Capitolo 1
Washington D.C. si svegliava presto, la mattina.
Il via vai di auto lungo le vie non cessava veramente
a nessuna ora del giorno e della notte, nella capitale degli Stati Uniti, pur
se la città appariva più sonnolenta della Grande Mela, notoriamente conosciuta
per non dormire mai.
Era
freddo, quella mattina di novembre inoltrato, e le strade erano già spolverate
della prima neve di stagione.
Gli addetti alla pulizia stradale erano in movimento
già dalle prime luci dell’alba, e gli spargi-sale stavano circolando da ore
lungo le interminabili strade a scorrimento veloce, che levitavano sulla città
con l’aria di essere quasi prive di peso.
Una mera illusione, ovviamente.
Quei cavalcavia di ferro e cemento dalle forme così
eleganti avrebbero distrutto tutto ciò che incontravano, se fossero implosi su
loro stessi. Fortunatamente, Washington D.C. non era zona sismica come potevano
essere invece Los Angeles o San Francisco.
Inoltre, Winter Hamilton era proprio l’ultima persona
al mondo a doversi preoccupare di eventi simili.
Dall’abitacolo della sua auto ibrida sorrise deliziato,
assaporando le onde di potere che riverberavano attraverso le ampie vie
cittadine. In questo, i fondatori di Washington erano stati lungimiranti.
Intessuti nelle fondamenta stesse della città, antichi
poteri e reminiscenze di altri tempi galleggiavano non visti ai più, ma a
disposizione di coloro i quali erano stati beneficiati da divino sangue o
benedicente mano.
E lui respirava a pieni polmoni l’energia esoterica
della Capitale, godendone pienamente.
Le genti comuni non potevano avvertire le correnti
energetiche, che scorrevano attraverso il pentacolo di potere creato
appositamente per proteggere la città dai suoi nemici, ma Winter era in grado
di farlo.
Lui, come il resto della sua famiglia.
Di antico retaggio e di fatata stirpe, i coniugi
Hamilton si erano trasferiti più di trent’anni prima dalla nebbiosa città di
Dublino alla più caotica Washington D.C., portando con loro i quattro figli
gemelli.
Brigidh, la sorella di Camille O’Hara Hamilton, li
aveva seguiti nel nuovo mondo per poter restare accanto ai nipoti, oltre che
per liberarsi del giogo familiare troppo opprimente per tutti loro.
I sobborghi di Washington D.C., con le loro piccole
case di legno dalle tinte chiare e i bei giardinetti ordinati, avevano visto
crescere Winter, Spring, Summer e Autumn, i magici gemelli di Anthony e
Camille.
Ma erano anche stati testimoni della triste fine della
coppia, che aveva incontrato il suo destino lungo una delle vie dell’immensa
Capitale degli Stati Uniti.
Un giorno d’estate, col sole a perpendicolo e il cielo
sgombro di nubi, la notizia era giunta nefasta in quell’angolo di Woodland Drive e, nel giro di poche ore, la vita dei quattro gemelli era cambiata radicalmente.
La banca aveva pignorato loro la casa, obbligandoli a
lasciarla in fretta e furia e Brigigh, giovane venticinquenne, si era ritrovata a
fare da madre e da padre a quattro bambini di quattordici anni dal cuore
infranto.
Trasferitisi a Saint Charles, nel Maryland, dove il
costo della vita parve loro più abbordabile, Brigidh aveva tentato di dare il via a un
nuovo corso per i suoi nipoti, pur sapendo che la mancanza dei genitori si
sarebbe fatta sentire, sempre.
Old Washington Road era divenuta il loro nuovo habitat e,
per lunghi anni, i fratelli Hamilton e la loro zia Brigidh, avevano convissuto in una
modesta casetta, che sarebbe bastata sì e no per tre persone.
Nello svoltare all’interno del parcheggio sotterraneo
della sede locale del NOAA1, Winter rammentò senza problemi i lunghi
anni passati a sbarcare il lunario, e le infinite giornate passate a dare una
mano alla zia, impegnata all’università.
Era così che aveva imparato i mestieri di casa, a
cucinare, pulire, tenere in ordine e, soprattutto, a non sporcare.
Perché quello, sopra ogni altra cosa, avrebbe voluto
dire prendere in mano detergenti e stracci e usare olio di gomito per ore.
Cosa che lui detestava.
