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Autore: Aura    08/10/2013    2 recensioni
Diana cambia città, trasferendosi in un posto dove l'unica persona che conosce è Michele, un tempo suo mentore ma ora praticamente un estraneo, dopo dieci anni in cui non si sono né visti né sentiti. E quando lo rivede capisce che quello che prova è ben più della nostalgia di un'amicizia: ma Michele è anche il suo nuovo capo, e il ricordo del loro passato è troppo bello, così l'unica cosa sensata da fare è cercare di soffocare quel sentimento nascente.
Riprenderà in mano le bottiglie e ricomincerà a fare la barista, lasciando che Michele ancora una volta torni ad essere il suo mentore; lei dovrà solo preoccuparsi di tenere a bada i pensieri che hanno iniziato a tormentarla.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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daiquiri        










Michele aveva uno sguardo strano negli occhi, quasi triste in alcuni momenti, o più precisamente colpevole. Se faceva due calcoli non le ci voleva molto a capire da quanto avesse iniziato, quello che non capiva era perché: perché il fatto di averla baciata doveva farlo sentire in colpa? Michele cercava di comportarsi normalmente, e spesso sembrava esserlo, ma poi succedeva qualcosa nella sua testa e il suo sguardo cambiava.
Non la evitava, parlavano come al solito e come al solito passavano quasi tutte le loro giornate insieme, tra casa e il lavoro; ma quei piccoli gesti d'affetto erano scomparsi, quasi evaporati nel nulla, e lui sembrava come voler mantenere una certa distanza fisica, nel vero senso del termine: persino quando mangiavano quasi faticava ad avvicinare la sedia al tavolo, come se farlo avesse potuto spezzare una barriera invisibile che aveva faticosamente costruito.
E nonostante lei cercasse di far finta di niente, se ne accorgeva e ne soffriva, ma il solo pensiero di sentirsi dire che aveva sperato troppo le impediva di chiedergli delle spiegazioni.
Al Daiquiri Frozen cercava di essere quanto mai efficiente, anticipando ogni sua richiesta e dando sempre il massimo senza risparmiarsi, forse inconsciamente per sentirsi dire un altro “sei stata brava”, o più semplicemente per ricordargli della sua esistenza; mentre in privato cercava di sopperire alle sue distanze mostrandosi serena, voltandosi quando le scappava una smorfia di delusione, come a volergli dimostrare che il suo sguardo colpevole non aveva motivo di esistere. Anche se non sapeva neanche lei a che cosa era dovuto.
– Vuoi guardare un film? – provò a proporgli. Quel giorno sembrava particolarmente pensieroso.
– No, oggi pomeriggio ho da fare.
Impassibile.
Avrebbe voluto urlargli “Chissene frega, cazzo”, ma sparecchiò il suo posto mettendo le stoviglie sporche nel lavello, con la sfibrante percezione che anche se gli stava passando accanto lui non la degnava di uno sguardo; così abbozzò un saluto e tornò a casa sua.
Stava peggiorando sempre di più.
Si chiuse nella sua camera, retaggio dei suoi anni da adolescente visto che tecnicamente tutta la casa era esclusivamente sua, e si decise a disfare gli scatoloni che le aveva portato Rossella settimane prima.
Contenevano i suoi libri, i cd, le fasce ricordo dei concerti a cui era andata e qualche foto: praticamente le sue cose più care. Scelse una compilation che non ricordava di aver fatto e con la musica a tutto volume che riempiva la stanza si fece coraggio a mettere tutto in ordine: dare un timbro di definitivo alla sua permanenza lì, in quel momento, le sembrava quasi di cattivo gusto.
Un giro di chitarra classica risuonò, anticipando la voce calda e comprensiva di Elvis che iniziò a dirle “forse non ti ho sempre trattato bene come avrei dovuto, forse non ti ho amato così spesso come avrei potuto”.
Si asciugò le lacrime che rotolavano veloci sulle guance in un pianto silenzioso e immobile che di pianto aveva solo le labbra incurvate caparbiamente, come se non volesse permetterselo, e continuò imperterrita a tirare fuori gli oggetti accatastati e a metterli a posto.
