Capitolo 2
Malcolm
dormiva saporitamente nel suo letto, al sicuro nella loro casa su Burton
Street, nella contea di Silver Spring, in Maryland.
A conti fatti, Silver Spring era una costola di Washigton,
pur rimanendo di fatto nello Stato confinante. Ormai, non vi erano più confini
ben definiti fra le due identità cittadine.
E, fortuna delle fortune, il NOAA distava davvero poco
da casa loro, trovandosi a sua volta nella stessa contea.
La villetta a due piani dove abitava Winter era
circondata da begli alberi di maggiociondolo e carpino, ora totalmente
esfoliati, ed era suddivisa in due appartamenti separati: uno per lui e
Malcolm, l’altro per Spring.
Summer, la rissosa e focosa Summer,– quando era a Washington
– abitava in un loft in centro, ma i suoi frequenti viaggi in giro per il mondo
a studiare vulcani le impedivano di sfruttarlo come lei avrebbe voluto.
Zia Brigidh abitava in una graziosa villetta a poca
distanza da loro, su Woodland Drive, e non ne voleva sapere di trovarsi un uomo
con cui dividere la vita, nonostante fosse ancora una donna più che attraente.
Seduto a gambe accavallate sulla sua poltrona
preferita, lo sguardo perso in visione di una partita di football che non stava
realmente guardando, Winter ingollò in un sol sorso il whisky che si era
versato neppure un minuto prima.
Spring, che era indaffarata a terminare un ricamo da
applicare ad una sua creazione floreale, mormorò: «Da quando ti sei dato
all’alcool, Win?»
«Perché sei ancora qui, Spry? Non hai una casa in cui
andare?» la minacciò bonariamente Winter, levandosi in piedi per raggiungerla
al tavolo della sala.
Spenta la TV, Win si accomodò accanto alla sorella, le
cui chiome biondo dorato erano malamente trattenute da una crocchia sulla nuca,
da cui scivolavano lisce ciocche sulle sue esili spalle.
Spring era sempre stata un asso, nel ricamo, ma quello
che stava terminando era un autentico capolavoro.
Le sagome di due sposi in un ambiente silvestre erano
davvero stupefacenti, così come lo scintillio argenteo del velo di lei.
«I miei complimenti. Sta venendo benissimo. Dove lo
metterai?» mormorò il fratello, ammirando la sua opera.
Sorridendo al fratello, Spring gli spiegò
succintamente il suo progetto. «Sarà nel bel mezzo di un centro tavola contornato
di rose bianche, tee rosa e splendide scarlet carson. Il tutto abbellito con
del velo da sposa e delle foglie di agrifoglio, visto che il matrimonio sarà in
prossimità del Natale. Che ne pensi?»
«Che sei un genio» asserì lui, dandole un bacio sulla
tempia.
«E tu sei preoccupato» aggiunse lei, ammiccando.
«Non ti si può nascondere proprio niente, eh?»
sogghignò Winter.
«Sei arrivato a casa con una faccia! Non ho detto
niente davanti a Malcolm, però avevo capito che qualcosa ti turbava. Ebbene?»
«Ho rivisto Kimmy, oggi» ammise Winter.
Spring fece tanto d’occhi prima di aprirsi in un
sorriso estatico ed esclamare: «Oh, ma… che bello! E come sta? E’ sposata? Ha
dei figli? Dimmi tutto!»
«Penso di averla offesa a morte» mormorò il gemello,
fissandola con aria colpevole.
Accigliandosi immediatamente, e dando una sfumatura
d’acciaio ai suoi occhi azzurro cielo, Spring ringhiò: «In che senso?
Spiegati!»
«Per farla breve, mi stava facendo le condoglianze per
Erin e mi ha sfiorato la mano in un gesto di comprensione… ed io mi sono
scostato. So che non avrei dovuto farlo, ma… insomma…» borbottò Winter,
passandosi una mano tra i corti capelli neri.
