Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: LilithJow    14/12/2013    5 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 17
"Save yourself, save myself"


Giorno 30.
E' un conteggio che non avrei mai voluto iniziare, non di nuovo, ma... E' il tempo trascorso da quando Simon se ne è andato. Ventinove, invece, sono i giorni passati dalla scomparsa di Martha – non che la differenza sia molta.
Continuo a sentire questo vuoto dentro di me che solo loro potrebbero colmare. Ho provato a chiedere a Thomàs di aiutarmi a cercarli, ma riesce sempre a raggirare il discorso. Dice che è pericoloso e, in effetti, lo è davvero.
Non gli ho ancora rivelato nulla della Creatrice e del suo ricatto. Risulta protettivo già così, se solo aggiungessi un nuovo fattore, diverrebbe praticamente la mia ombra. Non che mi dispiaccia: la sua compagnia è l'unica cosa che mi è rimasta, ma, a volte, ho bisogno di rimanere da sola con i miei pensieri, per quanto orribili siano.

Non so cosa farò.

La Creatrice mi ha lasciato un patetico biglietto da visita, con su indicate le coordinate del luogo in cui dovrei recarmi una volta arresa al suo ultimatum. E' evidente che senza un mio cenno, nessuna battaglia può cominciare e ancora non mi spiego come un peso così grande possa gravare sulle mie spalle.
A me non va di portarlo.

Vorrei solo trascorrere la vita che ho adesso, da umana, ed essere felice. E' il desiderio di tutti, del resto. 
E invece no, a me non è concesso. Sono triste e arrabbiata allo stesso tempo.

Sto esitando.

Qualcosa dentro di me mi suggerisce che la Creatrice non farà nulla a Simon finché non avrà il mio appoggio e lo proteggerà sia dal Creatore sia dall'insopportabile Tamara. Però, nulla mi assicura che, una volta schieratami dalla sua parte, lei mantenga la sua promessa di far vivere Simon.
Oppure potrebbe semplicemente scocciarsi di aspettarmi e ucciderlo prima del tempo. Ne sarebbe assolutamente capace.
Sono dubbi che non riuscirò mai a togliermi dalla testa e rimarranno tali finché non prenderò una decisione.
E' tutto troppo complicato per me.

 

Chiusi di getto il mio diario e strizzai gli occhi. Senza che nemmeno me ne accorgessi, avevo iniziato a piangere. Succedeva un po' troppo spesso in quell'ultimo periodo.

Mi trovavo nell'ennesimo motel degli Stati Uniti, sperduto su chissà quale strada del paese. Era buio, mezzanotte passata, ma non avevo sonno. Mi ero abituata ad orari strani che mi portavano a dormire durante il giorno, in auto, e a stare sveglia la notte.

Mi alzai dalla scrivania sulla quale mi ero appoggiata per scrivere e mossi qualche passo nella stanza. Era probabilmente la migliore in cui ci eravamo mai fermati, con le pareti intonacate e non del tutto scrostate e le lenzuola dei letto profumavano di lavanda.
Ovviamente, avremmo abbandonato presto anche quel posto e di sicuro sarebbe stato l'unico motel che avrei rimpianto lasciare.

«Questa tavola calda è fenomenale». Thomàs rientrò in quel momento in camera, con in mano due sacchetti bianchi e un sorriso stampato in faccia. Sorrideva sempre in quei giorni, forse per infondere un briciolo d'entusiasmo e positività anche a me. Il problema era che la mia indole pessimista era troppo forte per essere abbattuta con un solo sorriso. «Puoi farti fare un panino imbottito di qualsiasi cosa. Ho fatto mettere quintali di senape nel mio» continuò, chiudendosi la porta alle spalle. Mi sforzai di curvare le labbra all'insù, almeno per mezzo secondo, ma quello che uscì fuori fu più che altro una smorfia priva di senso.
Thomàs se ne accorse. Era diventato più empatico di quanto non lo fosse prima. Posò la nostra cena sulla scrivania e si avvicinò lentamente a me, con le mani poggiate sui fianchi. «Che hai?» domandò.

«Faresti prima a chiedermi cosa non ho».

«Cattivi pensieri?».

