di non farlo.»
Melita sgranò gli occhi, come se d'improvviso avesse ricordato un episodio appartenuto ad un passato lontano. Sotto i suoi occhi si disegnò una scena, come una vecchia pellicola sbiadita: una bambina che supplicava il padre di non gettare un fagotto frignante giù da una scogliera.
E d'improvviso Melita nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere.
Edmund non seppe come comportarsi, perché non aveva avuto alcuna intenzione di ferirla. Ma, per fortuna, dopo qualche secondo lei si riprese e tornò a fissarlo con intensità. Ora i suoi occhi arrossati erano vivi, pieni di mille emozioni e nuovamente espressivi come quelli della bambina Melita.
«Mi dispiace di tutto» sussurrò piena di rimorso. «Ho passato la mia vita ad odiarti. Ero convinta che per colpa tua avessi perso una madre e una sorella, fossi costretta a vagare con un padre sempre più instabile, mai fermi per più di un mese nello stesso luogo. Ti ho sempre immaginato come un mostro terribile, un demonio fatto di crudeltà e orrore.» Rivelare quei sentimenti direttamente all'oggetto del suo odio fu difficile, eppure insieme liberatorio. «Invece sei solo un ragazzo. Un normale ragazzo. E non hai chiesto nulla di tutto ciò.» Edmund le rivolse un mezzo sorriso, come per farle capire che non c'era nulla di cui scusarsi. «Nemmeno tu l'hai chiesto. A volte dobbiamo portare fardelli che non meriteremmo» le rivelò e subito pensò ai suoi amici, che avevano fatto tanta strada solo per venire a salvarlo. Si sentì il cuore caldo. «Avere qualcuno con cui condividerli, però, rende tutto più facile.» Sorrise; e poi quell'appellativo gli sfuggì involontario: «Sorellina.»
I due ragazzi si abbracciarono d'istinto, consapevoli che a renderli fratelli erano più le comuni sventure, che non il patrimonio genetico. «Vieni via con noi» le sussurrò Edmund, quando si sciolsero dall'abbraccio.
Melita scosse la testa. «Ora non posso: devo rimettere assieme i cocci della mia vita» sospirò, guardando verso est, dove nel cielo tinto di rosa cominciavano a comparire il disco dorato del sole.
Edmund annuì, consapevole di che cosa volesse dire Melita: anche lui aveva avuto bisogno di alcuni mesi per rimettere insieme i cocci della sua vita. Ma ora aveva capito molte più cose.
«Quando vorrai, sai dove trovarmi» fu il suo ultimo saluto, prima che lei si smaterializzasse.

Mairead fissava la ragazza mora con gli occhi ridotti a due fessure. Chi era? E perché Edmund aveva fatto tanta strada solo per andare da lei?
A pelle, sentiva che non le piaceva. Aveva un atteggiamento scontroso, come se si ritenesse una gran principessa e tutti loro fossero indegni della sua attenzione. Ma chi si credeva di essere?
Forse era anche un po' gelosa, dopotutto. In fondo, l'altra aveva una massa di capelli mossi e scuri come la pece, occhi azzurri e un bel fisico. Però, al di là delle qualità oggettive, non riluceva come avrebbe dovuto: sembrava fredda, irreale, quasi di un altro mondo. Non aveva il calore di un sorriso, volto capace di espressione, personalità radiosa. Mairead avrebbe preferito passare mille giorni in compagnia di Moira che una sola ora con quella sconosciuta.
Va bene, stava esagerando, era bella. Molto bella. E le dava fastidio che stesse in compagnia di Edmund. Però era innegabile che fosse un poco freddina.
Quando finalmente si smaterializzò, Mairead tirò un sospiro di sollievo. Non le piaceva, ecco.
«Mairead» la chiamò Moira, la voce poco più che un sussurro. Guardava in direzione di Edmund, che se ne stava appoggiato ad un ulivo ad osservare l'alba. «Credo che tu e Laughlin dovreste andare a parlargli.»