Spring annuì, perdendo del tutto il desiderio di
mettere il broncio per il comportamento del fratello e, sospirando, poggiò il
capo contro la sua spalla. «Ti capisco, Win. Ma chiuderti in eterno il mondo
alle spalle non servirà a riportare in vita Erin. Kimmy potrebbe capirti.
Eravate così amici! Perché non…»
Bloccandola immediatamente, Winter ringhiò: «No. Non
se ne parla.»
La gemella lo fissò spiacente e, con gentilezza, gli
sfiorò una mano e gli infuse un po’ del suo calore umano, frammisto ad un tocco
di potere, che riverberò nella stanza sotto forma di un candido profumo di
fresia.
Win a quel punto le sorrise contrito e mormorò: «Non
dovrei affatto prendermela con te, Spry. Scusami.»
«Hai tutti i diritti di fare il sostenuto, in questi
casi. Io non so cosa vuol dire perdere una persona a cui si era così legati…
con l’eccezione di mamma e papà, ma quella è stata una cosa diversa» sorrise
bonaria lei, dandogli un pizzicotto sul dorso della mano.
«Già, fu una cosa diversa» assentì Win, piegandosi per
darle un bacio sulla tempia. «Vai a riposare un po’. Hai l’aria stanca, perciò
suppongo che oggi sia stata una giornata dura, in negozio.»
«Un poco… ma nulla che non sia in grado di affrontare»
ammise stentatamente Spring, prima di mostrare i muscoli e sogghignare.
Il gemello rise sommessamente, annuendo al suo
indirizzo prima di chiosare: «La mia indistruttibile Spry.»
«Super-Spry!» annuì con vigore la donna, ammiccando.
≈≈≈
Non ci poteva credere.
Là fuori, nell’uggiosa e fredda mattina di fine
autunno, l’auto chiara di Winter si intravedeva appena, spettrale evanescenza
che, solo a stento, Kim non aveva scambiato per un’emanazione della sua fantasia
sfrenata.
Erano le sette in punto.
L’orologio in vetro deformato, che richiamava le
immagini oniriche di uno dei quadri di De Chirico, non sgarrava di un secondo
e, a quanto pareva, neppure Winter.
Non aveva desiderato un suo passaggio ma, alle sei e
ventidue precise, il suo cellulare aveva trillato in risposta ad un messaggio e
lei, stordita dal sonno che si era fatto desiderare, quella notte, aveva letto
a occhi sgranati ciò che Winter le aveva inviato.
Passo a prenderti alle sette. Ho la tua batteria. H.
Acca.
Hamilton. Non aveva neppure usato l’iniziale del suo nome.
O la considerava poco più di una semplice collega,
quindi non degna di un rapporto più personale, oppure la sua chiusura mentale
era così radicata in lui da non fargli notare neppure quel misero particolare.
Con uno sbuffo infastidito, si era alzata dal letto
con le stesse movenze di un pachiderma zoppo e, i capelli castano chiari
sparpagliati come un velo stropicciato dinanzi al viso, si era diretta verso il
bagno per una doccia rigenerante.
Ora se ne stava lì, la mano a sorreggere la tenda di
cotone giallo chiaro a ricami di fiori bianchi, mentre scrutava dall’alto del
secondo piano il tettuccio della Prius di Winter, indecisa sul da farsi.
Non aveva senso farlo aspettare ancora, eppure era
restia a raggiungerlo.
«Coraggio, non fare l’idiota e scendi» si disse a
mezza voce, lasciando andare la tenda per poi afferrare le chiavi della sua
Ford e discendere in tutta fretta le scale di conglomerato marmoreo.
Chiusasi la porta d’ingresso dello stabile alle
spalle, Kim si strinse maggiormente la sciarpa attorno al collo non appena
avvertì il freddo abbraccio della nebbiolina di quella mattina di novembre.
Aperto lo sportello, si infilò all’interno
dell’abitacolo già gradevolmente caldo e, stampatasi in faccia un sorriso il
più possibile allegro, commentò: «Buongiorno! E’ un sollievo, per una volta,
non entrare in un’auto congelata.»