«E' tutto cattivo». Scossi appena la testa. «Non lo so, io... Che stiamo facendo? Scappiamo? Scappiamo per sempre? Non... Che senso ha tutto questo?».

«Serve per restare vivi» replicò lui, serio. «Dobbiamo scappare finché non troviamo un modo per liberarci dalla minaccia del Creatore una volta per tutte e poi staremo bene».

Diceva quelle cose perché non sapeva tutta la verità e, ancora una volta, come sempre, mi rifiutai di dirgliela.
Avrei dovuto sapere che tenere segreti di quel genere non portava a nullo di buono, ma non riuscii a tirar fuori le giuste parole per rivelargli tutto. Semplicemente, non potevo perché avrei rischiato di mettere in pericolo anche lui.
In risposta, dunque, non dissi più. Sospirai e basta e, a quel punto, Thomàs si sporse verso di me e mi strinse in un abbraccio. Posai la testa sul suo petto e chiusi gli occhi.
Probabilmente, fu in quell'istante che qualcosa mi balenò in testa e mi spinse a prendere una decisione irrevocabile.
Era quello il punto: io non volevo che le persone venissero ferite per colpa mia. Non era giusto. Se io avevo commesso errori, se tutto era iniziato per colpa mia, allora dovevo essere io a metter fine ad ogni cosa.

Non c'erano modi differenti per portare a termine quella follia.

C'ero solo io.

***

 

Caro Thomàs,

probabilmente quando leggerai queste righe, inizierai ad odiarmi o qualcosa del genere.
Mi hai sempre ritenuta non amante delle spiegazioni lunghe e dettagliate... E la realtà è che non sono brava con le parole. Perlomeno, non quando si tratta di un faccia a faccia.
Scrivere, in questo caso, risulta più facile.
Da Divoratrice sarebbe stato diverso: ti avrei raccontato tutto, sarei stata più spigliata. L'umanità mi ha cambiata sotto tanti aspetti e il non essere più estroversa è tra quelli.

Qualche giorno fa, è successa una cosa. La Creatrice mi ha trovata – non chiedermi come, lo ha fatto e basta. Mi ha rivelato molto, ma mi ha anche lanciato un ultimatum.
Sta per scoppiare una guerra tra lei e il Creatore e io, mio malgrado, ne sono un tassello fondamentale. Non vorrei combattere, ma se non mi schiero dalla sua parte, ucciderà Simon – è lei l'artefice del suo ritorno alla vita.
E' qualcosa che non posso permettere. Non voglio che muoia di nuovo per colpa mia, non è giusto. Così, ho deciso di accettare, di prendere parte a questo grande casino, con la speranza che tutto cessi, una volta per tutte. E mi dispiace se non ho avuto il coraggio di dirti ogni cosa, ma so come sei fatto e saresti impazzito pur di trovare una soluzione che non c'è e io nemmeno voglio che provi a cercare.
Ho perso molte persone nel corso della mia lunga esistenza e se essa dovesse finire – come so che accadrà – vorrei essere certa che coloro a cui tengo più di me stessa siano al sicuro... E tu fai parte di questo gruppo.
Mi sei stato vicino quando non avevo più nessuno e la mia gratitudine non sarà mai abbastanza. E' per questo che non voglio che tu sia coinvolto in qualcosa che ti è del tutto estraneo.
Voglio che tu trascorra una lunga e felice vita da mortale, come hai scelto di fare e come meriti.

So che accadrà.

Per favore, non tentare di seguirmi o fermarmi.

Non è un mio desiderio quello di venire salvata.

Se puoi, invece, perdonami.

 

 

Hazel.

 


Stavo piangendo. Ancora.
Come non farlo quando si sta percorrendo un lungo e infinito cammino verso la propria morte?
Quando mi ero consegnata a Sebastian, mesi prima, non era stato così intenso, forse perché la mia apatia era presente ed oscurava quella paura angosciante della fine della propria esistenza.

Dovevo raggiungere quel maledetto posto. Non distava molto dall'ultimo motel in cui ci eravamo rifugiati, sebbene fosse pressoché impossibile arrivarci a piedi.
Fui costretta a rubare la macchina di Thomàs per andarci e mi ritrovai su una strada poco illuminata, procedendo lentamente sia perché non volevo affrettare troppo le cose sia perché era decisamente buio a quell'ora di notte per correre sull'asfalto.