Anche Mairead guardò l'amico e capì subito quello che Moira intendeva dire. Aveva sempre un'empatia straordinaria, quella ragazza. Mairead annuì come segno di ringraziamento poi, senza troppi complimenti, afferrò Laughlin per un braccio e lo trascinò giù dal tappeto volante. Edmund non si accorse della loro presenza finché Mairead non si annunciò con un “ehi” poco convinto. Lui rispose con un sorrisetto tirato che non aveva nulla di gioioso. Mairead si sentì in dovere di cominciare la conversazione su toni neutri, ma quello che le uscì non aveva nulla di neutro. «Tutto bene con...?» Non sapeva il nome della ragazza mora.
«Melita» completò Edmund, senza smettere di guadare il sole nascente.
Melita. Che razza di nome era?
Ma poi Edmund se ne uscì con una cosa del tutto inaspettata: «Era mia sorella». Fece quella rivelazione spiazzante come se avesse dato qualche banale previsione sul tempo. «In un certo senso, almeno.»
Mairead e Laughlin si scambiarono uno sguardo perplesso. Tuttavia, nessuno dei due disse nulla, aspettando rispettosamente che fosse l'amico a decidere quando cominciare a parlare.
Edmund tirò un lungo respiro, ma alla fine si rese conto che non poteva più tenersi dentro tutto quanto. Così cominciò a narrare, un fiume in piena di parole che gli sgorgavano dalla bocca. Parlò con una sincerità tale che non aveva mai dimostrato a nessuno, neanche a se stesso: non nascose nulla, nemmeno ciò che gli faceva più paura ammettere.
Raccontò di McPride, di come l'aveva ingannato, tentando di tirarlo dalla sua parte e di convincerlo che allearsi con l'EIF fosse l'unico modo per controllare quel gruppo di assassini; raccontò degli Interventisti, di Adam e della dichiarazione di eresia, di McFarren, l'ultimo Gran Maestro. Narrò ciò che aveva visto nei ricordi del laboratorio di Lerwick, di Voldemort, della morte della signora McFarren e della piccola Opale; narrò come era stato creato, mischiando il patrimonio genetico di Voldemort e di Melita. Poi prese a raccontare di come era stato salvato dalla bambina e successivamente abbandonato all'orfanotrofio; descrisse la sua visita da Olivander, a Diagon Alley e la sua chiacchierata con Silente al Quartier Generale dell'Ordine della Fenice. Infine, rivelò quanto aveva scoperto riguardo alla maledizione impostagli da McFarren e sulla Mela d'Oro che avrebbe potuto salvarlo.
Quando concluse il racconto, aveva la bocca secca e impastata. Solo nel momento in cui sentì una goccia salata inumidirgli l'angolo delle labbra, si accorse di aver pianto. Di star piangendo ancora. Non si ricordava nemmeno quando fosse stata l'ultima volta in cui l'aveva fatto, ma sentì che aveva il bisogno di liberarsi dalle sue angosce. E lasciò che le lacrime gli inondassero il viso.
Mairead fissò lo sguardo in quegli occhi azzurri, resi simili a un lucido mare, il contorno arrossato, minuscole goccioline come diamanti sulle lunghe ciglia nere. Non si era mai accorta di quanto fosse bello il suo amico. Adesso capiva perché le ragazzine gli sbavassero dietro: i capelli scuri gli attorniavano il volto pallido, insieme affascinante e tenebroso. E quegli occhi... due porzioni di cielo.
Mairead agì d'impulso. Non c'erano parole per confortare Edmund in quel momento, per cui semplicemente fece scivolare le mani sotto le braccia del ragazzo e lo strinse a sé. Restarono abbracciati a lungo, in silenzio, mentre Edmund dava sfogo a tutte le sue lacrime.
Mairead sentiva il torace dell'amico fremere a ritmo con il pianto, alzarsi e poi ridiscendere; avrebbe voluto scacciare tutte le sue ansie, tranquillizzare il suo respiro, per regalargli un attimo di pace. Ma non poteva fare tutto ciò, poteva solo abbracciarlo. Rimase con l'orecchio incollato al suo petto ad ascoltare il battito del cuore, cercando di infondergli quella serenità cui tanto anelava.
