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Autore: LilithJow    07/12/2013    3 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 16
"Always know better"



Non immaginavo che il corpo umano potesse contenere tutto quel sangue.
Certo, sapevo ne avesse parecchio, ma vederlo sparso su una lastra di cemento dava alla questione una diversa prospettiva.
Quel liquido rosso che ancora si propagava, colorando il grigio, apparteneva ad un ragazzo che si chiamava... In realtà non avevo idea di quale fosse il suo nome. Era il primo che mi era passato davanti, in quel parcheggio d'auto desolato della periferia di Chicago; non mi ero disturbata a prender nota dei suoi dati anagrafici. Lo guardavo, lì a terra, con lo sguardo spento e perso nel vuoto, sdraiato in maniera scomposta sull'asfalto.
Era un ragazzo carino, però: alto, moro, con gli occhi color cioccolato. A differenza del suo aspetto, la sua anima era qualcosa di estremamente tenebroso e, in condizioni normali, mi sarei addirittura rifiutata di nutrirmi di essa.

Ma in quel momento non mi importava. Ogni cosa aveva perso il suo senso logico.

Tu non mi ami. Non mi ami, perché non puoi. Non hai un'anima. L'amore è per gli umani e tu non lo sei”.

Quella parole così acide e taglienti mi rimbombarono in testa. Gridai, portandomi le mani alle tempie, e la mia voce riecheggiò in quell'enorme e vuoto luogo.
Stavo male. Stavo terribilmente male e non capivo perché.
Ero una Divoratrice, dannazione, per quale assurdo motivo sentivo dolore e rabbia crescere ogni secondo, sempre di più?

Mi piegai su me stessa, ritrovandomi in ginocchio a terra. Mi sporcai di sangue e mi accorsi di star piangendo, presumibilmente a causa del nervoso.
«Hazel». Riconobbi quel suono. Non dovetti nemmeno girarmi per capire che Martha mi aveva già trovato. Far perdere le mie tracce a lei era impossibile. «Va' via» sentenziai subito, ma, ovviamente, non mi diede retta. Me la ritrovai di fronte dopo mezzo secondo. «Torna a casa» sussurrò. «Troveremo una soluzione, okay? Te lo prometto».

«Non c'è nessuna soluzione».

«Sì che c'è. C'è sempre».

«NO! Non c'è». Mi alzai di scatto in piedi, digrignando i denti. «Lui crede che io sia un mostro. Crede... Crede che io lo abbia usato per tutto questo tempo».

«E noi sappiamo che non è così. Dobbiamo solo dimostrarlo».

«Non capisci? E' tutto inutile. Sebastian ha in mano le redini, lo sta... Lo sta manipolando e... E io ho perso, Martha. Io perdo sempre».

«Non hai ancora perso me». Sorrise in modo rassicurante, dopo quella frase. «E non accadrà mai. Però, adesso, ho bisogno che ti fidi e che mi permetti di risolvere tutto».

«Come?».

«Lascia fare a me». Si guardò attorno, serrando la mascella. «Tu ripulisci questo casino». Si congedò in quel modo e, poco dopo, fui di nuovo sola.

 

***


I ricordi sono micidiali. 
Hanno il potere di riportare alla memoria bei momenti in istanti del tutto inopportuni.

Ero seduta sul divano del salotto di casa, devastato e messo a soqquadro. Il mio corpo aveva già cominciato a riempirsi di lividi, riuscivo a stento a tenere l'occhio destro aperto e il labbro inferiore continuava a pizzicarmi.
Oltre al male fisico, ero costretta a sorbirmi i cattivi scherzi della mia mente che mi torturava con immagini sbiadite del tempo passato con Martha, quando lei “trovava sempre una soluzione”.
Avrei davvero voluto che l'avesse fatto anche in quel caso e che non fosse semplicemente scattata, perdendo la ragione.
Io ci ero passata attraverso quelle strane e assurde sensazioni; sapevo bene quando fosse difficile tenerle a bada e combatterle. Era arduo, al limite del possibile e, sebbene lei fosse forte, dubitavo che potesse farcela senza l'aiuto di qualcuno.
La parte peggiore era che io non potevo donarle il mio appoggio ed ero convinta che se solo avessi provato ad avvicinarmi a lei in breve tempo, non sarei stata tanto fortunata da sopravvivere nuovamente.