Si era impegnato tutte le estati a tagliare prati,
consegnare giornali, sistemare siepi, e tutto per dare un po’ di sollievo a
Brigidh che, senza mai lamentarsi, si era presa cura di loro senza badare alla
propria vita.
Le borse di studio che avevano saputo ottenere grazie
a immani sforzi avevano, se non altro, tolto un peso enorme dalle spalle della
zia.
Tutti loro avevano cercato di non pesarle in alcun
modo, ma tenere a bada quattro bambini non doveva essere stato facile.
Soprattutto quattro ragazzini come loro.
Lui più di tutti lo sapeva.
Suo figlio Malcolm era adorabile, un bambino
intelligente quanto educato, ma era pur sempre un ragazzino di otto anni che,
da quattro, aveva perso la mamma a causa della leucemia che, nel giro di pochi
mesi, l’aveva strappata a tutti loro.
Capiva non poco quanto i primi anni assieme fossero
stati difficili per la zia e anche per questo, alla fine, l’aveva perdonata di
tutto.
Posteggiata l’auto nel suo parcheggio privato, Winter
smontò dalla Toyota Prius grigio scuro e si diresse con passo sicuro in
direzione degli ascensori.
Con rapide falcate, ne uscì non appena le porte si aprirono e penetrò
all’interno dell’ampia struttura governativa, la camminata elegante e potente
al tempo stesso.
Climatologo affermato e dalle idee innovative, Winter
si occupava di una ricerca volta a scoprire i danni causati dal progressivo
innalzamento delle temperature terrestri sui ghiacci del Polo Nord.
Proprio in quei giorni, stava riunendo una nuova
squadra per partire alla volta dello Stretto di Bering per portare avanti le
sue analisi sui ghiacci nordici.
«Buongiorno, Dottor Hamilton» gorgogliò cordiale la
receptionist nel vederlo comparire nell’enorme atrio, illuminato naturalmente
dalle ampie vetrate a specchio, che lasciavano penetrare generosamente la luce
del giorno.
«Mrs Matsumoto» mormorò gentilmente Winter, sfoggiando
un breve, rapido sorriso prima di dirigersi verso gli ascensori.
Pigiato il tasto numero quattro quando le porte
dell’ascensore gli permisero di salire nella stretta camera rettangolare di
metallo satinato, Winter lanciò una veloce occhiata all’orologio da polso prima
di annuire tra sé.
Un attimo dopo, afferrò il cellulare e digitò il tasto
tre per la chiamata rapida.
Due squilli e una voce trillante gli rispose, dicendo:
«Ciao, papà!»
Un sorriso enorme si dipinse sul viso solitamente
compassato di Winter che, infilato il bluetooth all’orecchio, mormorò: «Ehi,
campione, ciao. Già fatto colazione?»
«Zia Spring sta mettendo i pancake in tavola proprio
adesso» lo informò il bambino, in sottofondo lo sbatacchiare di piatti e
forchette.
Un attimo dopo, un tonfo, il tintinnio di un bicchiere
infranto e la voce cinguettante quanto inferocita di Spring che, agitata,
gridò: «No! Non ancora!»
Winter scosse il capo indulgente mentre le porte
dell’ascensore si aprivano e, percorrendo a rapidi passi il corridoio dinanzi a
lui, sussurrò: «Cos’ha distrutto, stavolta?»
«Il succo di mela è sul pavimento… mi sa che le darò
una mano. A dopo, papà» ridacchiò Malcolm, chiudendo la chiamata.
Winter si concesse un breve risolino prima di tornare
al suo solito cipiglio serioso e, quando aprì la porta della sala riunioni, sul
suo volto dai lineamenti fieri nessuno avrebbe potuto scorgere neppure un
barlume di emozione.
Timothy Walker, suo collega e meteorologo dall’occhio
fino, lo salutò con un cenno del capo, lo sguardo puntato sulle isobare che
interessavano le zone dell’Alaska e dello Stretto di Bering.
Avvicinatosi al tavolo ovale che capeggiava nel bel
mezzo del salone – interamente bianco e grigio e munito di monitor con computer
annesso – Winter diede una sbirciata alla situazione barometrica prima di
commentare: «Mi sembra buono. Che dici?»
«Tempo perfetto per i prossimi quattro giorni. Poi, un
breve flusso di aria fredda dalla Siberia, corredato da tempeste di neve, e di
nuovo bel tempo. Per i primi giorni di dicembre la missione potrà prendere il
via senza alcun problema, a mio modesto modo di vedere» gli spiegò
succintamente Timothy, grattandosi pensosamente la guancia coperta di barba
scura.