Quando finalmente si sciolsero dall'abbraccio, Edmund sembrava più tranquillo. Si asciugò il viso con il dorso della mano e tentò un sorriso stirato come ringraziamento. Guardava i suoi amici di sottecchi, come per sondare le loro reazioni.
«È tutto ok, Edmund» mormorò Laughlin, posandogli una mano sulla spalla. Non era un gran predicare, ma Laughlin era convinto che a volte bastassero poche parole, purché fossero quelle giuste. «Noi saremo sempre al tuo fianco. Perché siamo tuoi amici e ti vogliamo bene» asserì con sicurezza, facendo tesoro di quanto gli aveva detto sua madre qualche settimana fa. Non ne era mai stato così convinto come in quel momento. In fin dei conti, erano andati fin nel deserto per recuperarlo.
Ma Laughlin non era un tipo a cui piacesse stare serio troppo a lungo, così soggiunse: «Guarda, è venuto persino Faonteroy. Ce l'abbiamo un po' trascinato, a dirla tutta, però è qui... anche lui ti vuole bene!»
A Edmund sfuggì un singhiozzo tra le lacrime. Una specie di risata strangolata.

«Sei un totale idiota!» Lily strillava imbestialita. Non che fosse una cosa rara di per sé, ma questa volta, almeno, ne aveva tutto il diritto.
«Non l'ho fatto apposta» mormorò imbarazzato Bearach. E che il ragazzetto, di solito così agitato ed estroverso, fosse imbarazzato, questa sì che era una cosa rara.
Lily strabuzzò gli occhi. «E ci mancherebbe anche che l'hai fatto apposta!»
Fu allora che Moira capì che era giunta l'ora di intervenire. «Lily, è meglio se ti calmi» tentò di farla ragionare. «Siamo tutti stanchi e nervosi, ma troveremo una soluzione.»
«Che fine ha fatto il tappeto volante?» Laughlin non era il tipo che si preoccupava troppo, ma quando, avvicinandosi agli altri che erano rimasti in disparte, notò che il loro mezzo di trasporto era scomparso, decise che era il caso di interessarsi alla questione.
«Chiedilo a quel genio di tuo fratello!» L'intervento sarcastico di Lily aiutò a far capire quanto grave fosse la situazione.
Nessuno badò agli occhi arrossati dal pianto di Edmund, un po' per garbo, un po' perché il tappeto volante scomparso era già un bel grattacapo a cui pensare.
«Mi è sfuggito» si giustificò Bearach, a disagio. «Sono sceso per ultimo e... è schizzato via con la velocità di un fulmine.»
«Ci sarà stato un qualche incantesimo per riportarlo al proprietario in caso di smarrimento» commentò Dominique, ragionevole come sempre.
«E ora come ci arriviamo in Irlanda?» La domanda espressa ad alta voce da Henry, rimbalzò tra di loro in un silenzio imbarazzato.
Intervenne Dominique, cercando di essere il più pacato possibile, visto che la mente geniale del gruppo, al momento, era totalmente in panne. «Ai piedi della collina c'è un paese.» Indicò la direzione, nel caso in cui a qualcuno fosse sfuggito. «Raggiungiamolo e cerchiamo aiuto.»
Fu solo allora che Mairead concesse una lunga occhiata al paese indicato da Dominique: una decina di torri dall'aspetto medievale si innalzavano tra i tetti di tegole rosse come dei fiori dal gambo lungo. Quel posto le ricordava qualcosa, ma non sapeva dire cosa. E poi... «Ehi, io so dove siamo!» esclamò soddisfatta. «Siamo in Italia!»
«Italia?» le fece eco Moira, perplessa.
«Sì.» Mairead ne era più che convinta. «In quel paese abita un archeologo amico di mio papà!»
«Ottimo!» esclamò Laughlin, battendo le mani. «Così potremo sfruttare il suo camino.»
In realtà, fu ben più complicato di quanto potesse sembrare: innanzitutto, per raggiungere il paese a piedi, ci impiegarono quasi un'ora; in secondo luogo, una volta arrivati, Mairead non aveva la più pallida idea di dove andare.