Pensavo.

Un branco di Divoratori si sarebbero scannati l'uno contro l'altra e poi... E poi cosa? Quanti pugnali per uccidere effettivamente  un Divoratore esistevano? Non lo sapevo.

In quale modo io sarei stata sfruttata? Non ero a conoscenza nemmeno di quello.

L'unica certezza era che il mio sangue sarebbe stato versato. Riuscivo a percepirlo ed era inutile ritenere che le cose andassero diversamente o anche solo sperare che sarei sopravvissuta.

Non potei negare di aver paura.

La morte fa sempre paura.

C'erano un'infinità di cose che desideravo fare in quella vita che mi era stata donata, dopo un'esistenza da Divoratrice.
Se me ne fossi andata per sempre, non avrei mai più rivisto Simon; non avrei avuto l'occasione di spiegargli ogni cosa, di confessargli ancora una volta quanto lo amavo e insieme non avremmo potuto provare a ricostruire ciò che gli altri avevano distrutto.
Non avrei più avuto l'opportunità di riportare Martha sulla retta via, di scusarmi con lei e di cercare di essere perdonata, sperando che il nostro rapporto tornasse, un giorno, come prima.
E ultimo, ma non meno importante, non avrei più potuto parlare con Thomàs ed essere confortata da lui e ringraziarlo per ciò.

«Smettila di piangere» ordinai a me stessa e dovetti quasi urlarlo, anziché pensarlo e basta, per renderlo più efficace.

Strinsi le mani sul volante e accelerai appena, facendo rombare il motore.

Ad un tratto, tuttavia, un rumore mi fece sobbalzare sul sedile. Era lo squillo di un cellulare e ci misi un po' per capire da dove provenisse: dal cruscotto.
Non mi ero neanche preoccupata di perquisire l'auto prima di prenderla e probabilmente quello era il telefono di Thomàs, lasciato lì chissà quando. Io non ne possedevo uno, non ne avevo mai avuto bisogno.
Non risposi a quella chiamata, inizialmente. Non era sicuramente per me.

Gli squilli cessarono, per qualche secondo e poi... Poi ripresero: una volta, due, tre.
Alla quarta mi convinsi ad afferrare il cellulare e rispondere, giusto per dire di non contattare più quel numero o forse fu solo il desiderio di sentire la voce di qualcuno in quel viaggio che tanto odiavo.

«Pronto?» sussurrai.

«Hai preso la mia macchina». Non era un estraneo. Era Thomàs.

Per un attimo rimasi a bocca aperta. Non capivo se fosse arrabbiato o semplicemente scosso o che altro. «Mi dispiace» biascicai.

«Sono scuse patetiche» replicò lui, urlando.

Mi morsi appena il labbro inferiore. «Mi dispiace» ripetei. «Mi dispiace per l'auto, Thomàs, io...».

«Non me ne frega assolutamente nulla della macchina!» gridò ancora. «Cos'è questa? Una lettera? Davvero?».

«E' che... Non sono brava con gli addii».

«Perché devi dirmi addio, tanto per cominciare?».

«Ti ho spiegato perché. Se solo avessi letto, tu...».

«Ho letto! Ho letto tutto e... E non lo capisco. Tu non...». Era passato dal parlare a gran voce a quasi singhiozzare. No, non era in collera, era... Triste e disperato. «Ti prego, non lo fare» mormorò. «Torna indietro».

«Non posso». Mi mancava il respiro. Era già stato difficile andarsene, scappare via nel cuore della notte senza dirgli niente. Sentire il suo tono così spezzato peggiorò ogni cosa.

«Sì che puoi» biascicò. «Tu... Tu puoi. Torna indietro e... Troviamo una soluzione insieme, okay?».

«Non c'è nessuna soluzione, Thomàs. Lei... Lei ucciderà Simon se non vado e... Non posso permettere che accada. Devo salvarlo. Io... Io lo salverei sempre».

«E io salverei sempre te».

