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Autore: Marlene Ludovikovna    02/11/2013    9 recensioni
1943 - Parigi
Ester Stradsberg; the Swan. Giovane, bella e annoiata moglie di un ricco imprenditore. Ciò che più vuole é la libertà di disinteressarsi a tutto.
Hans Wesemann; the Hunter. Spietato Colonnello delle SS, la sua giacca e ornata da medaglie e i suoi occhi mostrano solo ghiaccio.
Emilie Kaltenbatch; the Hawk. Giovane pittrice pronta a tutto per sfondare e dagli istinti creativi repressi a causa della dittatura a cui sottostà il suo paese. Affascinante, crudele, ambiziosa e, per tutti, indimenticabile.
Jean Russeau; the Treacherous. Ricco, bello ed egocentrico è il re della vita mondana parigina. Ereditiere di un'immensa fortuna dedito al lusso e all'amore per se stesso.
Delle vite vissute a metà come se aspettassero di essere esaurite, così cariche di emozioni e prive di valori da essere memorabili. Anime distrutte al centro della ricchezza, della miseria e della follia. Vite distrutte dallo sfarzo del Terzo Reich.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Spring: Part 1













1943 - Parigi, Francia

Emilie  Kaltenbatch prese il treno delle 9:30 diretto a Parigi, da Vienna. 
Lasciare la sua città un po' le dispiaceva, ma d'altra parte era troppo eccitata ed euforica. 

Avrebbe fatto parte della città dei boehmien, degli artisti, dei grandi scrittori. La città di Simenon, con i suoi gialli intricati e scintillanti, la città in cui vissero Francis e Zelda Fitzgerald, la città delle rivoluzioni, in cui c'era stato un primo tentativo di libertà dal potere già nel Settecento. Una città e un paese così meraviglioso non meritava l'occupazione, pensava Emilie. 

Parigi aveva sempre avuto un grande fascino, per lei. Per questo prendere il treno non fu affatto una sofferenza. 

Amava viaggiare, ma spesso quando si trattava di lasciare l'Austria sentiva un po' di insicurezza. 

Questa volta non fu così.

Si sentiva ottimista e piena di buoni auspici e adesso poteva dire di sapere come si sentivano le persone felici e con una vita bella e perfetta. 

La sua non era così, ma in quel momento, mentre aspettava alla stazione, riscaldata dal suo cappotto rosso e con i bagagli tra le mani aveva pensato che un giorno avrebbe potuto esserlo. 

Magari avrebbe avuto tanti uomini e poi avrebbe dipinto e dipinto e dipinto. E sarebbe diventata famosa; avrebbe avuto una vita libera, piena di sfarzo, di gioie di dolori e tutte queste emozioni le avrebbe messe nei suoi quadri. Sarebbe stata la pittrice donna del regime! Tra cent'anni l'avrebbero ricordata e avrebbe conosciuto Hitler e.... Si sarebbe sentita terribilmente sbagliata in mezzo a tutto quell'oro e a tutte quelle svastiche. 

E poi sapeva che erano tutti sogni privi di alcun senso; i suoi genitori non l'avevano mai appoggiata nel suo talento artistico e c'erano stati momenti, durante l'adolescenza in cui si era sentita profondamente sola.

... Però adesso le cose per lei erano cambiate, per questo stava prendendo quel treno. 

"Mi scusi, saprebbe dirmi dov'è il binario quattro?" Chiese Emilie ad un ufficiale della Gestapo. 

Lui le indicò la strada e lei ringraziò con un sorriso tirato, ma pur sempre luminoso come potevano essere solo i suoi sorrisi. 

Aveva sempre avuto un'antipatia incondizionata nei confronti della Gestapo, eppure non avrebbe dovuto. Era parte integrante del partito nazionalsocialista, perché avrebbe dovuto odiarli? 

Arrivata a questo punto mentiva sempre a se stessa, dicendo che era un antipatia incondizionata, come quando vedi una persona per strada e pensi che abbia una faccia antipatica e senti di detestarla per motivi ignoti a te e a Dio, sempre se esistesse. Quel giorno, però, non volle mentire. 

Nel momento in cui prese posto sul vagone del treno aspettando che partisse, ragionò su quello che avrebbe fatto una volta arrivata a Parigi. 

Ormai persino la città che era nei suoi sogni fin dall'adolescenza era stata occupata. 