 

«La cassetta del pronto soccorso non è tanto attrezzata, ma possiamo arrangiarci». Thomàs tornò nella stanza reggendo una scatola bianca di metallo tra le mani. La poggiò sul cuscino al mio fianco e mi si inginocchiò davanti. Trafficò con garze e disinfettante – che mi fece venire la nausea – e iniziò a tamponarmi il labbro spaccato. Bruciò, ovviamente, e non potei trattenere un lieve lamento. «Scusa» sussurrò lui. «Non fa niente» replicai, distratta.
Thomàs continuò a medicare le mie ferite con una serie di gesti delicati e premurosi che normalmente non gli sarebbero appartenuti. Mi ritrovai a prendere in considerazione il fatto che se non fosse stato lì poco prima, sarei sicuramente morta.

«Quello che ha detto Martha...» disse Thomàs ad un tratto. «Non lo intendeva veramente. Era arrabbiata e...».

Dovetti interromperlo: «Intendeva ogni cosa».

«No, non è così. So per certo che...».

«E' innamorata di te». Spezzai ancora la sua frase e mi aspettavo una reazione sorpresa. Invece, non accade nulla del genere, anzi, tutto il contrario. «Lo so» mormorò. «L'ho sempre saputo».

Ero confusa. «Perché non glielo hai mai detto?».

Lui sospirò, mettendo da parte le garze sporche. Distolse solo per un attimo lo sguardo dal mio viso e poi tornò a fissarmi. «Perché esistono due tipi di amori» esclamò. «Quello corrisposto e quello non corrisposto». Fece una breve pausa, forse per farmi capire a quale categoria appartenesse il suo e continuò: «Io voglio bene a Martha, ma tra noi non potrà mai esserci qualcosa che va aldilà dell'amicizia o dell'affetto fraterno».

«E allora perché non hai messo subito in chiaro le cose?».

«Perché so come funziona un sentimento del genere per i Divoratori. So che... L'idea dell'amore per qualcuno può essere un punto fisso e di salvezza. E... E per anni lo sono stato. Sono stato la sua costante, ho rappresentato la sua umanità. Glielo dovevo».

«E poi hai smesso».

«No. Poi sei arrivata tu».

Non replicai subito. Serrai la mascella e trattenni il fiato. Per un attimo, desiderai non essere divenuta umana. C'erano tante ragioni per cui lo feci e Thomàs era tra quelle. «Sono arrivata io e ho smontato tutto» commentai, allora.

«Niente del genere» replicò «ma hai di certo scombussolato un po' le cose».

Mi venne quasi da ridere, sebbene in quel momento non fosse propriamente opportuno.
Era una situazione assurda e mai avrei immaginato di esserci catapultata dentro. La mia era stata una costante ricerca d'affetto di umani che riuscissero a scatenare in me nuove sensazioni e adesso... Adesso ne avevo fin troppo e da chi io non desideravo. Da chi era semplicemente sbagliato.
Dovetti trattenermi, anche perché se avessi solo accennato un sorriso, il mio labbro inferiore avrebbe ripreso presto a sanguinare.

Scossi solo la testa, stringendomi nelle spalle e cambiai forzatamente argomento.
Forse non era l'occasione giusta per parlare di sentimenti o affini, ma lo era per discutere di qualcosa che lui aveva sempre evitato e io volevo ancora sapere.

«Me lo vuoi dire adesso cosa ti ha fatto scattare quel giorno?» mormorai. Thomàs tentennò. Tuttavia, sembrava esser più propenso a confidarmi ogni cosa rispetto alle altre volte, dove preferiva il silenzio a qualsivoglia risposta.