Poi, quando le venne in mano un libro tascabile che ricordava fin troppo bene, le sue dita lo strinsero tanto da diventare bianche: non era proprio possibile, aveva lì i ricordi di una vita senza Michele e lui riusciva a intrufolarvisi comunque. Spalancò la porta della sua camera, si assicurò di avere le guance asciutte, e andò da lui, a restituirgli quel dannato libro.
– Guarda che cosa ho trovato. – si obbligò a sorridere, porgendoglielo, come se fosse ormai istintivo indossare quella maschera.
Michele lanciò un'occhiata alla porta lasciata aperta del suo appartamento, da cui filtrava ancora Always on my mind, e per un attimo Diana vide che la colpa nei suoi occhi assumeva una sfumatura diversa.
– Ho il vinile, vuoi venire ad ascoltarlo? – le chiese.
Diana chiuse la porta, senza preoccuparsi di andare a spegnere la musica mentre lui l'aspettava appoggiato allo stipite, addolcito. Sentì la maschera che si stava sciogliendo, e passandogli accanto, mentre lui la faceva entrare, si fermò ad abbracciarlo, nascondendosi contro di lui. Michele lasciò andare un sospiro, che forse avrebbe voluto essere una scusa, e la strinse, lasciando che il tempo passasse. Sentì contro la guancia che la sua maglietta stava diventando umida, e capendo che erano le sue lacrime a bagnarla cercò di smettere di piangere, mentre lui le accarezzava la testa.
Si staccò, assicurandosi di asciugarsi non vista le guance,
– Allora, dov'è il disco?
Lo seguì in salotto, aspettando in piedi mentre lui lo trovava e lo metteva sul giradischi. Non capitava spesso di ascoltare le sue reliquie personali, e in un certo qual modo non si sarebbe mai aspettata di trovare Elvis nella sua raccolta, e specialmente quella canzone, anche se era un classico.
Le note vennero precedute dal fruscio, e poi fu come se Elvis fosse proprio lì a cantare per lei. Ricordò quella volta che lui l'aveva fatta arrabbiare, quando avevano ascoltato insieme Where is my mind, e capì che non sarebbe riuscita a mantenere la stessa freddezza con una canzone che diceva esattamente le stesse parole che lei si sarebbe voluta sentir dire, così quando la guardò interrogativo scosse la testa.
– Sto qui. – disse, rimanendo in piedi accanto al divano finché la canzone non sfumò. Gli diede le spalle e si sedette a terra, appoggiando la schiena sul divano. – Lo so, sono eccessiva? – borbottò, come se si stesse prendendo in giro da sola, mentre cercava di trattenere le lacrime in tutti i modi.
Michele tolse il vinile e tornò a sedersi sul divano.
– Non pensavo che te ne accorgessi. – disse, alludendo al comportamento che aveva avuto in quegli ultimi giorni, –  O forse sì, l'avevo capito, ma speravo che fosse una mia impressione.
Non pensavi che me ne accorgessi. – ripeté amaramente. – Sono io che faccio di tutto...
– Perché io mi accorga di te? – concluse Michele per lei. – Lo so. E non è necessario: io mi accorgo di te, sempre, lo farei anche se tu rimanessi immobile. Lo faccio anche adesso, che sei lì nascosta.
Anche Diana si accorgeva di lui, bastava la sua voce, bassa e roca, bastava la semplice percezione della sua presenza. E si accorgeva che quello non era uno dei loro tanti discorsi.
– Ho sempre paura di chiederti una cosa. – disse, concentrando lo sguardo sulla sua libreria, come se stesse guardando un'estensione di lui. – Ho paura che tu mi risponda che è effettivamente così: perché a volte mi fai sentire indesiderata? – maledisse la voce che aveva tremato su quell'ultima parola e si maledisse per averla pronunciata: era come se non avesse neanche più la pelle a proteggerla, solo carne viva.
– Perché non è facile, per me, convivere con te.
Fu come se le avesse buttato dell'acido addosso, lì, sulla sua carne inerme senza pelle.
Scattò in piedi, il suo sguardo avrebbe potuto ferirla ancora di più ma non poteva evitare di guardarlo.
– Come puoi dirmi questo?
Michele strinse gli occhi, come incredulo al fatto che lei non capisse.