Ciò la deprimeva, ma l'entusiasmo non riuscì a svanire mai del tutto durante la durata del viaggio. 

Sentiva Parigi come una svolta nella sua esistenza, inutile fino a poco prima, come se la sua vita fosse una freccia appena scagliata e destinata a fare centro. Come se avesse incominciato a vivere solo prendendo quel treno. 

Quando si fermarono a Lione vide entrare una ragazza francese completamente in lacrime. 

"Pardon, posso sedermi qui?" Chiese costei. 

"Oui, certement." Nonostante la pronuncia francese di Emilie fosse buona, la ragazza sussultò nel sentire l'accento tedesco e la guardò con un briciolo di odio. 

Emilie non si mostrò sorpresa; si sarebbe sentita allo stesso modo se il suo paese fosse stato occupato. 

La ragazza seduta accanto a lei aveva un'aria scialba, ma carina con i suoi capelli biondi e dritti come spaghetti che le cascavano sul viso. 

"Vuole un fazzoletto?" Domandò l'austriaca prendendo la borsetta. "Oh, merci." La francese fece un debole sorriso provando a mascherare la sua aria angosciata. 

"Se posso sapere... Qual'è la ragione delle tue lacrime?" Emilie fece di tutto per sembrare il meno indiscreta possibile, ma appena ebbe finito di formulare la domanda capì quanto fosse stata ingenua. Qui non si trattava di indiscrezione, ma semplicemente del fatto che la sua era una domanda da interrogatorio nazista formulata con dolcezza. Per un istante sentì il desiderio di strapparsi di dosso la spilla del partito. 

La ragazza sembrò chiudersi in se stessa e singhiozzò. 

Emilie si avvicinò a lei e parlò a bassa voce: "Io non sono una di loro."

"Ma siete tedesca." Obbiettò la francese. 

"Per la precisione, sono austriaca." 

Alla ragazza non sembrò fare molta differenza, ma alla fine parlò. 

"Hanno preso mio padre, vogliono interrogarlo, lo picchieranno. Dicono che ha collaborato con gli ebrei, ma lui..." Venne interrotta da un forte singhiozzo. 

Emilie le fece cenno di parlare più a bassa voce; nonostante il vagone fosse vuoto, a parte loro, non voleva essere sentita. 

"Come ti chiami?" Domandò alla ragazza. 

"Céline." 

"Bene, Céline, se mi aiuterai io aiuterò tuo padre." 

Lo sguardo di lei si illuminò. 

"Davvero? Insomma... Sul serio? Cioè, davvero non si vedono spesso persone così gentili e io... Oh, grazie! Cosa devo fare?" 

Emilie ammiccò. "Oh, nulla di speciale... Solo, una commissione per mio conto. Dovete andare a casa Stradsberg, a Parigi... Sa dov'è casa Stradsberg, vero?" 

La ragazza annuì, chi non lo sapeva. Era il luogo più mondano che esistesse. 

"... E consegnare questo alla signora Stradsberg, dite che è da parte di Fraulein Kaltenbatch di Vienna." 

Emilie diede alla ragazza un pacchetto bianco con attaccato un biglietto scritto con la calligrafia di chi ha passato l'infanzia con un'educatrice fin troppo esigente. 

Céline annuì concentrata. 

"Come si chiama tuo padre?" Chiese Emilie tirando fuori un taccuino. 

"Auguste Delacour." Disse lei con un barlume di incertezza che le scurì il volto. 

Si stava davvero fidando? E se non ci fossero speranze per suo padre? E se fosse già morto?

Emilie sorrise. Quel sorriso luminoso e ipnotizzante che la gente non riusciva a smettere di guardare, riempì la francese di speranza. La donna che le stava davanti era troppo bella, troppo interessante per non essere ricordata. Un ciuffo castano le cadde sul viso e Emilie non lo scostò, come se non le importasse un granchè. 

"Auguste Delacour sarà rilasciato domani mattina," disse. 

La ragazza la guardò incredula, probabilmente pensando che non aveva mai visto una tedesca - una nazista, il nemico - comportarsi in modo così gentile. 

Una fermata dopo, entrambe scesero. 

"Be', au revoir!" Disse lei. 

"Au revoir! Farò come mi avete detto." 

Poi la ragazza francese che aveva conosciuto poco prima si perse nella folla. 