Winter, al contrario, era perfettamente rasato, e i
capelli neri come ali di corvo erano tagliati e pettinati a regola d’arte.
Nulla, nella sua figura, era fuori posto. Dal Dior
Homme grigio scuro che indossava su una camicia botton-down di cotone bianco,
alla cravatta Regimental al righe blu e rosse, alle scarpe nere e lucide, tutto
appariva perfetto, senza difetti di sorta.
Un maledetto perfezionista, ecco cos’era.
Dalla morte di Erin poi, tutto era peggiorato, se
possibile.
Winter si era chiuso in se stesso, lasciando che il
suo cuore battesse solo per il figlio e per la sua famiglia, mentre all’esterno
riversava soltanto la sua passione per il lavoro e poco altro.
Iceman, lo chiamavano, e a ben donde.
Non un cedimento, non un sorriso di troppo, non una
battuta.
Winter era gelido come l’inverno, di nome e di fatto.
«Ottimo. Non mi va di aspettare troppo» annuì una sola
volta Winter, poggiando la sua ventiquattrore sul tavolo di vinile scuro.
Era difficile immaginarlo con un completo da neve
della North Face, specialmente quando si presentava così abbigliato, ma tant’era.
Winter sapeva esattamente cosa fare, quando farla, e come farla.
E Timothy non si sarebbe stupito più di tanto se, i
carotaggi nel ghiaccio, li avesse fatti in completo gessato e parlando al
telefono con il Presidente degli Stati Uniti.
«I membri della squadra sono già stati nominati?» si
informò distrattamente Winter, estraendo le ultime planimetrie satellitari
dello Stretto.
«Big Mama ci ha mandato Rowena Simms, Malick Nejad e
una nuova… aspetta… ho il nome da qualche parte…» borbottò Timothy, scartabellando
tra i suoi appunti.
Winter si lasciò andare ad un rapido sogghigno.
Big Mama altri non era che il loro supervisore, un
donnone alto più di un metro e ottanta e con una stazza che avrebbe fatto
invidia ai più titolati pesi massimi della boxe.
Era buona come il pane finché tutto filava liscio ma,
se qualcosa non rientrava nel suo particolarissimo spettro di idee, allora era
la fine. Si scatenava in tutta la sua forza distruttrice e chi si fosse trovato
troppo vicino al suo raggio d’azione, avrebbe passato un brutto, bruttissimo
quarto d’ora.
Personalmente, la adorava, ma Winter sapeva che poteva
essere anche un’emerita stronza, quando voleva.
Il che voleva anche dire che, in quella missione,
avrebbero potuto ritrovarsi con il figlio di un idiota che lei non sapeva dove
piazzare, oppure con un autentico genio delle trivellazioni.
Tutto dipendeva da come si era svegliata quella
mattina.
«Ah, ecco!» esclamò all’improvviso Timothy,
richiamando l’attenzione di Winter. «Dottoressa… ah, dottoressa Kimberly Clark,
laureata a Yale, ha un Master in paleoclimatologia e uno in ingegneria. Ha
lavorato presso alcuni laboratori privati subito dopo essere uscita
dall’università prima di fare domanda qui al NOAA. Ma mi stai ascoltando, Hamilton?»
Non appena Winter aveva udito quel nome, ogni
particella del suo corpo si era come frizzata e gli occhi si erano spalancati
lentamente mentre, con ondate sempre più forti, antichi ricordi si erano
riversati nella sua mente.
Profumo di crostata di ciliegie si era mescolato ad autunni
passati a scaldare le caldarroste sul barbecue di casa Clark mentre sua madre,
Camille, preparava cioccolata calda per tutti.
Non era possibile che fosse proprio lei, eppure…
Levando il capo in direzione della porta non appena
questa si aprì, Winter esalò un sospiro di autentica sorpresa e, prima che
potesse bloccarlo, un unico nome scaturì dalle sue labbra: «Kimmy?»
≈≈≈
Non
sapeva esattamente cosa aspettarsi dal suo nuovo lavoro ma, di certo, tutti
l’avevano messa in guardia sul suo supervisore e capo della spedizione.
Tutti, nessuno escluso, le avevano detto che, del
Dottor Hamilton, bisognava avere rispetto e paura.
Quando aveva chiesto il suo nome, nessuno aveva voluto
dirlo perché, testuali parole, non ci si rivolgeva mai a lui per
nome, a meno di non aver ricevuto il permesso di farlo – cosa che non capitava
mai – quindi era superfluo conoscerlo.