«Buongiorno a te» mormorò Winter, ingranando la
retromarcia per fare inversione. «Fa piuttosto freddo, in effetti. Ci sono solo
due gradi.»
Osservando la nebbia cristallizzata che, con il
procedere dell’auto lungo la via, lasciava sul parabrezza infinitesimali
lacrime d’acqua ghiacciata e ricolma di tutta la porcheria che gravitava
nell’aria dell’immensa metropoli, Kim annuì e mugugnò: «Ci da un’idea di quel
che respiriamo, soprattutto.»
Winter annuì distrattamente, lanciando solo una breve
occhiata alle tracce scure e umide lasciate sul parabrezza della Prius prima di
dirle: «Sono solito fermarmi a uno Starbucks nelle vicinanze del Centro, per
fare colazione. Tu l’hai già fatta?»
«Prenderò volentieri un secondo caffè. La mia
carburazione mattiniera dipende in gran parte dalla quantità di caffeina che
ingerisco» ammise Kimberly, volgendosi a mezzo verso il suo vecchio amico per
studiarne l’espressione.
Appariva tranquillo, le pieghe del volto rilassate,
gli occhi chiari vigili e attenti, nulla lasciava trapelare un’apparente ansia.
Quindi era solo lei a sentirsi agitata. La solita
storia. Mai una volta che il suo self-control funzionasse a dovere.
Lappandosi le labbra, secche come prugne inaridite,
Kim si affrettò a dire: «I miei genitori ti salutano. Ieri sera ho parlato con
loro al telefono, e gli ho detto di te.»
Un microscopico, improvviso sorriso balenò sul suo
volto per poi sparire veloce come era giunto, e dalle labbra di Win uscì
un’imprevista risposta. «Li ricordo con affetto. Mamma e papà li adoravano.»
«Già. Andavano d’accordo» annuì Kim, tornando a
scrutare il traffico in aumento sulle strade fumose di Washington D.C.
Rammentava bene i volti di Anthony e Camille, i loro
sorrisi spontanei, il loro modo di vivere così sereno e spensierato… e le torte
favolose che la madre di Winter sapeva sfornare nel bel mezzo di un pomeriggio
noioso!
Un sorriso spontaneo le nacque sul viso acqua e
sapone, del tutto privo di cosmetici e, in un sussurro, ammise: «Ricordo ancora
il sapore della torta di more e lamponi di Camille. Mamma non è mai riuscita a
farla uguale.»
«Lei ti avrebbe detto che il segreto stava nella
polvere di fata» le rispose a sorpresa Winter.
Kim si volse completamente verso di lui per scrutarlo
a fondo e, in un borbottio confuso, mugugnò: «Chi sei tu? Non sei il Winter di
ieri. Che succede?»
La bocca morbida di Winter si piegò ancora più in su,
pur non mostrando i denti e, contrito, ammise: «Spring mi ha fatto notare che
sono stato cafone con te, ieri, così sto cercando di essere più… più
ciarliero?»
Annuendo, Kim replicò: «Winter, non c’è bisogno che tu
ti sforzi, se non te la senti di parlare del passato, o di argomenti che ti
turbano. Posso accettare che tu sia diverso dal bambino che ho conosciuto un
sacco di anni fa. Le persone cambiano.»
«Grazie» disse soltanto Winter.
Kim allora abbozzò un sorrisetto e chiosò: «Ah, ecco.
Ora mi suona meglio.»
L’auto procedette tranquilla fino allo Starbucks
lasciando che l’unico rumore udibile in cabina, oltre al ronzio del motore,
fosse il chiacchiericcio soffuso della radio, accompagnato dai commenti a volte
velenosi, a volte ironici, di Kim.
Winter si limitò ad ascoltare, rispondendo a
monosillabi ad eventuali domande della donna, oppure consegnando al suo corpo
le risposte che voleva regalare agli occhi dell’amica d’infanzia.
Impiegarono circa quaranta minuti per percorrere quel
breve tratto di strada e, quando la Prius si fermò nel parcheggio di Starbucks,
Kim esalò: «Perché la gente è già in giro a quest’ora? Non amano il loro
letto?»