«Dipende da quello che sono» disse, a bassa voce.

«Che cosa sei?».

«Un Djinn».

«Un cosa?».

Lui abbozzò una risata. Evidentemente, avevo assunto un'espressione esilarante dal suo punto di vista. «E' una creatura soprannaturale» spiegò «anche se io non lo sono al cento per cento. Sono metà umano; un ibrido, in pratica».

«Ed è questo che ogni tanto ti fa impazzire?».

«Diciamo di sì. I Djinn sono perennemente circondati dall'oscurità. Il loro principale potere, oltre ad una serie di altri, è esaudire i desideri delle persone e poi ucciderle tramite essi. Insomma, ti portano in alto e dopo ti lasciano cadere. Solitamente, si nasce Djinn e si inizia ad uccidere prima ancora di imparare a parlare, perché l'oscurità fa il suo ingresso in tempi molto brevi. Per me... Per me la storia è diversa, dato che la mia percentuale di umanità è più elevata. Loro non hanno possibilità di scelta: sono quel che sono e fanno ciò che devono... Io no. Compiuti i diciotto anni, ho potuto decidere quale destino fosse meglio per me: se diventare un Djinn a tutti gli effetti o continuare la mia vita così com'è, mantenendo alcune abilità».

«Cioè scegliere tra l'essere immortale e l'essere mortale?».

«Già. Ma preferisco vivere un tempo determinato, seppur lottando contro me stesso e contro l'oscurità che cerca di attirarmi a sé, piuttosto che all'infinito, costretto a ferire gente che non ha fatto nulla».

«Quindi... Vai fuori di testa perché sei metà Djinn, ma... Sei anche umano. C'è qualcosa che ti fa reagire in modo spropositato o sbaglio?».

«Quello non... Non succede spesso. Di solito accade quando penso troppo o... O sono arrabbiato. L'oscurità cerca di avvolgermi completamente, in quei casi».

«E quel giorno pensavi troppo o eri arrabbiato?».

«Entrambi».

«A cosa pensavi?».

«Sicura di volerlo sapere?».

«L'ho chiesto».

Thomàs esitò prima di rispondere e nel mentre abbozzò un sorriso. «Stavo pensando a te» disse, con scioltezza.

La doveva smettere di fare così. Dove era finito quel ragazzo che mi prendeva in giro per ogni cosa e faceva sarcasmo su tutte le mie azioni? Lo preferivo di gran lunga scontroso che così... Così... Così lontanamente dolce. Anche perché non me lo meritavo, non dopo quello che era appena successo.

Avrei voluto dirgli qualcosa a riguardo, ma dalla mia bocca non uscì niente di concreto, forse perché il mio inconscio sentì il bisogno di ricevere quelle determinate attenzioni, seppur dalla persona sbagliata.

«Dovresti preparare la tua roba» disse ad un tratto Thomàs e lo vidi alzarsi in piedi.

«Perché?» domandai. Volevo imitarlo, ma una fitta al fianco destro me lo impedì. Dovetti restare ferma e respirare a fondo.

«Perché Tamara ha Simon – cosa che ho dovuto intuire, dato che non sei amante delle spiegazioni lunghe e complete» replicò «e Martha è là fuori, sull'orlo della pazzia, e potrebbe fare cose indicibili, come chiamare Sebastian, farsi condurre dal Creatore e spifferare tutto. Qui non è più sicuro».

Su quello aveva ragione e dovetti annuire per dimostrare il mio consenso.

