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Autore: Mary P_Stark    31/10/2013    3 recensioni
Quattro sono gli elementi. Terra, Aria, Fuoco, Acqua. Quattro sono i gemelli Hamilton, depositari di questi antichi poteri. Loro sono le storie che qui narrerò, intrise di amore e magia. Winter, primo tra i gemelli, è rinchiuso in un gelido dolore da cui non vuole uscire, dopo la morte della moglie. Neppure il figlio Malcolm riesce completamente a liberarlo da questa prigione volontaria. Potrà la sua antica fiamma, Kimmy, riportarlo a nuova vita? SERIE "THE POWER OF THE FOUR" - 1° RACCONTO
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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- Questa storia fa parte della serie 'The Power of the Four'
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Capitolo 2

 

 

 

 

Malcolm dormiva saporitamente nel suo letto, al sicuro nella loro casa su Burton Street, nella contea di Silver Spring, in Maryland.

A conti fatti, Silver Spring era una costola di Washigton, pur rimanendo di fatto nello Stato confinante. Ormai, non vi erano più confini ben definiti fra le due identità cittadine.

E, fortuna delle fortune, il NOAA distava davvero poco da casa loro, trovandosi a sua volta nella stessa contea.

La villetta a due piani dove abitava Winter era circondata da begli alberi di maggiociondolo e carpino, ora totalmente esfoliati, ed era suddivisa in due appartamenti separati: uno per lui e Malcolm, l’altro per Spring.

Summer, la rissosa e focosa Summer,– quando era a Washington – abitava in un loft in centro, ma i suoi frequenti viaggi in giro per il mondo a studiare vulcani le impedivano di sfruttarlo come lei avrebbe voluto.

Zia Brigidh abitava in una graziosa villetta a poca distanza da loro, su Woodland Drive, e non ne voleva sapere di trovarsi un uomo con cui dividere la vita, nonostante fosse ancora una donna più che attraente.

Seduto a gambe accavallate sulla sua poltrona preferita, lo sguardo perso in visione di una partita di football che non stava realmente guardando, Winter ingollò in un sol sorso il whisky che si era versato neppure un minuto prima.

Spring, che era indaffarata a terminare un ricamo da applicare ad una sua creazione floreale, mormorò: «Da quando ti sei dato all’alcool, Win?»

«Perché sei ancora qui, Spry? Non hai una casa in cui andare?» la minacciò bonariamente Winter, levandosi in piedi per raggiungerla al tavolo della sala.

Spenta la TV, Win si accomodò accanto alla sorella, le cui chiome biondo dorato erano malamente trattenute da una crocchia sulla nuca, da cui scivolavano lisce ciocche sulle sue esili spalle.

Spring era sempre stata un asso, nel ricamo, ma quello che stava terminando era un autentico capolavoro.

Le sagome di due sposi in un ambiente silvestre erano davvero stupefacenti, così come lo scintillio argenteo del velo di lei.

«I miei complimenti. Sta venendo benissimo. Dove lo metterai?» mormorò il fratello, ammirando la sua opera.

Sorridendo al fratello, Spring gli spiegò succintamente il suo progetto. «Sarà nel bel mezzo di un centro tavola contornato di rose bianche, tee rosa e splendide scarlet carson. Il tutto abbellito con del velo da sposa e delle foglie di agrifoglio, visto che il matrimonio sarà in prossimità del Natale. Che ne pensi?»

«Che sei un genio» asserì lui, dandole un bacio sulla tempia.

«E tu sei preoccupato» aggiunse lei, ammiccando.

«Non ti si può nascondere proprio niente, eh?» sogghignò Winter.

«Sei arrivato a casa con una faccia! Non ho detto niente davanti a Malcolm, però avevo capito che qualcosa ti turbava. Ebbene?»

«Ho rivisto Kimmy, oggi» ammise Winter.

Spring fece tanto d’occhi prima di aprirsi in un sorriso estatico ed esclamare: «Oh, ma… che bello! E come sta? E’ sposata? Ha dei figli? Dimmi tutto!»