«Hai detto che conoscevi il posto!» si lagnò Faonteroy, guardandosi intorno come se sperasse di veder comparire qualcuno che non fosse inequivocabilmente Babbano. Era stanco, sfibrato, con le scarpine di vernice infangate e i piedi gonfi. Era sul punto di avere una crisi di nervi.
«Ci sono stata solo una volta e più di dieci anni fa!» Mairead si voltò prima a destra e poi a sinistra, ma quelle case costruite con mattoni rossicci erano davvero tutte uguali.
«Forse dovremmo chiedere a qualcuno» propose Moira, ragionevole.
Sembrò a tutti l'idea migliore, senonché Dominique chiese: «Già, ma chi di noi parla italiano?»
Stavano per disperare quando si sentirono rivolgere delle parole nella loro lingua madre. «Oh, siete dei turisti?» esclamò gentile una giovane donna vestita alla Babbana. «Inglesi, immagino!»
Fu la scintilla che fece esplodere Faonteroy. «No, siamo Irlandesi! Irlandesi, capisci? Lo so che per voi rozzi continentali è la stessa cosa, ma noi siamo Irlandesi, Irlandesi! Dell'Irlanda!» stillò, diventando paonazzo per la foga.
La donna sgranò gli occhi spaventata da quel demonio mascherato da paggetto. «Ok» fu l'unica cosa che riuscì a dire, prima di defilarsela. Tutti si voltarono verso Faonteroy con l'aria di volerlo uccidere.
«Che c'è?» domandò il ragazzino, come se non ci trovasse nulla di sbagliato in quella scenata.
«Faonteroy, aggredire l'unica persona che parla decentemente la nostra lingua in questo stramaledetto paese, non è stato d'aiuto» gli disse Laughlin, tenendo a freno l'ira a stento.
Il ragazzino sembrava scandalizzato. «Ma ci aveva dato degli Inglesi, aveva dato dell'Inglese a me, Faonteroy O'Brian della nobile schiatta di Mael Duib!» protestò, ficcandosi le unghie nelle guance con aria disperata. Aveva una mimica facciale davvero impressionante.
«Ma chi se l'è portata dietro questa piattola?» domandò Laughlin, scuotendo la testa rassegnato.
Mairead gli diede un pugno scherzoso sulla spalla. «Ehi, non trattare male mio cugino» gli intimò, prendendo il povero Faonteroy per le spalle.
A onor del vero, lui sarebbe restato volentieri anche al Trinity, ma evitò di farlo notare agli altri. Non aveva voglia di farsi strapazzare ulteriormente.
«Ok, muoviamoci da qua» ordinò Edmund, entrando per la prima volta in scena e rivestendo il ruolo di capo che gli era così naturale. «Indirizziamoci verso il centro e speriamo di trovare un luogo che Mairead riconosca.»
Ci volle un'altra buona mezzora prima di giungere ad una piazza con un pozzo al centro che a Mairead parve vagamente familiare. «Questo posto mi ricorda qualcosa» borbottò a mezza voce, soffermando lo sguardo in particolare su una panetteria all'angolo della piazza. Il signor Lorenzo, l'archeologo amico di suo padre, le aveva offerto una pizza per merenda, in quella forneria, più di dieci anni fa. Poi lei si era seduta sul bordo del pozzo e aveva guardato il buio profondo che inghiottiva la monetina che aveva buttato giù, mentre Lorenzo le raccontava qualche buffo aneddoto che non ricordava. E poi...
«Di là, attraverso l'arco!» esclamò ad alta voce, ricordando d'improvviso la strada. Sbagliò solo un paio di volte, ma alla fine riuscì a condurre i suoi amici davanti alla porta di casa dell'archeologo italiano.
«Lorenzo e Marina Olivieri» lesse dubbioso Faonteroy, come se temesse che anche il campanello volesse prendersi gioco di lui.
«Suona» lo esortò Dominique.
Passarono alcuni minuti carichi di attesa, finché una donnina simile ad un bignè, in camicia da notte e pantofole, non venne ad aprire la porta. Li osservò perplessa per una manciata di secondi, borbottò qualcosa in italiano e poi chiamò: «Loreeeeeenzo!»