Quel particolare l’aveva sconcertata, perché lei era
abituata a dialogare con i colleghi senza alcun problema e, soprattutto,
trattava tutti come pari, senza alcuna distinzione tra i ruoli.
Possibile che esistesse davvero il mostro che tutti le
avevano descritto?
Bravo, competente, efficiente, intuitivo ma, a conti
fatti, gelido. Imperscrutabile.
Non era del tutto sicura che si sarebbe trovata bene a
lavorare con un simile concentrato di bravura e, al tempo stesso, di
stronzaggine, ma tant’era.
Lei voleva quel lavoro a tutti i costi, e non era
detto che le sarebbe sempre toccato lavorare con quest’uomo.
Quando aprì la porta della sala riunioni, dove avrebbe
incontrato i suoi futuri colleghi, non si aspettò di certo di percepire
quell’antico nome, e mormorato dall’uomo più improbabile che si sarebbe mai
aspettata di incontrare.
Il volto era cambiato, così come tutto il resto, ma
gli occhi restavano quelli che lei aveva sempre ammirato.
Quegli occhi grigi, capaci di catturare la luce in
mille sfumature diverse, così come solo il ghiaccio è capace di fare.
Solo che…
Avevano qualcosa di diverso anche loro, nonostante
sapesse bene a chi appartenevano.
Spalancando la bocca per la sorpresa, al pari
dell’uomo alto e bruno che la stava scrutando come se non si aspettasse di
vedere proprio lei, Kim esalò: «Win?»
Timothy strabuzzò gli occhi, terrorizzato.
Rapido, lanciò un’occhiata in direzione del suo capo,
forse aspettandosi qualche reazione violenta a quella deliberata infrazione al
codice non scritto che vigeva nel loro gruppo, ma nulla trovò se non sconcerto.
Avanzando lentamente, una mano che tratteneva la
tracolla della sua borsa mentre gli occhi verde giada ancora indugiavano sul
viso dagli zigomi alti e la mascella squadrata di Winter, Kimberly mormorò
ancora: «Sei tu, vero?»
«Vi… vi conoscete?» si azzardò a chiedere Timothy, già
pronto a correre ai ripari in caso di un’esplosione ritardata da parte di
Hamilton.
La voce dell’uomo riscosse quel tanto che bastò Winter
da permettergli di uscire dall’immenso gorgo in cui era finito con l’entrata in
scena di Kim e, ricompostosi in fretta, annuì e disse: «Sì, Timothy. Siamo
vecchi vicini di casa.» Poi, rivolto nuovamente lo sguardo verso Kim, aggiunse:
«Kimberly Clark, lascia che ti presenti Timothy Walker, nostro meteorologo di
fiducia.»
«Tanto piacere, Dottor Walker» mormorò la donna,
ancora vagamente confusa dalla reazione del vecchio amico.
Senza dare a vedere quanto il comportamento freddo di
Winter l’avesse colpita e, sì, ferita, Kim allungò una mano in direzione
dell’uomo alto e magrolino che le venne presentato.
Sorridente, strinse con forza prima di volgere lo
sguardo in direzione dell’uomo che un tempo era stato suo amico, e domandare:
«E’ lecito stringere la mano anche a te?»
«Certamente» annuì Winter, formale quanto pacato.
Kim si chiese nuovamente il perché di quella reazione.
Non si era sbagliata, l’aveva sentito sussurrare ‘Kimmy’,
il nomignolo con cui l’aveva sempre chiamata quando erano bambini.
Quindi, perché comportarsi come se tra loro non vi
fosse stata una bella quanto profonda amicizia?
Nello stringere quella mano dalla carnagione pallida –
Winter non aveva mai preso la tintarella, neppure sotto il sole cocente – Kim
si chiese cosa fosse successo ma, quando provò a leggere in quegli occhi
chiari, trovò solo una barriera insormontabile.
La luce di un tempo, del bambino a cui lei tanto si
era affezionata, non c’era più.
Era completamente svanita.
Molto più tardi, studiando con calma il riassunto del
programma di viaggio che avrebbero intrapreso da lì a dodici giorni, Kim si
ritrovò a rimuginare sulla riunione appena terminata.
Winter era stato bravissimo nell’esporre tutto ciò che
avrebbero fatto nello Stretto di Bering per circa un mese.