Mi alzai, poco dopo, facendo una smorfia a causa del dolore che mi assillava in ogni parte del corpo. Mossi qualche passo verso le scale e le raggiunsi in un arco di tempo almeno tre volte superiore al solito.
Avevo salito solo un gradino, quando fui bloccata da Thomàs, che mi tenne per un braccio e mi costrinse a voltarmi. Appena lo feci, lui poggiò le labbra sulle mie e una mano sul mio collo. Il calore della sua pelle riuscì a tranquillizzarmi almeno per quell'istante.
Il bacio durò solo qualche secondo, poi lui si distaccò, rimanendo comunque abbastanza vicino al mio volto. «Ti avevo detto di non farlo più» biascicai.

«Già» replicò «e io non sono un tipo che prende ordini». Sorrise e indietreggiò appena. «Vado a preparare la macchina».

Si congedò in quel modo e uscì di casa, chiudendosi lentamente la porta alle spalle.

Rimasi ferma sulle scale, immobile per qualche secondo prima di salire al piano di sopra. Ovviamente, riuscii a raggiungerlo in un periodo abbastanza lungo.
Non avevo molti dei miei effetti personali lì. In realtà, non ne avevo mai avuti, a parte il mio diario. Misi quello e alcuni vestiti dentro un borsone fin troppo grande e indossai qualcosa di pesante per quel viaggio senza meta che stavamo per intraprendere. Non ero ancora sicura che quella fosse una saggia decisione. Non l'andar via, ovviamente: era d'obbligo andarsene. Piuttosto, avevo dubbi sul rimanere con Thomàs.
Era come se ogni volta che il mio sguardo incrociava il suo, io tradissi nuovamente Martha. Se lui si avvicinava, poi, e mi sfiorava, la cosa era addirittura peggiore perché, in tal caso, si aggiungevano i sensi di colpa per Simon e per me stessa. Tuttavia, Thomàs era l'unica persona che mi rimaneva. Sarei stata sola, altrimenti.

Non potevo cacciarlo.

Non volevo cacciarlo.

Dovevo solo imparare a gestirlo e a tener a freno le sue azioni prive di razionalità e guidate solo dagli impulsi. Ne ero in grado.

Forse.

 

***

 

Di notte, le strade erano deserte. Non che durante il giorno la cosa fosse diversa, soprattutto in quelle zone. L'asfalto era ricoperto da residui di neve e ghiaccio e, per tal motivo, dovemmo procedere molto più lentamente del previsto, onde evitare che l'auto slittasse e finisse fuori dalla carreggiata. Faceva incredibilmente freddo e il riscaldamento della macchina non riusciva a tenermi sufficientemente al caldo.
Mi strinsi nella spessa felpa che indossavo e mi rannicchiai su me stessa, sul sedile passeggero anteriore. Thomàs era molto attento nella guida. Spesso lo vedevo strizzare gli occhi col fine di osservare meglio i segnali stradali e, più frequentemente, pulire il vetro con una mano per renderlo più nitido.
Avrei voluto dormire, ma purtroppo il gelo mi impediva di farlo. Lui, invece, non sembrava esserne troppo toccato.

«Quali altri poteri hai?» domandai, allora. Se non potevo chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare dalla beatitudine del sonno, avrei sfruttato quel suo momento di assoluta disponibilità a parlare per soddisfare ogni mia curiosità.

«Niente di così particolare» rispose, distrattamente, non guardandomi neppure.

Temetti avesse abbassato già le sue difese e avesse ripreso ad essere ermetico riguardo se stesso.

«Hai cacciato via Tamara quando ci ha attaccato la prima volta» esclamai. «Come hai fatto?».

«Vuoi davvero sapere troppe cose».

«Sto solo cercando di capire. Ho appena scoperto che sei metà Djinn, ma sei anche umano e... E inoltre sei un Cacciatore. Potrei essere un po' confusa nei tuoi riguardi».

Alle mia parole, Thomàs abbozzò una risata e solo allora si voltò verso di me, rivolgendomi un rapido sguardo. Poi tornò a fissare la strada davanti a noi.