– Come? Certo, guardami, guarda noi: ti ho conosciuto che eri poco più di una ragazzina, vieni qua che ti pensi una donna quando in confronto a me sei ancora una ragazza. Mi ricopri di un ruolo che secondo te io ho di diritto, mi metti al centro della tua vita e mi costringi ad accorgermi di te, sempre, nonostante tutte le dannate volte io mi incazzi; perché tu sei una ragazza e non dovresti centrare niente con me. Tutte le volte che cerco di allontanarmi tu mi obblighi a guardarti. Sì, in un paio di momenti posso anche essere stato tanto stupido da farmi trascinare: non sono una roccia, tu mi guardi e mi provochi, vuoi che io ti faccia ballare, vuoi che io ti baci. Ed è sbagliato, perché non so se sono stato io ad averti portato a volerlo: tu non dovresti volerlo.
– Io ti amo. – quella frase era ormai andata, non avrebbe mai potuto riprendersela, neanche con dieci bottiglie di Tequila.
– Tu non mi ami. – negò, come se volesse smascherarla, o tentare di convincerla che non era così.
– Certo che ti amo:  perché ho sempre delle reazioni esagerate quando si tratta di te? Non sono mica pazza. È perché ti amo così tanto, e amo così tanto di te... e non penso di arrivare a meritarti, come dici tu io sono solo una ragazza, in confronto a te.
– Tu non devi amarmi: se te lo permettessi un giorno mi odierai.
– Odierò me stessa, invece, se non tu mi permettessi di amarti: perché come una stupida ho cercato di avere tutto di te, perdendo anche quello che avevo. Cazzo, Michele, però. – nascose il viso tra le mani, – Non continuare a dirmi che non ti amo, che non dovrei amarti: mandami via, se ho sbagliato tutto. Lo so: ho sbagliato.
Si era avvicinato senza che lo sentisse, le mise una mano sulla testa e la tirò a sé, abbracciandola.
– E se mi odiassi io? Perché non trovo giusto che tu ami me? Per me?
Appoggiò la fronte sul suo petto.
– Ma tu che cosa vuoi?
– Mi pare abbastanza ovvio. Non dovrei, è sbagliato, ma voglio te. Daiana.
Sentì un brivido correrle lungo la schiena mentre diceva il suo nome, come se al posto di quello avesse detto a chiare lettere di amarla. – E ora non centra il “chissene frega, cazzo”. – continuò, – Ti amo, non posso dirlo. Prima o poi Google, o il Boss, passa in secondo piano: succederà anche a te, e mi odierai per averti permesso di amarmi.
Diana lo guardò.
– Michele ti ho trovato dopo dieci anni, e non ti ho trovato perché ti amavo, non così almeno. Perché eri una persona che non aveva ancora smesso di significare qualcosa per me, dopo dieci anni che non ti vedevo: come pensi sia possibile che tu possa passare in secondo piano per me? Dammi una possibilità per mostrarti che ti sbagli. – lo implorò. Se lui l'amava avrebbe potuto scalare un grattacielo, pur di dimostrargli che lei non voleva altro che lui. Si morse le labbra, non sapendo più cosa fare per convincerlo. – Chissene frega, cazzo. Ti amo, hai capito? E non ti amo in una maniera strana e platonica come forse tu pensi che io lo faccia: ti amo nel profondo, quando mi parli, come sei, come siamo insieme; ma ti amo anche ogni volta che ti vedo il cuore mi batte, come una ragazzina, e io non riesco a pensare ad altro se non a te che mi baci. E quando lo fai vorrei...
La interruppe, finalmente, arrendendosi e baciandola, come lui sapeva baciarla, come se la volesse accarezzare e poi come se la volesse mangiare. E le aveva detto di amarla, non doveva aver paura che quel bacio finisse, poteva sperare che continuasse a oltranza.
La scarica di adrenalina per quella dichiarazione strappata e sofferta, l'emozione di quel bacio che la travolgeva sempre di più, le andarono alla testa.