A giudicare dalle espressioni cariche di ammirazione
di tutti, le era parso chiaro quanto il solo pensiero di poter lavorare con lui
avesse stimolato i suoi colleghi.
A lei, però, qualcosa non tornava.
Dov’era finito il bambino sorridente e gagliardo di un
tempo?
Perché Winter era più gelido di un pupazzo di neve?
«Ah, sei ancora qui?» esordì una voce alle sue spalle.
Volgendosi a mezzo sulla sedia girevole che occupava,
un lecca-lecca al lampone in bocca e la carpetta con gli appunti poggiata in
grembo, Kim sorrise spontaneamente nel vedere Timothy e, tolto il chupa-chups
per parlare, domandò: «Ciao. Avevi bisogno di me?»
L’uomo la osservò per un attimo, i jeans schiariti su
un paio di stivali da cowboy e un pesante maglione di lana marrone scuro, prima
di chiederle: «Davvero tu e Hamilton eravate amici?»
«Vicini di casa, di sicuro. Amici, … me lo sto
domandando anch’io» ammise Kim, poggiando sul tavolo della sala riunioni gli
appunti per dedicarsi completamente a Timothy.
Lui si sedette poco più in là e le disse: «Non vorrei
che partissi con il piede sbagliato, con lui, perché può esserti di grande
aiuto per la tua carriera.»
Kim annuì cauta e l’uomo, preso un bel respiro,
ammise: «Hamilton non è cattivo, credimi. Solo che, da quando è morta la
moglie, non è più lo stesso. Certo, non brillava per battute di spirito neanche
prima ma… oh, non lo sapevi… che era sposato, intendo…»
Non appena Timothy aveva accennato al matrimonio di
Winter, Kim aveva strabuzzato gli occhi, solo per ritrovarsi con il desiderio
di piangere non appena aveva saputo della morte della moglie del suo vecchio
amico.
Davvero un po’ troppo, per lei, e in così pochi
secondi.
Deglutendo a fatica, Kim ammise: «Io e Winter non ci
vediamo da anni, … oddio, da vent'anni, per la precisione. Quando i suoi
genitori morirono, lui e i fratelli furono costretti a trasferirsi lontano da
Washington, assieme alla zia, e così persi le sue tracce. Non avevo la minima
idea che si fosse sposato e… beh, che fosse vedovo.»
Timothy annuì tra sé, proseguendo nel dire: «Sua
moglie Erin morì di leucemia, lasciandolo solo con un bimbo di quattro anni. Da
quel giorno, si è chiuso in se stesso e mette anima e corpo in ogni progetto,
lasciando tutte le emozioni al di fuori di questo palazzo. Qui, è una macchina
senza freni, se capisci che intendo dire.»
«Penso di averne assaggiato sulla lingua la
sensazione» asserì Kim, storcendo la bocca. «Quindi, non dipende da me il fatto
che si sia comportato in maniera così fredda.»
«No, è così con tutti. Si scioglie solo in presenza
del figlio e delle sorelle.»
«Oh… e il fratello? Autumn?» esalò stupita Kim.
Timothy sbatté le palpebre, più che mai sorpreso e
Kimberly, fissandolo apertamente confusa, mormorò: «Non sapevate che aveva
anche un fratello gemello?»
«Lo scopro ora. Hamilton non ne ha mai parlato. Ma
adesso che lo nomini, però, mi sembra che una volta, in compagnia di sua
sorella Spring, lo abbia accennato.» Poi, con un sorrisino, aggiunse: «Certo
che chiamarli come le quattro stagioni è stato buffo.»
«Non se avessi conosciuto i suoi genitori» replicò con
un sorriso affettuoso Kim. «Camille e Anthony Hamilton erano persone molto
devote ai vecchi culti celtici, osservavano le antiche festività come Beltane2
o Imbolc3 e perciò, avendo avuto quattro gemelli, suppongo abbiano
pensato fosse carino chiamarli così.»
«Credo dovrò studiarmi un po’ la storia irlandese,
perché non ho idea di cosa siano le celebrazioni cui hai accennato» ammise
Timothy, ridacchiando imbarazzato.
Kim sorrise, ricordando i bei falò accesi nel giardino
per la notte di Beltane, che i cristiani associavano a Calendimaggio, in cui si
onoravano la fertilità della terra e i suoi frutti preziosi.
Con loro aveva passato solo pochi anni, ma aveva
imparato ad apprezzare i coniugi Hamilton, la curiosa zia Brigidh, che tanto le
ricordava le storie irlandesi sulle fate dei boschi, e i quattro gemelli dai
bizzarri nomi.