«Non so esattamente come funzioni» disse «ma c'è qualcosa dentro di me che riesce a respingere qualsiasi creatura sovrannaturale. Le spedisce e le intrappola alle soglie degli Inferi, ovviamente in maniera del tutto provvisoria, giusto il tempo per loro di trovare una via di fuga. Non è granché, ma ti permette di guadagnare tempo».

«E' qualcosa di... Davvero grosso».

«Già. Ma richiede molta energia e... Diciamo che non è un potere che posso usare spesso».

«Lo hai usato per salvarmi».

«E' stata un'ottima ragione».

No, la sua disponibilità non era affatto svanita.

Parlammo ancora durante quel viaggio, ma a parte cose di cui ero già a conoscenza, non scoprii nient'altro.
Di una cosa, però, ero certa: potevo fidarmi di lui, nonostante fosse un Djinn, un Cacciatore e chissà che altro. Mi sentivo stranamente al sicuro con Thomàs.
Era un ragazzo speciale, sotto certi punti di vista, e io potevo solo immaginare cosa significasse combattere ogni secondo della propria vita contro se stessi e contro quell'oscurità di cui mi aveva parlato.

Quando ero una Divoratrice, odiavo la mia natura. Era un po' la stessa cosa, forse, e lo ammiravo per aver resistito così a lungo, per aver scelto la via più difficile, pur di non essere semplicemente cattivo e vivere per sempre.
Non era una cosa da tutti. Qualcun altro si sarebbe abbandonato a tale oscurità e ne avrebbe addirittura tratto benefici. Thomàs no ed era ammirevole.


***

 

I giorni passarono, mi scivolarono addosso, pesanti, incostanti. Continuavamo a muoverci senza meta, dormendo in un posto diverso ogni notte. Ero abbastanza stanca di quella situazione.
Eravamo immersi nell'incertezza – non che fosse una novità – e a me mancavano Simon e Martha.
A volte nemmeno riuscivo a respirare pensando a loro.
Per quel che ne sapevo, Simon avrebbe potuto essere già morto o sotto tortura, in qualche luogo remoto e la sola idea di non poter fare nulla per aiutarlo mi provocava una fitta al petto. Volevo salvarlo, ma non avevo i mezzi per farlo.
Martha, poi, era un caso a parte. Era... Irrecuperabile. Forse Thomàs avrebbe dovuto provare a cercarla e a parlarci, ma se c'era una cosa che lei sapeva fare bene era sparire. Magari, aveva addirittura cambiato aspetto per non farsi riconoscere.
Io portavo ancora addosso il ciondolo che avevo donato a Simon, mesi prima, quello utile a rilevare la presenza di un Divoratore nei paraggi e non avevo mai avuto l'occasione per restituirglielo. Da un lato, ne fui grata: un pezzo di lui mi era costantemente addosso. Fino a quel momento, però, non si era illuminato una singola volta.

Lo stringevo tra le dita anche quella notte.
Era tardi – o molto presto, dipendeva dai punti di vista – e Thomàs dormiva da un pezzo nel letto proprio accanto a me. Io non riuscivo a prendere sonno, da tempo ormai. Riposavo solo qualche ora all'avvicinarsi dell'alba. Considerata l'ora, mancava ancora parecchio allo spuntar del sole.
Il motel dove alloggiavamo non era certamente di lusso, anzi, era piuttosto decadente, ma con i pochi risparmi di Thomàs non potevamo permetterci di meglio.
Andava bene anche così: non mi importava granché del luogo dove eravamo, tanto lo avremmo abbandonato presto e mai più rivisto.