«Penso di averla offesa a morte» mormorò il gemello, fissandola con aria colpevole.

Accigliandosi immediatamente, e dando una sfumatura d’acciaio ai suoi occhi azzurro cielo, Spring ringhiò: «In che senso? Spiegati!»

«Per farla breve, mi stava facendo le condoglianze per Erin e mi ha sfiorato la mano in un gesto di comprensione… ed io mi sono scostato. So che non avrei dovuto farlo, ma… insomma…» borbottò Winter, passandosi una mano tra i corti capelli neri.

Spring annuì, perdendo del tutto il desiderio di mettere il broncio per il comportamento del fratello e, sospirando, poggiò il capo contro la sua spalla. «Ti capisco, Win. Ma chiuderti in eterno il mondo alle spalle non servirà a riportare in vita Erin. Kimmy potrebbe capirti. Eravate così amici! Perché non…»

Bloccandola immediatamente, Winter ringhiò: «No. Non se ne parla.»

La gemella lo fissò spiacente e, con gentilezza, gli sfiorò una mano e gli infuse un po’ del suo calore umano, frammisto ad un tocco di potere, che riverberò nella stanza sotto forma di un candido profumo di fresia.

Win a quel punto le sorrise contrito e mormorò: «Non dovrei affatto prendermela con te, Spry. Scusami.»

«Hai tutti i diritti di fare il sostenuto, in questi casi. Io non so cosa vuol dire perdere una persona a cui si era così legati… con l’eccezione di mamma e papà, ma quella è stata una cosa diversa» sorrise bonaria lei, dandogli un pizzicotto sul dorso della mano.

«Già, fu una cosa diversa» assentì Win, piegandosi per darle un bacio sulla tempia. «Vai a riposare un po’. Hai l’aria stanca, perciò suppongo che oggi sia stata una giornata dura, in negozio.»

«Un poco… ma nulla che non sia in grado di affrontare» ammise stentatamente Spring, prima di mostrare i muscoli e sogghignare.

Il gemello rise sommessamente, annuendo al suo indirizzo prima di chiosare: «La mia indistruttibile Spry.»

«Super-Spry!» annuì con vigore la donna, ammiccando.

≈≈≈

Non ci poteva credere.

Là fuori, nell’uggiosa e fredda mattina di fine autunno, l’auto chiara di Winter si intravedeva appena, spettrale evanescenza che, solo a stento, Kim non aveva scambiato per un’emanazione della sua fantasia sfrenata.

Erano le sette in punto.

L’orologio in vetro deformato, che richiamava le immagini oniriche di uno dei quadri di De Chirico, non sgarrava di un secondo e, a quanto pareva, neppure Winter.

Non aveva desiderato un suo passaggio ma, alle sei e ventidue precise, il suo cellulare aveva trillato in risposta ad un messaggio e lei, stordita dal sonno che si era fatto desiderare, quella notte, aveva letto a occhi sgranati ciò che Winter le aveva inviato.

Passo a prenderti alle sette. Ho la tua batteria. H.

Acca. Hamilton. Non aveva neppure usato l’iniziale del suo nome.

O la considerava poco più di una semplice collega, quindi non degna di un rapporto più personale, oppure la sua chiusura mentale era così radicata in lui da non fargli notare neppure quel misero particolare.

Con uno sbuffo infastidito, si era alzata dal letto con le stesse movenze di un pachiderma zoppo e, i capelli castano chiari sparpagliati come un velo stropicciato dinanzi al viso, si era diretta verso il bagno per una doccia rigenerante.

Ora se ne stava lì, la mano a sorreggere la tenda di cotone giallo chiaro a ricami di fiori bianchi, mentre scrutava dall’alto del secondo piano il tettuccio della Prius di Winter, indecisa sul da farsi.

Non aveva senso farlo aspettare ancora, eppure era restia a raggiungerlo.

«Coraggio, non fare l’idiota e scendi» si disse a mezza voce, lasciando andare la tenda per poi afferrare le chiavi della sua Ford e discendere in tutta fretta le scale di conglomerato marmoreo.