Emilie sorrise esaltata guardandosi intorno. La stazione era così dorata e perfetta come se la immaginava, in quello stesso posto era stata ambientata una scena di "Tenera è la notte" di Fitzgerald che aveva letto facendoselo mandare illegalmente quando era appena uscito. Ricordava quanto aveva atteso quel libro e quanto avesse faticato per ottenerlo. 

In tedesco non era stato tradotto, percui aveva dovuto farselo mandare dall'America. Era ancora molto affezionata a quel libro - come a tutti gli altri di letteratura americana e inglese che erano praticamente stati proibiti dal regime - e lo custodiva gelosamente. Lo aveva riletto cinque volte, analizzando tutte le sfumature dei caratteri di Dick e di Nicole. Adesso era tutto rovinato e con le pagine ingiallite che quando le annusi sanno di buono. 

Emilie tornò a guardarsi intorno con aria sognante.  

"Fraulein, faccia vedere i documenti." Disse un soldato tedesco con un francese stentato e un tono che non ammetteva repliche. 

Emilie lo guardò incredula e spostò la giacca per far vedere la spilla del partito nazista. 

Lui annuì e con aria incerta disse: "Non importa, fraulein. Dobbiamo vedere i documenti." 

"Ja," rispose lei aprendo la borsa. 

Lui guardò il passaporto. "Oh, va bene. Chiedo scusa per averla importunata, non accadrà più." 

"Lo spero, soldat." Commentò lei mettendo via i documenti. 

Emilie prese a camminare fieramente verso l'uscita dalla stazione; i tacchi facevano rumore al contatto con il marmo del pavimento. 

Era ancora un po' infastidita dal fatto precedente. 

Sembrò davvero così poco... Germanica? Si chiedeva. Insomma, in Austria non sono tutti biondi, Cristo. Ho gli stessi capelli del Fuhrer, perché mai dovrebbero sempre prendermi per ebrea o guardarmi sospettosi? 

Il suo aspetto non la interessava più di tanto ed era questo il suo fascino, il fatto che semplicemente si vestiva bene quasi perché doveva farlo e che adorava le cose immateriali e inconcrete. 

Non che odiasse i vestiti, i trucchi e tutte quelle cose, solo sentiva di poterne fare a meno, ma non per questo era mal vestita. Anzi, il fatto che non desse troppo peso all'apparenza aiutava il suo abbigliamento che dava l'impressione di non essere frutto di ore e ore davanti allo specchio. Le dava un'aria di totale naturalezza.  

Passando davanti ad una pasticceria in stazione ricordò di non aver fatto colazione, così decise di entrare. 

Mangiò un croissant al banco e bevve un cappuccino. 

In quel momento di calma totale, in quel bar così francese e con così pochi tedeschi - quasi nessuno - si sentì pervadere da una sensazione di fibrillazione e di... Allegria? No, ma per un istante sentì che avrebbe potuto  fare quello che le pareva, che sarebbe potuta entrare in una libreria e snobbare Mein Kampf per comprare Liberty Bar di Simenon e ciò la riempì di conforto. 

Il tovagliolo si macchiò di rossetto quando lo usò per pulirsi la bocca, poi lo appoggiò al bancone, pagò e uscì. 

Fermò un taxi e ci salì dentro, facendosi aiutare a mettere dentro i bagagli. 

"Dove la porto, mademoiselle?" Domandò il tassista, sporgendosi verso il sedile posteriore. 

Emilie lesse l'indirizzo da un foglietto per poi riportarlo al tassista. 

La ragazza guardò fuori dal finestrino e per la prima volta osservò davvero la città dei suoi sogni di quando era piccola. Non era esattamente come se la immaginava, perché se la immaginava senza svastiche ovunque, ma era pur sempre... Magnifique. Solo e solamente Parigi sarebbe potuta essere così magnifique. 

Al suo arrivo si ritrovò davanti ad un palazzo meraviglioso e barocco. 

L'hotel Lumiére, dove avrebbe alloggiato durante tutta la sua permanenza nella città degli artisti. 

Lasciò le sue valige in reception e venne accompagnata alla sua stanza. 

C'era un letto a baldacchino cosparso di petali di rose rosse - tutta la stanza era cosparsa di petali di rose rosse - e appoggiata al comodino una bottiglia di champagne. 

Quando dopo aver fatto un bagno caldo Emilie si distese sul letto e posò il suo sguardo sul soffitto con affreschi e decori si sentì come se non avesse dovuto essere da nessuna parte se non lì. 

   
 
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