Decisi di fare l'unica cosa che mi avrebbe aiutato a dormire: mangiare. Il cibo mi era sempre di grande aiuto e potevo rimpinzarmi finché volevo e non metter su nemmeno un chilo.
Thomàs mi aveva spiegato che dipendeva dal metabolismo, per gli umani, e il mio era piuttosto veloce. Ringraziai metaforicamente qualcuno per quello: se avessi dovuto pensare anche ad una dieta, oltre a tutti i miei altri problemi – ed erano tanti – sarei davvero impazzita.
Cercai di fare il meno rumore possibile, mentre indossavo qualcosa di pesante e uscivo dalla stanza per raggiungere il distributore automatico del motel. Non c'era molta scelta, optai per il pacchetto di patatine più economico.
Aspettavo che il prodotto scendesse nel cestino trasparente sottostante, quando una voce femminile mi fece sobbalzare: «Freaky Fries. Sono le mie preferite».
Alzai rapidamente lo sguardo e mi ritrovai accanto una ragazza molto più alta di me – forse a causa degli alti tacchi che portava – i capelli castano scuro e due occhi con delle sfumature verdi e marroni, a mio parere bellissimi. Mi fissava con un mezzo sorriso stampato in faccia e con il capo inclinato di lato.

«Uhm. Già, sono molto... Buone» replicai, perplessa.

«Lo sono davvero. Hai buon gusto».

Normalmente, mi sarei fatta mille dubbi su cosa ci facesse una ragazza tutta sola, a quell'ora di notte nei pressi di un motel pressapoco abbandonato, ma durante quel periodo avevo imparato un paio di cose sulla parte degli umani meno inclini alla gentilezza, ossia, spesso uomini sposati portavano in quei luoghi le loro amanti – o non amanti – giusto per fare i loro comodi.
Tuttavia, chiunque fosse quella ragazza, mi mise a disagio, un po' perché continuava a sorridere in maniera quasi terrificante, un po' perché... Beh, lo faceva e basta.
Era meglio tornare in camera subito. Recuperai il mio pacchetto di patatine, sforzai le mie labbra per piegarsi all'insù e in quel modo mi congedai. Perlomeno, cercai di farlo.
Una volta superata, la sua voce mi fermò e sobbalzai nuovamente: «Te ne vai così presto, Hazel?».

Conosceva il mio nome e questo bastò per allarmarmi. Sbirciai distrattamente il mio ciondolo, nascosto da giacca e felpa e... Si era illuminato.

Dannazione, perché non ci avevo anche solo pensato prima?

Nel giro di qualche secondo, nella mia testa passarono serie di idee e ipotesi su chi quella Divoratrice fosse.
Lavorava col Creatore? Oppure con Tamara? O peggio, quella era Martha che aveva cambiato aspetto? Da umana, non potevo riconoscerla.
Mi voltai lentamente. Avevo il fiatone, ero nel panico, avrei voluto urlare e chiamare Thomàs affinché la cacciasse via, perché sì, mi sentivo incredibilmente impotente e vulnerabile e debole.

«Come...» balbettai. Non riuscii a completare la frase. Lei allargò il sorriso e fece un passo nella mia direzione, facendo picchiettare gli alti tacchi neri che portava. «Come faccio a sapere il tuo nome?» disse. «Beh, una madre conosce sempre i nomi dei propri figli».

Non ci potevo credere.

Spalancai gli occhi. «Tu sei la Creatrice» sussurrai. Ero al suo cospetto per la prima volta nella mia esistenza il che rendeva ogni cosa ancora più pericolosa. Lei era più spietata del Creatore stesso e avrebbe potuto farmi fuori in un battito di ciglia.

Perché era quello che voleva, vero? Se no, che altro?

«Già» esclamò lei. «Anche se non è propriamente un nome, non credi? Ne ho trovato uno incredibilmente carino. Che ne dici di Juliet?».

Non risposi. Ero del tutto immobile, paralizzata dalla testa ai piedi.

«Non aver paura, tesoro» disse ancora. «Non ho nessuna intenzione di ucciderti. Lo avrei già fatto, se lo avessi voluto».

Deglutii a forza, avevo la gola improvvisamente secca. «Che cosa vuoi, allora?» chiesi, con un filo di voce.

«Te».

«Me?».