Chiusasi la porta d’ingresso dello stabile alle spalle, Kim si strinse maggiormente la sciarpa attorno al collo non appena avvertì il freddo abbraccio della nebbiolina di quella mattina di novembre.

Aperto lo sportello, si infilò all’interno dell’abitacolo già gradevolmente caldo e, stampatasi in faccia un sorriso il più possibile allegro, commentò: «Buongiorno! E’ un sollievo, per una volta, non entrare in un’auto congelata.»

«Buongiorno a te» mormorò Winter, ingranando la retromarcia per fare inversione. «Fa piuttosto freddo, in effetti. Ci sono solo due gradi.»

Osservando la nebbia cristallizzata che, con il procedere dell’auto lungo la via, lasciava sul parabrezza infinitesimali lacrime d’acqua ghiacciata e ricolma di tutta la porcheria che gravitava nell’aria dell’immensa metropoli, Kim annuì e mugugnò: «Ci da un’idea di quel che respiriamo, soprattutto.»

Winter annuì distrattamente, lanciando solo una breve occhiata alle tracce scure e umide lasciate sul parabrezza della Prius prima di dirle: «Sono solito fermarmi a uno Starbucks nelle vicinanze del Centro, per fare colazione. Tu l’hai già fatta?»

«Prenderò volentieri un secondo caffè. La mia carburazione mattiniera dipende in gran parte dalla quantità di caffeina che ingerisco» ammise Kimberly, volgendosi a mezzo verso il suo vecchio amico per studiarne l’espressione.

Appariva tranquillo, le pieghe del volto rilassate, gli occhi chiari vigili e attenti, nulla lasciava trapelare un’apparente ansia.

Quindi era solo lei a sentirsi agitata. La solita storia. Mai una volta che il suo self-control funzionasse a dovere.

Lappandosi le labbra, secche come prugne inaridite, Kim si affrettò a dire: «I miei genitori ti salutano. Ieri sera ho parlato con loro al telefono, e gli ho detto di te.»

Un microscopico, improvviso sorriso balenò sul suo volto per poi sparire veloce come era giunto, e dalle labbra di Win uscì un’imprevista risposta. «Li ricordo con affetto. Mamma e papà li adoravano.»

«Già. Andavano d’accordo» annuì Kim, tornando a scrutare il traffico in aumento sulle strade fumose di Washington D.C.

Rammentava bene i volti di Anthony e Camille, i loro sorrisi spontanei, il loro modo di vivere così sereno e spensierato… e le torte favolose che la madre di Winter sapeva sfornare nel bel mezzo di un pomeriggio noioso!

Un sorriso spontaneo le nacque sul viso acqua e sapone, del tutto privo di cosmetici e, in un sussurro, ammise: «Ricordo ancora il sapore della torta di more e lamponi di Camille. Mamma non è mai riuscita a farla uguale.»

«Lei ti avrebbe detto che il segreto stava nella polvere di fata» le rispose a sorpresa Winter.

Kim si volse completamente verso di lui per scrutarlo a fondo e, in un borbottio confuso, mugugnò: «Chi sei tu? Non sei il Winter di ieri. Che succede?»

La bocca morbida di Winter si piegò ancora più in su, pur non mostrando i denti e, contrito, ammise: «Spring mi ha fatto notare che sono stato cafone con te, ieri, così sto cercando di essere più… più ciarliero?»

Annuendo, Kim replicò: «Winter, non c’è bisogno che tu ti sforzi, se non te la senti di parlare del passato, o di argomenti che ti turbano. Posso accettare che tu sia diverso dal bambino che ho conosciuto un sacco di anni fa. Le persone cambiano.»

«Grazie» disse soltanto Winter.

Kim allora abbozzò un sorrisetto e chiosò: «Ah, ecco. Ora mi suona meglio.»

L’auto procedette tranquilla fino allo Starbucks lasciando che l’unico rumore udibile in cabina, oltre al ronzio del motore, fosse il chiacchiericcio soffuso della radio, accompagnato dai commenti a volte velenosi, a volte ironici, di Kim.