Winter uscì dall’auto e attese che anche la donna l’avesse
imitato prima di chiudere le portiere e asserire: «New York è molto peggio.»
«Fosse per me, mi trasferirei alle Bahamas. Sveglia
inesistente, venticinque gradi in ogni periodo dell’anno, un’amaca e via… vita
da Nababbi.» Nel dirlo, sospirò con enfasi, tanto da portare Winter ad esibirsi
in un mezzo sorriso.
Kim allora ridacchiò e gli chiese: «Mi spieghi dove
l’hai trovata, una batteria?»
Aprendo per lei la porta a vetri del bar, Winter
attese che Kim fosse entrata e, con tono sommesso, le spiegò: «Conosco un
meccanico che tiene aperta l’officina 24h, così ho chiesto a lui se aveva il
modello per la tua auto.»
Indicato un tavolino d’angolo, Kim si sedette
all’assenso di Winter e si apprestò a curiosare il menù in cerca del tipo di
caffè migliore per la sveglia mattutina.
Ordinato che ebbe un caffè macchiato con aggiunta di
panna, la giovane sgranò lentamente gli occhi quando udì l’amico chiedere alla
cameriera un doppio caffè con tre fette di torta di mirtilli, e un panino con
prosciutto e lattuga da portar via.
Quando la cameriera se ne fu andata – dopo aver
lanciato un’occhiata feroce a Kim – la donna mormorò: «Fuori il segreto. Non
puoi mantenerti così in forma mangiando tre fette di torta ipercalorica
tutte le mattine!»
Winter la fissò vagamente confuso prima di guardarsi e
dire: «Le brucio. Non so in che altro modo risponderti.»
«Niente palestra? Niente, che so, arrampicata o kick
boxing?» buttò lì Kim, sempre più sconcertata.
Scettico, Winter le replicò serafico: «Lavoriamo
dodici ore al giorno negli uffici del NOAA, se tutto va bene, a casa ho un
figlio da seguire e un’abitazione da tenere pulita. Devo fare le faccende
domestiche, il bucato, stirare e, se posso, tentare di capire se Malcolm ha
fatto tutti i compiti. Quando va veramente male, devo anche cercare di salvare
da se stessa Spring che, per quanto eccezionale sul lavoro, a casa è un
disastro. Questa è la mia palestra.»
«Oh, già. Suona incasinata… e sfiancante.» Gli occhi
di Kim erano sgranati e bellissimi, sotto la luce a neon del locale, di un bel
verde giada punteggiato, qua e là, di pagliuzze dorate.
«Molto incasinata, per usare le tue parole, e molto
sfiancante» annuì Winter, cercando di non soffermarsi troppo sulla vista di
quelle iridi così speciali. «Ma trovo comunque il tempo per correre almeno
cinque miglia tutte le mattine.»
Il suo tono così tranquillo, gli occhi bassi a
scrutare il menù e la sua espressione facciale indecifrabile mandarono così in
confusione Kim che, quell’ultima uscita, impiegò alcuni attimi prima di
immergersi nei suoi centri celebrali.
Quando finalmente ebbe recepito il suo messaggio, Kim
esclamò: «Ah, ma allora la fai, ginnastica!»
E Winter non poté esimersi dal sorridere, dal
sorridere veramente.
Quella era Kimmy, la piccola Kimmy, l’impertinente
Kimmy. La sua Kimmy.
«L’ho visto, sai?» mormorò Kim, tornando seria.
Winter levò il capo a scrutarla e, scrollando le
spalle, replicò: «Sebbene mi chiamino Iceman,
al NOAA, non sono fatto di ghiaccio.»
A Kim spiacque per quel nomignolo davvero poco adatto
al ragazzino che lei rammentava, ma ammise senza troppi problemi che l’uomo che
aveva conosciuto solo il giorno precedente si avvicinava, e di molto, a una
nomea del genere.