«Nessuno ti ha informato di niente, vero?». Sbuffò, incrociando le braccia sul petto. «Tipico. Quel gran frignone di tuo padre vuole sempre fare le cose con ordine, ma si dimentica di informare chi di dovere».

«Informarmi di cosa?».

«Non lo sai?». In quella domanda scorsi un riflesso retorico. La Creatrice – Juliet, come voleva essere chiamata – alzò un sopracciglio, in attesa. Io, ovviamente, non replicai e lei continuò: «Sta per scoppiare una guerra e tu, mia cara, sei l'arma segreta a cui tutti ambiscono».

La guardai, confusa. Per quale accidenti di motivo io dovevo essere qualcosa? Prima una Cercatrice, adesso questa fantomatica arma segreta.
Juliet abbozzò una risata. Forse si aspettava quella mia reazione. «Riportando vostro padre sulla Terra, avete alzato un grosso polverone» disse ancora «e avete fatto riaffiorare cose di cui credevo di essermi liberata. Invece no, eccoci qui, dopo mille e mille anni, al punto di partenza. Io e il vostro Creatore non possiamo coesistere su questo pianeta. Uno dei due deve marcire agli Inferi e credo sia abbastanza scontato che sia lui a farlo».

«E io cosa c'entro?».

«Tu... Tu sei quella che ha trovato la sua Chiave e ha aperto le porte della sua prigione, il che fa di te la potenziale causa di successo di uno e fallimento dell'altro. Capisci bene che chi ti ha dalla sua parte, è aldilà della metà dell'opera».

La mia espressione passò dallo stupore al disgusto verso quella che un tempo era la mia razza. 
Apatici. Quello andava oltre l'apatia, era pura avidità.

«E perché credi che mi schiererò dalla tua parte?» osai domandare.

«Beh, perché mi devi un favore».

«Quale favore ti dovrei?».

Sorrise più apertamente e iniziai a pensare che la sua faccia fosse bloccata in quella smorfia tanto fastidiosa. «Ho riportato da te il ragazzino» disse. «Simon, giusto?».

Tutta quella serie di informazioni in meno di dieci minuti rischiò di farmi scoppiare la testa. Avevo passato mesi a chiedermi chi avesse così tanto potere da trattare con la morte, quando la risposta era addirittura scontata e palese.
Avevo anche giurato che avrei ringraziato chiunque ne fosse l'artefice, ma, in quel momento, non riuscii ad essere grata alla Creatrice.

«Non è qualcosa che ti è riuscito bene» esclamai, allora, con un briciolo d'acidità.

«Dici per la questione della sua memoria? Incidente di percorso».

«A te nemmeno importa di lui».

«A me non importa di nessuno. A te, però, sì».

«Quindi dovrei accettare di schierarmi dalla tua parte in questa guerra assolutamente priva di senso solo perché ti devo qualcosa?».

«Puoi anche non restituire il favore, Hazel, ma, in quel caso, dovrei rispedire il tuo giocattolino lì dove l'ho trovato. Credimi, non è un bel posto».

Serrai la mascella. Quello era un ricatto bello e buono. Avrei tanto voluto prenderla a pugni, ma non avrei avuto nessuna possibilità contro un normale Divoratore, figuriamoci contro la Creatrice in persona.

«Ti do tempo per pensarci» disse, senza attendere una mia ulteriore replica. «Quando sarai pronta a unirti a me, saprò come trovarti. A presto, figliola».

Le sue ultime parole furono solamente un eco nell'aria.

Avevo i brividi ed ero pressapoco sicura che non fossero causati esclusivamente dal freddo.
Lasciai cadere il sacchetto ancora pieno a terra e dopo corsi in camera, chiudendo la porta a chiave. Chiusi e riaprii più volte gli occhi, pregando con tutta me stessa che tutto ciò fosse solo un brutto sogno.
Purtroppo per me, ogni cosa era tremendamente vera.

Una guerra era all'orizzonte e io ne sarei stata coinvolta, volente o meno.

  
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