Mi sentii crollare definitivamente. Lo stavo ferendo più di quanto immaginassi, sebbene non volessi farlo. Come gli avevo detto, non era affatto parte dei miei piani che si facesse del male, fisicamente ed emotivamente.
Eppure, avevo la netta sensazione che fosse distrutto e si sentisse terribilmente impotente di fronte a quella situazione. Era qualcosa di nuovo per lui.
Thomàs era come Martha sotto quel punto di vista: voleva sempre trovare un rimedio a qualsivoglia problema.

«Non puoi salvare chi non vuole essere salvato» biascicai.

«Posso provarci».

«Thomàs, ti... Ti prego».

«NO! Non puoi pensarla così, mi hai capito? Non puoi... Pensare che sacrificandoti ogni cosa si aggiusterà, perché non lo farà. Andrà addirittura peggio. Se... Se permetti loro di dare inizio a questa guerra, la Creatrice o chi altro avrà più potere e ci distruggerà tutti».

«E tu non puoi sapere che accadrà se non lo faccio. Lei ha... Ha bisogno di me e questo vuol dire che posso chiedere qualcosa in cambio e...».

«Credi davvero di riuscire a trattare con un essere del genere?».

Non risposi più. Mi morsi appena il labbro inferiore e rimasi in silenzio, che fu riempito solo dal respiro affannoso di entrambi.

«Hazel...» sussurrò lui, dopo qualche secondo.

«Addio, Thomàs».

Dirlo ad alta voce fu un duro colpo, ma dovetti farlo. Chiusi la chiamata e buttai il telefono sul sedile passeggero.

Le mie guance si erano interamente ricoperte di lacrime, tanto che la mia vista si appannò. Mi passai una mano sul viso, con l'intento di scacciare il pianto almeno un po'.

Ero instabile, triste, angosciata, impaurita, arrabbiata, furiosa, depressa. Ero a pezzi come non lo ero mai stata.

Strizzai gli occhi, più volte e... Non seppi dire cosa accadde esattamente.

Una luce forte riuscì ad accecarmi, come se qualcosa mi stesse per venire addosso. L'istinto mi portò a cercare di evitare l'ostacolo e allora girai il volante rapidamente. La strada era ghiacciata e, probabilmente a causa di ciò, l'auto slittò e ne persi del tutto il controllo.
Sebbene cercassi di riprenderlo, essa smise di rispondere ai miei comandi e uscì dalla carreggiata.
Finì in un crepaccio, ribaltandosi una serie di volte che non riuscii a contare.
Venni sballottata da una parte e all'altra ed ogni urto mi provocava dolore in tutti i punti del corpo.

Quando tutto si fermò, mi ritrovai intontita, lontana metri e metri dalla strada, bloccata in quell'auto.

Non riuscivo a muovermi.

Percepivo il sangue colarmi dalla tempia e arrivare al mento. Faticavo a respirare, come se un grosso peso stesse gravando sul mio petto.

Buffo: temevo la mia fine senza prendere in considerazione che sarebbe potuta arrivare prima del previsto e non per opera di quella dannata guerra.

Ciò nonostante, accadde qualcosa di strano.

A differenza delle volte in cui lo avevo desiderato, in quel momento, in fondo a quel crepaccio isolato, sanguinante e con le ossa rotte, tutto ciò che volevo era vivere.
Non mi spiegai perché successe, perché quei pensieri toccarono la mia mente in condizioni così critiche. Forse era una parte complessa della psicologia umana: desiderare di sopravvivere quando è impossibile farlo; bramare la morte quando si ha tutta la vita davanti.

«A-aiuto». Tentai di urlare, ma quello che mi uscì di bocca fu un lieve e malapena percettibile sussurro. «Aiutatemi» ripetei e il secondo tentativo fu più vano del primo.
Avevo freddo e il gelo non faceva altro che aumentare, di pari passo al mio dolore. Notai solo dopo qualche minuto lo squarcio profondo che si era aperto sulla mia coscia destra, il che mi fece venire la nausea. Presumibilmente, i danni interni erano addirittura peggiori di quella ferita aperta.

La mia vista cominciò ad offuscarsi e la debolezza aumentò.

Stava per accadere.