Winter si limitò ad ascoltare, rispondendo a monosillabi ad eventuali domande della donna, oppure consegnando al suo corpo le risposte che voleva regalare agli occhi dell’amica d’infanzia.

Impiegarono circa quaranta minuti per percorrere quel breve tratto di strada e, quando la Prius si fermò nel parcheggio di Starbucks, Kim esalò: «Perché la gente è già in giro a quest’ora? Non amano il loro letto?»

Winter uscì dall’auto e attese che anche la donna l’avesse imitato prima di chiudere le portiere e asserire: «New York è molto peggio.»

«Fosse per me, mi trasferirei alle Bahamas. Sveglia inesistente, venticinque gradi in ogni periodo dell’anno, un’amaca e via… vita da Nababbi.» Nel dirlo, sospirò con enfasi, tanto da portare Winter ad esibirsi in un mezzo sorriso.

Kim allora ridacchiò e gli chiese: «Mi spieghi dove l’hai trovata, una batteria?»

Aprendo per lei la porta a vetri del bar, Winter attese che Kim fosse entrata e, con tono sommesso, le spiegò: «Conosco un meccanico che tiene aperta l’officina 24h, così ho chiesto a lui se aveva il modello per la tua auto.»

Indicato un tavolino d’angolo, Kim si sedette all’assenso di Winter e si apprestò a curiosare il menù in cerca del tipo di caffè migliore per la sveglia mattutina.

Ordinato che ebbe un caffè macchiato con aggiunta di panna, la giovane sgranò lentamente gli occhi quando udì l’amico chiedere alla cameriera un doppio caffè con tre fette di torta di mirtilli, e un panino con prosciutto e lattuga da portar via.

Quando la cameriera se ne fu andata – dopo aver lanciato un’occhiata feroce a Kim – la donna mormorò: «Fuori il segreto. Non puoi mantenerti così in forma mangiando tre fette di torta ipercalorica tutte le mattine!»

Winter la fissò vagamente confuso prima di guardarsi e dire: «Le brucio. Non so in che altro modo risponderti.»

«Niente palestra? Niente, che so, arrampicata o kick boxing?» buttò lì Kim, sempre più sconcertata.

Scettico, Winter le replicò serafico: «Lavoriamo dodici ore al giorno negli uffici del NOAA, se tutto va bene, a casa ho un figlio da seguire e un’abitazione da tenere pulita. Devo fare le faccende domestiche, il bucato, stirare e, se posso, tentare di capire se Malcolm ha fatto tutti i compiti. Quando va veramente male, devo anche cercare di salvare da se stessa Spring che, per quanto eccezionale sul lavoro, a casa è un disastro. Questa è la mia palestra.»

«Oh, già. Suona incasinata… e sfiancante.» Gli occhi di Kim erano sgranati e bellissimi, sotto la luce a neon del locale, di un bel verde giada punteggiato, qua e là, di pagliuzze dorate.

«Molto incasinata, per usare le tue parole, e molto sfiancante» annuì Winter, cercando di non soffermarsi troppo sulla vista di quelle iridi così speciali. «Ma trovo comunque il tempo per correre almeno cinque miglia tutte le mattine.»

Il suo tono così tranquillo, gli occhi bassi a scrutare il menù e la sua espressione facciale indecifrabile mandarono così in confusione Kim che, quell’ultima uscita, impiegò alcuni attimi prima di immergersi nei suoi centri celebrali.

Quando finalmente ebbe recepito il suo messaggio, Kim esclamò: «Ah, ma allora la fai, ginnastica!»

E Winter non poté esimersi dal sorridere, dal sorridere veramente.

Quella era Kimmy, la piccola Kimmy, l’impertinente Kimmy. La sua Kimmy.

«L’ho visto, sai?» mormorò Kim, tornando seria.

Winter levò il capo a scrutarla e, scrollando le spalle, replicò: «Sebbene mi chiamino Iceman, al NOAA, non sono fatto di ghiaccio.»