Rammentava con calore ogni attimo passato a giocare
con loro, a festeggiare con succo di mele e crostatine ai frutti, mentre gli
adulti brindavano a sidro o fumavano sigari.
I suoi genitori avevano sentito profondamente la loro
mancanza, in quegli anni di separazione forzata, ma dubitava fortemente che sua
madre e suo padre avrebbero riconosciuto il gaio bambino di un tempo nel Winter
freddo e posato di adesso.
Forse ne sarebbero rimasti sconvolti, esattamente come
era rimasta sconvolta lei.
≈≈≈
Il
cielo ribolliva feroce, pronto a scaricare una nuova ondata di neve pallida e
fredda, ma Winter non vi badò molto.
Percepiva, senza bisogno di osservare le nubi scure,
la pressione dei fiocchi cristallizzati e pronti a cadere a terra.
Non era necessario che lui vedesse con i suoi occhi il
formarsi della tempesta. La avvertiva anche se si trovava sottoterra, nel
parcheggio del Centro.
Se si fosse concentrato, avrebbe anche potuto dire a
che ora sarebbe iniziata la nevicata e quanta neve sarebbe caduta, ma non
voleva sprecare i suoi poteri per simili sciocchezze.
Quel che gli bastava sapere era che sarebbe giunto a
casa ben prima dell’inizio della tempesta che, a conti fatti, non avrebbe
causato seri danni, ma solo qualche impiccio in più al traffico.
Ovviamente, se avesse anche soltanto subodorato un
pericolo per la città, avrebbe fatto diramare un allerta meteo, ma quel giorno
non era il caso.
Quindici centimetri di neve non causavano danni di
rilievo, solo qualche imprecazione più del solito.
Sapeva di possedere quel dono fin dalla culla. Era
galleggiato nel suo sangue ancestrale come liquido freddo, conferendogli i suoi
poteri e predicando ciò che ogni saggio deve sapere.
Mai far del male, mai levar mano, mai diriger pena su
alcuno.
Era un Mantra che si ripeteva all’infinito nella mente
di ciascuno di loro, depositari dei poteri degli elementi e portatori del dono
ancestrale della magia ricevuto dagli stessi Tuatha de Danann4,
tanti secoli or sono, dai suoi primi discendenti.
Oh, certo, se avessero dovuto difendersi dalle
Tenebre, avrebbero potuto usare ciò che gli antichi dèi avevano conferito loro,
ma non avrebbero mai e poi mai dovuto abusarne.
Non era questo lo scopo.
Il tempo dei giganti era terminato, e loro erano tra gli
ultimi custodi delle antiche credenze e degli ancestrali riti. Loro compito era
mantenere in vita la stirpe, non certo scatenare guerre o conquistare popoli.
Pur se avrebbero potuto.
Winter levò la mano che teneva saldamente le chiavi
dell’auto e sorrise tra sé.
Se l’avesse desiderato, avrebbe potuto scatenare tsunami così violenti da radere al suolo
l’intera East Coast, o far sprofondare sotto metri di neve intere città, ma
tutto questo a cosa lo avrebbe portato?
A nulla.
Non desiderava potere, ricchezze o dominio. Voleva
solo vivere serenamente con suo figlio, visto che una parte del suo cuore gli
era già stato strappato con violenza.
A quello, nessuno dei loro poteri aveva potuto porre
rimedio. Perché c’era una Legge, una sola, che neppure i loro poteri potevano
intaccare.
La Morte non conosceva patti, né dilazioni.
A Lei non si poteva dire di no. Neppure loro potevano
farlo.
Ed Erin ne era stata consapevole fin da quando il
dottore aveva diagnosticato quella tremenda verità. Aveva sorriso di fronte al
suo shock iniziale e l’aveva pregato di non piangere, di prendersi cura di
Malcolm e di amarlo più di se stesso.
La dolce Erin, figlia di una famiglia di antichi
druidi. Lei aveva saputo tutto della sua discendenza, del nome che portava
dentro di sé.
E lui non aveva potuto salvarla, pur volendolo.
La Nera Signora l’aveva condotta via durante la notte,
strappandola ad un sonno miracolosamente tranquillo.
La moglie lo aveva lasciato con un dolore lancinante a
bruciargli il petto, e un bambino troppo piccolo per capire pienamente la
portata della perdita subita.
«Non ci posso credere!» esclamò una donna a poca
distanza dalla sua auto.