Ugualmente, disse: «Io non ti chiamerò mai, alle spalle, Iceman, se tu non chiamerai me Kermit con gli altri colleghi.»
Winter rimase basito per alcuni attimi prima di
sogghignare e ammettere: «Non rammentavo la tua passione per quella rana di
peluche ma, ora che me l’hai ricordato, lo terrò tra le mie armi di riserva.»
«Oh» esalò Kim, dubbiosa. «E cosa ci vorresti fare,
con Kermit?»
Tornando a sfogliare il menù con assoluta tranquillità,
lui mormorò pacato: «Farmi presentare Piggy per un appuntamento?»
A Kim non restò altro che scoppiare a ridere di gusto,
gli occhi inondati da lacrime di ilarità.
Stava ancora ridendo sommessamente – mentre Winter
aveva mantenuto il suo stoico sorriso di circostanza – quando la cameriera
servì loro la colazione.
Ancora un’occhiata venefica e la ragazza si allontanò
sventolando la corta gonnellina nera, del tutto ignorata dall’oggetto delle sue
attenzioni ma ben osservata da Kim che, con una certa ironia, chiosò: «Se mi
riporterai qui, mi metterà il veleno nel caffè. Da quanto tempo ci vieni?»
Apparentemente confuso dalla domanda, Winter mormorò
nel sorseggiare il caffè bollente: «Da tre anni, perché?»
«Perché? Non hai notato che Miss-Biondo-Platino stravede
per te?» gli confessò Kim, piegandosi lievemente sul tavolo con aria da
cospiratrice.
Winter lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla
per inquadrare la cameriera incriminata dopodiché, scuotendo il capo, replicò:
«Non penso. Dopotutto, quanti anni potrà avere? Ventidue, ventitré? Sono troppo
vecchio, per lei.»
«Non tieni conto del fascino dell’uomo maturo… e in
carriera» gli ribatté lei, beneficiandolo di un’occhiata significativa.
Contrariamente a Kim, che indossava jeans invecchiati,
stivali da cowboy e un pesante maglione sotto un parka imbottito e una sciarpa
di lana fatta a mano, Winter era perfetto nel suo completo scuro di sartoria.
E il cappotto nero, che aveva appoggiato sulla sedia
accanto alla propria, non era certo comprato in svendita.
«Non sono interessato» sentenziò lapidario Winter,
poggiando con eleganza il menù sul tavolo.
La sua lunga mano pallida sfiorò esitante la copertina
plasticata prima di afferrare il bicchiere di cartoncino del caffè e portarselo
alle labbra, il tutto eseguendo movenze più simili a una danza che a un
semplice, banale gesto qualunque.
Kim era sempre stata affascinata dal modo di muoversi
di Win, fin da piccola.
Non era mai stato un bambino goffo o pressappochista
e, di certo, non confusionario come erano stati Autumn o la focosa Summer, che
non perdevano occasione per combinare guai o distruggere qualcosa.
«Kimberly» la richiamò sommessamente Winter,
distogliendola dai suoi ricordi.
Sobbalzando sulla sedia, lei esalò: «Eh? Sì, dimmi.»
«Ne vuoi un po’?» le domandò Winter, indicando le
torte.
«No, ti ringrazio. E poi, non vorrei mai che la
cameriera mi lanciasse il vassoio per ripicca, vedendomi sbocconcellare la tua
torta» scosse il capo Kim, indirizzando un’occhiata studiata alla ragazza, che
si guardò bene dal distogliere lo sguardo. «Ecco, lo sapevo. Mi odia. Ed è
tutta colpa tua.»
Ancora, Winter si volse per studiare la cameriera che,
a quel punto, distolse gli occhi da Kim per sorridere all’uomo e rimettersi a
lavorare alacremente per il locale già quasi pieno di persone.
«Davvero non capisco» dichiarò lui, scuotendo il capo.
«Non mi sembra proprio di aver dato l’idea di una persona in cerca di compagnia
femminile.»
«Forse il problema è proprio questo. Sai, la faccenda
dell’uomo bello e impossibile, no?» commentò Kim, terminando di bere il suo
caffè.