A Kim spiacque per quel nomignolo davvero poco adatto al ragazzino che lei rammentava, ma ammise senza troppi problemi che l’uomo che aveva conosciuto solo il giorno precedente si avvicinava, e di molto, a una nomea del genere.

Ugualmente, disse: «Io non ti chiamerò mai, alle spalle, Iceman, se tu non chiamerai me Kermit con gli altri colleghi.»

Winter rimase basito per alcuni attimi prima di sogghignare e ammettere: «Non rammentavo la tua passione per quella rana di peluche ma, ora che me l’hai ricordato, lo terrò tra le mie armi di riserva.»

«Oh» esalò Kim, dubbiosa. «E cosa ci vorresti fare, con Kermit?»

Tornando a sfogliare il menù con assoluta tranquillità, lui mormorò pacato: «Farmi presentare Piggy per un appuntamento?»

A Kim non restò altro che scoppiare a ridere di gusto, gli occhi inondati da lacrime di ilarità.

Stava ancora ridendo sommessamente – mentre Winter aveva mantenuto il suo stoico sorriso di circostanza – quando la cameriera servì loro la colazione.

Ancora un’occhiata venefica e la ragazza si allontanò sventolando la corta gonnellina nera, del tutto ignorata dall’oggetto delle sue attenzioni ma ben osservata da Kim che, con una certa ironia, chiosò: «Se mi riporterai qui, mi metterà il veleno nel caffè. Da quanto tempo ci vieni?»

Apparentemente confuso dalla domanda, Winter mormorò nel sorseggiare il caffè bollente: «Da tre anni, perché?»

«Perché? Non hai notato che Miss-Biondo-Platino stravede per te?» gli confessò Kim, piegandosi lievemente sul tavolo con aria da cospiratrice.

Winter lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla per inquadrare la cameriera incriminata dopodiché, scuotendo il capo, replicò: «Non penso. Dopotutto, quanti anni potrà avere? Ventidue, ventitré? Sono troppo vecchio, per lei.»

«Non tieni conto del fascino dell’uomo maturo… e in carriera» gli ribatté lei, beneficiandolo di un’occhiata significativa.

Contrariamente a Kim, che indossava jeans invecchiati, stivali da cowboy e un pesante maglione sotto un parka imbottito e una sciarpa di lana fatta a mano, Winter era perfetto nel suo completo scuro di sartoria.

E il cappotto nero, che aveva appoggiato sulla sedia accanto alla propria, non era certo comprato in svendita.

«Non sono interessato» sentenziò lapidario Winter, poggiando con eleganza il menù sul tavolo.

La sua lunga mano pallida sfiorò esitante la copertina plasticata prima di afferrare il bicchiere di cartoncino del caffè e portarselo alle labbra, il tutto eseguendo movenze più simili a una danza che a un semplice, banale gesto qualunque.

Kim era sempre stata affascinata dal modo di muoversi di Win, fin da piccola.

Non era mai stato un bambino goffo o pressappochista e, di certo, non confusionario come erano stati Autumn o la focosa Summer, che non perdevano occasione per combinare guai o distruggere qualcosa.

«Kimberly» la richiamò sommessamente Winter, distogliendola dai suoi ricordi.

Sobbalzando sulla sedia, lei esalò: «Eh? Sì, dimmi.»

«Ne vuoi un po’?» le domandò Winter, indicando le torte.

«No, ti ringrazio. E poi, non vorrei mai che la cameriera mi lanciasse il vassoio per ripicca, vedendomi sbocconcellare la tua torta» scosse il capo Kim, indirizzando un’occhiata studiata alla ragazza, che si guardò bene dal distogliere lo sguardo. «Ecco, lo sapevo. Mi odia. Ed è tutta colpa tua.»

Ancora, Winter si volse per studiare la cameriera che, a quel punto, distolse gli occhi da Kim per sorridere all’uomo e rimettersi a lavorare alacremente per il locale già quasi pieno di persone.

«Davvero non capisco» dichiarò lui, scuotendo il capo. «Non mi sembra proprio di aver dato l’idea di una persona in cerca di compagnia femminile.»