Winter perse di vista il corso nebuloso dei suoi
pensieri per levare il capo, cercando di comprendere cosa fosse successo di
così tremendo per scatenare un’ira così violenta.
Con un mezzo sorriso, si ritrovò a fissare Kimberly
alle prese con il cofano sollevato della sua piccola Ford Fiesta color
smeraldo.
L’aria accigliata e lo sguardo inferocito, Kim se ne
stava dinanzi all’auto fissando il blocco motore come se fosse stato il suo più
acerrimo nemico, le mani piantate sui fianchi come pronte a prenderlo per un
ipotetico collo.
Aperta la sua Toyota, Winter vi posò all’interno la
ventiquattrore dopodiché, avviatosi verso la vecchia amica, asserì seriamente:
«Denoto che tu e la tua auto state avendo un diverbio acceso.»
Sobbalzando di sorpresa, Kim si volse verso di lui
sgranando gli occhi per alcuni attimi prima di abbozzare un sorrisino e
replicare: «Diverbio spento, più che altro. Non ne vuol sapere di
partire.»
Senza minimamente dare adito di aver recepito la
sottile battuta di spirito di Kim, Winter lanciò un’occhiata veloce al motore –
che appariva in ordine – prima di aprire lo sportello dell’auto e tentare un
avvio.
L’auto borbottò asmatica prima di mollare la presa e
Winter, annuendo tra sé, le domandò: «Quanti anni ha, l’auto?»
«Cinque, perché?»
«E non hai mai cambiato la batteria?»
Kim lo fissò come a voler dire: “Batteria? Cos’è
una batteria?”.
Grattandosi distrattamente la fronte con un dito
inguantato, Winter le spiegò
succintamente: «Hai un problema alla batteria. E’ andata. Lo può fare, dopo
qualche anno. I controlli periodici li hai fatti regolarmente, vero?»
«Se ne occupa mio padre, lo ammetto» sospirò Kim,
arrossendo leggermente.
Annuendo, Winter tornò a guardare l’auto e mormorò: «Alfred
era bravo coi motori, se ben ricordo, quindi non è un problema di manutenzione.
Temo proprio tu abbia bisogno di una batteria nuova.»
«Ottimo» bofonchiò Kim, intrecciando le braccia sotto
il seno.
Winter chiuse il cofano con un gesto esperto della
mano, afferrò le chiavi dell’auto dal dito di Kim e chiuse elettronicamente la
Fiesta prima di dirle: «Ti accompagno a casa, e domani ti metterò la batteria
nuova, va bene?»
Kim tornò a fissarlo con aria stranita.
E a ben donde.
Non
che Winter non si fosse dimostrato gentile, ma il suo tono avrebbe potuto
essere quello di un perfetto sconosciuto.
«Grazie. Ma posso chiamare un taxi» riuscì a
bofonchiare Kim.
Con quel Winter che non riconosceva affatto,
non sarebbe mai salita in auto.
«Sciocchezze. Sarebbe uno spreco di soldi» la liquidò
in fretta lui, afferrando la sua borsa di tela da terra per poi tornarsene alla
Toyota.
«Ehi!» sbottò la donna, seguendolo a passi pesanti e
strascicati. «Mister Gentilezza, chi te l’ha detto che ho accettato il tuo
passaggio?»
«Il tuo buonsenso. O l’hai perso del tutto?» replicò l’uomo,
aprendo l’auto per poggiare la sacca di Kim sul sedile posteriore.
«Non ricordo di averlo mai avuto» ringhiò lei, aprendo
lo sportello dell’auto prima che potesse farlo lui.
Winter non diede adito di aver notato la sua
irritazione, perché si limitò a salire e dire: «Io mi ricordo una bambina che
sapeva quando dire ‘grazie’.»
«Beh…» iniziò col dire Kim, prima di tapparsi la
bocca. In effetti, era vero.
Win mise in moto senza più aprire bocca e lei, non
avendo neppure il conforto del rombo del motore a riempire il silenzio caduto all’interno
dell’abitacolo – l’auto era elettrica –, non poté far altro che giocherellare
con le dita e chiedersi cosa fare.
«Abiti sempre con i tuoi?» le domandò ad un certo
punto Winter, infilandosi nella via e lasciando che si inserisse il motore a
benzina.
Quel nuovo brusio le diede un po’ di sollievo e,
scuotendo il capo, replicò: «Vivo in un piccolo appartamento, a Randle Place
Southeast… conosci la zona?»