«Bello… e impossibile?»
Sospirando afflitta di fronte alla palese confusione
del collega, Kim esalò sconcertata: «Sei un caso senza speranza, Winter.
Finisci la tua torta e andiamocene, prima che quella mi azzanni al collo per
marcare il territorio.»
«Dovrebbe fare ben altro, per marcare il
territorio» precisò Winter, masticando un pezzo di torta con sommo gusto.
«Sei rimasto indietro coi tempi, Dottor Hamilton.
Oggigiorno, le donne mordono perché si credono tutte vampire. Mai sentito
parlare di Twilight?» ironizzò Kim, sogghignando.
«No, mi spiace. Sono rimasto al Dracula di
Francis Ford Coppola.» Il suo diniego fu categorico.
«Si vede che hai un figlio maschio. Se avessi avuto
una femmina, saresti ammattito dietro a Convention e Première» dichiarò
convinta Kim, prima di tapparsi la bocca ed esalare: «Scusa. Forse non dovevo
parlare di…»
Winter scosse una mano come per liquidare le sue scuse.
«A Erin sarebbe piaciuta una femmina e, come dici tu, sarebbe ammattita per
portarla in tutti i posti che la piccola le avrebbe proposto.»
Rincuorata dal tono di Winter, che non pareva stentato
o sputato fuori dai denti a fatica, Kim si sentì di chiedere: «E tu non le
avresti accompagnate?»
«Io? Me ne sarei ben guardato! So come siete
voi donne, quando vi coalizzate» scosse il capo Winter, scrutando fuori dalla
vetrina del locale con aria malinconica.
Era evidente che la sua mente era tornata a bei
ricordi del passato, forse legati al rapporto tra la moglie e le sue cognate.
«Spring e Summer sono rimaste sempre le solite?»
«Spring ora ha un negozio di fiori qui nella contea di
Silver Spring, dove abitiamo. Condividiamo una bifamigliare così, quando io
sono via per lavoro, lei bada a Malcolm. Summer, invece, ha un loft in centro,
ma è quasi sempre via come me per conto del NOAA. Ora è in Italia a studiare
l’Etna.» La sua spiegazione scivolò fuori semplicemente, scontata, come se il
tempo passato lontani non fosse mai esistito e Kim, sorridendo, poggiò il viso
su una mano e lo scrutò felice.
Winter, vistosi osservato, le domandò confuso: «Che
c’è?»
«Ora sei Win.»
Quel commento lo fece accigliare leggermente e Kim,
vagamente sorpresa, gli chiese curiosa: «Ma perché ti chiudi subito a riccio,
tutte le volte che esci un po’ dai regimi? Non fai nulla di male.»
«Lo credi tu» mormorò lui, terminando in tutta fretta
la torta.
Ombroso come le nubi che gravitavano minacciose su
Washington, Winter non aprì più bocca e Kim si guardò bene dall’insistere,
troppo impegnata a rimuginare sulle sue ultime parole per poter replicare al
suo silenzio.
Era inquietante con quanta facilità le avesse chiuso
la porta in faccia dopo che, per qualche istante, aveva riscoperto in quegli
occhi di ghiaccio vivo l’antica fiammella di un tempo.
Quando glielo aveva accennato, lui l’aveva richiusa
nuovamente dietro uno schermo protettivo così alto che, ora, non riusciva più a
scorgerlo in nessun modo.
Cosa lo avesse spinto ad una simile, repentina
decisione restava da stabilire, ma Kim era più che certa che avesse a che fare
con Erin.
E fu pensando a Erin che Kim, salendo nuovamente sulla
Prius assieme ad un silenzioso Winter, esalò sconcertata: «Non puoi pensare davvero
che la morte di tua moglie ti impedisca di vivere!»
Lui non le rispose, dando piena conferma alle sue parole
e Kim, sgomenta, si chiese cos’altro tenesse fuori dalla sua vita, credendo di
non meritarsela per via della morte prematura dell’amata.