Se fino a qualche istante prima aveva voluto diventare sua ma in maniera più dolce, per trasmettergli tutto il suo amore e per sentirsi sua, ora la passione la annebbiava, e voleva sentirsi sua, punto. Sì, lo amava, si diceva cercando di rimanere lucida, ma doveva essere sua, immediatamente. Le sue labbra non dovevano smettere di baciarla, le sue mani non dovevano smettere di toccarla, sempre più avidamente. Gli offrì senza remore il suo collo, come sostituto delle labbra, mentre la sollevava da terra e lei gli cingeva i fianchi con le gambe. Quando l'appoggiò sul divano Diana gli sfilò la maglietta e lo tirò verso di sé, sentendo già l'astinenza dei due corpi uno contro l'altro. La mano di Michele era sul suo fianco, e scendeva sempre di più...
Prima suonò il telefono di Michele, due volte, poi iniziò il suo e suonarono assieme.
– Chi... chi è? – gli chiese ansimando, continuando a guardarlo come ipnotizzata, quando lui si staccò brevemente da lei.
– Non lo so, ma penso che sia ora di andare a lavorare.
Diana chiuse gli occhi, incredula: lo aveva completamente dimenticato. Si aggrappò alle sue spalle, quando lo sentì sollevarsi.
– Aspetta mezzo secondo... noi?
Come se separandosi fosse finito tutto, che ne sarebbe stato di loro?
– Non lascio le cose incomplete a lungo: non preoccuparti. – La baciò ancora più avidamente, come se avesse voluto sottolinearle quello che intendeva, e poi si alzò a rispondere al telefono. – Sì, arriviamo subito, non ci siamo accorti dell'orario: aspettateci.
Quando si girò, pensando di trovarla ancora sul divano, la trovò accanto a lui.
– Quindi tu mi ami, io ti amo e... – il suo sguardo vagò senza volere sul suo petto nudo. – E non lasciamo le cose incomplete a lungo, no?
– No. Ma adesso dobbiamo andare, lo sai?
Diana annuì: se lui l'amava avrebbe potuto aspettare qualche ora.










Nda: Non so davvero cosa posterò dopo questo capitolo -_- è da una settimana e passa che sto lavorando a quello successivo ma continuo a cancellarlo! Questo è proprio uno dei miei talloni d'achille: quando i miei protagonisti si dichiarano basta, non so più che cavolo scrivere.
;-) ci penserò!
Spazio credits: ovviamente il pezzo della traduzione fa parte di Always on My Mind di Elvis,
https://www.youtube.com/watch?v=u9sRJ-eOHnc , in assoluto la mia canzone. Era una vita che volevo inserirla in una storia, e il motivo è duplice: il primo è che la amo, questa canzone mi scioglie sempre e la voce di Elvis mi graffia sempre l'anima, ogni volta che l'ascolto; e il secondo motivo è una specie di tributo al nono capitolo di Blowing Bubbles di SidRevo, che immagino tutti conosciate. Quel capitolo, complice la presenza di questa canzone, mi aveva distrutto l'anima, e da tempo avevo avuto il desiderio di citarlo. Nota di servizio: se non conoscete la storia guardate quando è stata aggiornata l'ultima volta e decidete voi se volete leggerla e diventare pazze nell'attesa che ormai credo non finirà mai, oppure passare oltre. Non fraintendetemi, io l'ho adorata, ma se la scoprissi oggi forse non la leggerei, così come non ho letto l'altra storia di SidRevo per lo stesso motivo: è incompleta, e leggere le incomplete fa male al mio povero cuoricino in cerca di un finale.
Bando alle ciance, ringrazio Bloomsbury perché ha iniziato il seguito di Draw Skin, rendendomi la Miyavi addicted più felice di questo mondo: Bloom aggiorna quando ti pare, anche tra un mese, il solo fatto che esista il seguito per me è fonte di gioia ♥ e ovviamente grazie perché continui a leggermi e recensirmi. Su questo capitolo avrai scoperto molto su Michele, su molte cose come vedi ci avevi azzeccato. Non per mettere le mani avanti ma ti dico che a me pubblicarlo ha messo l'ansia, quindi sii pure crudele con la tua recensione, magari così capirò meglio il motivo della mia ansia! -> in genere ci arrivo quando leggo le cose nero su bianco.
Va bè, mi impegnerò a continuare questa storia!
ps: in NaNoWriMo si avvicina, qualcuno partecipa quest'anno? Io vorrei, ma so che se lo facessi da sola non lo completerei mai, fatemi sapere!

   
 
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