Un uomo corpulento, con due enormi baffoni da fare invidia persino a Babbo Natale e una zazzera di capelli castani pesantemente striati di grigio, apparve sulla porta, infagottato in una vestaglia scozzese.
Mairead si fece avanti, nella speranza che l'uomo che aveva davanti potesse riconoscere nei suoi tratti di ragazza la bambina di un tempo. «Signor Lorenzo, sono...»
«...la figlia di Reammon!» completò lui, illuminandosi. Ma poi strabuzzò gli occhi, notando quanta gente l'accompagnasse. E per sottolineare il suo sbigottimento aggiunse, in un inglese un po' arrugginito: «Ma sono le sette e mezza del mattino!»
«Siamo nei guai» spiegò Mairead, senza troppi giri di parole.
«Guai?»
Mairead annuì. «Dobbiamo trovare il modo di tornare in Irlanda al più presto.»
«Irlanda, eh?» Lorenzo si accarezzò i baffoni con fare pensieroso. «Vi farebbe comodo una Passaporta.»
«Può procurarcela?» intervenne Dominique, speranzoso.
«Posso farmi dare una multa, per questo» replicò l'uomo, ricordando a se stesso che già una volta aveva ceduto alle moire di quel bischero del suo amico irlandese e per il suo aiuto si era meritato una Multa per Creazione di Passaporta non Autorizzata dal Ministero della Magia italiano. Eppure quei ragazzi avevano proprio l'aria disperata. «Ah, bischeri, almeno entrate a far colazione con una fetta della torta di mele di mia moglie: avete l'aria di averne passate delle belle, stanotte» cedette alla fine, spostandosi dall'uscio per far entrare i ragazzi. E, giusto per sottolineare le sue parole, quando Laughlin gli passò davanti, aggiunse: «Questo qui ha perfino la giacca al contrario!» E corredò le parole con un sonoro scappellotto alla nuca di Laughlin.






Eccomi qui!
Tanto per la cronaca, uno scappellotto Laughlin se lo meritava proprio! E non per la giacca al contrario (se guardate il capitolo 24, c'è un quintale di gente che glielo fa notare), ma così, perché se lo merita! ;)
Comunque, finalmente Edmund si sfoga un po'! È guarito, dai, è tornato il solito secchione fissato con i misteri: e McFarren gliene ha fornito uno bello bello con cui dilettarsi tutto l'anno prossimo! =)
Ho anche tentato di spiegare cosa fosse successo a Melita: non ha avuto una vita particolarmente piacevole e ha sfogato tutta la sua rabbia su Edmund. Ma, non temete, la rivedremo presto. Per la scena di Mairead gelosa di Melita, si veda Han Solo geloso di Luke, e Leila che salta fuori a dire "ma no, Luke è mio fratello!", proprio come Eddy che rivela "Melita è mia sorella"! Parentele insospettabili...
Ebbene sì, comunque, Mairead è gelosa! Intanto ha cominciato a rendersi conto che Eddy è proprio un bel ragazzo, poi vedremo gli sviluppi! Abbiate mooooolta pazienza!
Intanto, vi lascio un po' di cose con cui dilettarvi:
QUI un'immagine di San Gimignano (con le colline sullo sfondo dove sono atterrati i ragazzi del FIE con il tappeto volante); e QUI un'immagine della piazza.
QUI la cartina del viaggio fatto con il tappeto volante e poi con la passaporta.
QUI un vecchio disegno di Lorenzo a circa 40 anni (nella scena del capitolo dovrebbe averne una sessantina).
QUI l'immagine del capitolo: l'abbraccio tra Edmund e Mairead.

Infine, se lo sfollo di Faonteroy vi è piaciuto (l'avevo scritto mesi e mesi fa!), aspettate con ansia il prossimo e -ahimè!- ultimo capitolo del racconto per vedere ancora il rampollo degli O'Brian in tutto il suo splendore! XD
Ci vediamo domenica 13 ottobre!
A presto,
Beatrix

   
 
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