«Forse il problema è proprio questo. Sai, la faccenda dell’uomo bello e impossibile, no?» commentò Kim, terminando di bere il suo caffè.

«Bello… e impossibile?»

Sospirando afflitta di fronte alla palese confusione del collega, Kim esalò sconcertata: «Sei un caso senza speranza, Winter. Finisci la tua torta e andiamocene, prima che quella mi azzanni al collo per marcare il territorio.»

«Dovrebbe fare ben altro, per marcare il territorio» precisò Winter, masticando un pezzo di torta con sommo gusto.

«Sei rimasto indietro coi tempi, Dottor Hamilton. Oggigiorno, le donne mordono perché si credono tutte vampire. Mai sentito parlare di Twilight?» ironizzò Kim, sogghignando.

«No, mi spiace. Sono rimasto al Dracula di Francis Ford Coppola.» Il suo diniego fu categorico.

«Si vede che hai un figlio maschio. Se avessi avuto una femmina, saresti ammattito dietro a Convention e Première» dichiarò convinta Kim, prima di tapparsi la bocca ed esalare: «Scusa. Forse non dovevo parlare di…»

Winter scosse una mano come per liquidare le sue scuse. «A Erin sarebbe piaciuta una femmina e, come dici tu, sarebbe ammattita per portarla in tutti i posti che la piccola le avrebbe proposto.»

Rincuorata dal tono di Winter, che non pareva stentato o sputato fuori dai denti a fatica, Kim si sentì di chiedere: «E tu non le avresti accompagnate?»

«Io? Me ne sarei ben guardato! So come siete voi donne, quando vi coalizzate» scosse il capo Winter, scrutando fuori dalla vetrina del locale con aria malinconica.

Era evidente che la sua mente era tornata a bei ricordi del passato, forse legati al rapporto tra la moglie e le sue cognate.

«Spring e Summer sono rimaste sempre le solite?»

«Spring ora ha un negozio di fiori qui nella contea di Silver Spring, dove abitiamo. Condividiamo una bifamigliare così, quando io sono via per lavoro, lei bada a Malcolm. Summer, invece, ha un loft in centro, ma è quasi sempre via come me per conto del NOAA. Ora è in Italia a studiare l’Etna.» La sua spiegazione scivolò fuori semplicemente, scontata, come se il tempo passato lontani non fosse mai esistito e Kim, sorridendo, poggiò il viso su una mano e lo scrutò felice.

Winter, vistosi osservato, le domandò confuso: «Che c’è?»

«Ora sei Win.»

Quel commento lo fece accigliare leggermente e Kim, vagamente sorpresa, gli chiese curiosa: «Ma perché ti chiudi subito a riccio, tutte le volte che esci un po’ dai regimi? Non fai nulla di male.»

«Lo credi tu» mormorò lui, terminando in tutta fretta la torta.

Ombroso come le nubi che gravitavano minacciose su Washington, Winter non aprì più bocca e Kim si guardò bene dall’insistere, troppo impegnata a rimuginare sulle sue ultime parole per poter replicare al suo silenzio.

Era inquietante con quanta facilità le avesse chiuso la porta in faccia dopo che, per qualche istante, aveva riscoperto in quegli occhi di ghiaccio vivo l’antica fiammella di un tempo.

Quando glielo aveva accennato, lui l’aveva richiusa nuovamente dietro uno schermo protettivo così alto che, ora, non riusciva più a scorgerlo in nessun modo.

Cosa lo avesse spinto ad una simile, repentina decisione restava da stabilire, ma Kim era più che certa che avesse a che fare con Erin.

E fu pensando a Erin che Kim, salendo nuovamente sulla Prius assieme ad un silenzioso Winter, esalò sconcertata: «Non puoi pensare davvero che la morte di tua moglie ti impedisca di vivere!»

Lui non le rispose, dando piena conferma alle sue parole e Kim, sgomenta, si chiese cos’altro tenesse fuori dalla sua vita, credendo di non meritarsela per via della morte prematura dell’amata.

  
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