Winter digitò il nome sul navigatore satellitare e,
pragmatico, mormorò: «La conosce lui.»
«Oh» si limitò a bofonchiare lei.
«Ebbene… come stanno i tuoi genitori?» chiese a quel
punto l’uomo, lo sguardo puntato sulla strada trafficata delle sette di sera.
«Guarda che non sei tenuto a fare l’educato, se non
vuoi» ci tenne a dire Kimberly, sbirciandone il profilo.
Era affilato, elegante e denotava una sicurezza
davvero inquietante. Pareva non avere paura di nulla e di nessuno.
«Mi interessa, invece» asserì Winter, svoltando
leggermente a sinistra.
«Dal tono, non si direbbe» si lasciò sfuggire Kim,
prima di tapparsi la bocca, spiacente. «Scusa.»
«Timothy non ti ha detto che il mio caratteraccio è
causato dalla mia triste storia?» la accusò bonariamente Win, facendola
sobbalzare sul comodo sedile di pelle chiara.
«Oh, ma… hai origliato?» lo accusò lei prima di darsi
della stupida. Winter non l’avrebbe mai fatto.
«So che è solito raccontare a tutti i nuovi membri i
motivi del mio… modo di fare? Si può dire così?» Il suo tono fu così pacato che
Kim ridacchiò.
Winter le lanciò un’occhiata sorpresa e lei, a mo’ di
spiegazione, mormorò: «Non ti senti minimamente insultato dalla sua
sfacciataggine?»
«Semplifica le cose» chiosò lui, sorprendendola
ulteriormente.
«Comunque, mi spiace per tua moglie. Credimi» sussurrò
lei, arrischiandosi a sfiorare la mano di Winter, che riposava sul cambio.
La sua reazione la sorprese. E la ferì.
Lui ritirò immediatamente la mano, come se si fosse
ustionato, e la riportò in fretta sul volante, stringendolo con così tanta foga
da far sbiancare le nocche.
Kim, a sua volta, strinse le proprie in grembo e
mormorò delle stentate scuse prima di sentire Winter mormorare: «Scusami tu. E’
che… non mi piace essere toccato, tutto qui. Non c’entri nulla, va bene?»
«Sei cambiato davvero tanto» ammise lei, tornando a
scrutarlo dubbiosa.
«Sono cambiate tante cose» si limitò a dire lui,
chiudendo il discorso col suo tono lapidario.
Kim preferì non proseguire nel discorso e Winter, in
cuor suo, ne fu felice.
Non aveva davvero desiderato ferirla, ma il tocco della
sua mano gli aveva procurato più dolore di quanto non potesse sopportare in
quel momento. Pur sapendo di essersi comportato male, non poté fare altro che
proseguire senza più aprire bocca.
Non riusciva ad essere diverso.
Era Winter solo con Malcolm, Spring, Summer e zia
Brigidh. Con gli altri, beh… era solo quello che rimaneva di lui.
E, a quanto pareva, era rimasto ben poco dalla morte
di Erin.
Quando infine raggiunse la via, costellata di una
serie di palazzi a due piani in mattoncini rossi e circondati da filari di
piante del tutto prive di fogliame, Winter le domandò a che numero dovesse
recarsi.
Dopo averglielo mormorato, Kim smontò non appena
l’auto si fermò e recuperò in fretta la sua sacca.
Con un ‘grazie’ biascicato, si rifugiò al
sicuro all’interno del palazzo e, solo quando si chiuse alle spalle la porta a
vetri dell’ingresso, ebbe il coraggio di voltarsi indietro.
L’auto di Winter era ancora lì, forse in attesa che
lei raggiungesse sana e salva il suo appartamento.
Lo salutò con un cenno della mano e fuggì via,
allontanandosi da quell’uomo che, a conti fatti, non riconosceva per nulla.
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1 NOAA: Nazional Oceanic and Atmospheric Administration. Agenzia Federale Americana per il controllo degli eventi atmosferici e oceanici. Più in generale, si occupa di tutti gli eventi geologici della Terra, con particolare attenzione al suolo americano.
2 Beltane: Festività celtica che si trova a metà tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate. Astronomicamente, cade il 5 maggio e, durante l’occupazione cristiana nelle terre celtiche, essa prese il nome di Calendimaggio.
3 Imbolc: Festività celtica del 2 febbraio.
4 Tuatha de Danann: nella mitologia celtica, erano potenti dèi conquistatori delle terre Irlandesi.