Stavo per cedere. I miei occhi stavano per chiudersi per sempre. Stavo morendo.

Chi avrebbe mai pensato che a uccidermi sarebbe stato uno stupido incidente d'auto?

Non ero pronta.
Non ero assolutamente pronta.

E volevo essere salvata. Volevo essere salvata, dannazione, e...

E invece non c'era nessuno che provava a farlo.

 

***


«Hazel? Hazel...».

La sua voce.

Perché sentivo quella voce?

Ero morta e per qualche fortuito caso ero finita in Paradiso?

A rispondere a tale domanda ci pensò il dolore lancinante alla mia gamba destra e la pesantezza che sentivo in ogni parte del corpo.
No, ero ancora viva, ma non più tra i rottami dell'auto.

Ero fuori, sdraiata su del terriccio bagnato.

Qualcuno mi aveva ascoltata ed mi aveva soccorsa e... E non era una persona qualsiasi.

«S-sei... Sei qui» dissi, con tono eccessivamente flebile. Parlare mi costò fatica e incrementò il peso opprimente sul mio petto.

«Sono qui».

Era Simon.

Non avevo la benché minima idea di come mi avesse trovato, del perché fosse presente in quel momento, parzialmente sdraiato su di me nel tentativo, forse, di donarmi un po' di calore. Le sue dita continuavano ad accarezzarmi lievi il viso, passando dalle guance alle labbra.

«Resta sveglia, okay?» mi sussurrò. «Sta arrivando un'ambulanza e... E andrà tutto bene. Tu non... Non chiudere gli occhi. Non farlo».

Non lo stetti nemmeno ad ascoltare, probabilmente perché una parte di me non credeva che tutto ciò fosse vero e attribuiva ogni cosa alla mia immaginazione in punto di morte.
Tuttavia, il solo fatto di percepirlo vicino a me in un momento del genere alleviò un minimo il mio dolore.

«N-non... Non mi lasciare... Più» riuscii ancora a biascicare. Lo vidi scuotere appena la testa. «Non ti lascerò mai più» esclamò. Tentai di sorridere, ma ogni mio muscolo si rifiutava di intraprendere una qualsivoglia azione.

«Continua a respirare» mormorò lui. «Respira, d'accordo? Se... Se tu smetti di farlo, io respirò per te».

Era eccessivamente serio, eppure stava piangendo. Sentii le sue lacrime cadere e posarsi lievi sulla mia pelle. Furono quasi lenitive. «Sc-Scusami se... Se ti ho mentito» sussurrai. Ad ogni parola che mi usciva di bocca corrispondeva una fitta al petto, eppure non volevo stare semplicemente zitta perché era molto probabile che non avrei avuto un'altra occasione di dire qualcosa. Lo considerai una sorta di premio di consolazione prima dell'inevitabile.

«Shh. Non... Non pensarlo neanche, intesi?» replicò Simon. Dopo si guardò distrattamente attorno. I miei occhi socchiusi tentarono di focalizzarsi sui suoi lineamenti. Era stato lontano da me per più di un mese e nonostante quel periodo fosse relativamente breve, lui sembrava cambiato, come se qualcosa lo avesse costretto a farlo, a diventare più grande. I suoi capelli erano più corti, lo sguardo più deciso e profondo.
Chissà come era stato in quei giorni trascorsi con Tamara, quanto tempo era rimasto con lei e come le era sfuggito... Per quale motivo le era sfuggito.
Il mio corpo si stava facendo sempre più pesante. Sembrava non appartenermi più. Se non fosse stato per le sue dita che continuavano ad accarezzarmi il viso, avrei perso il contatto con la realtà da un pezzo. Le palpebre calarono, fui sul punto di chiudere definitivamente gli occhi, ma lui mi scosse appena e mi costrinse a guardarlo, a fondere i suoi diamanti azzurri con i miei, verdi.

«No, no, no, no... Hazel» mi chiamò. «Resta con me».

«Sono stanca...» mi difesi e a quel punto smisi anche di ragionare, ormai abbandonata a ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Avevo ancora voglia di lottare, ovviamente, ma non avevo più un briciolo di forza per farlo.

«Non devi addormentarti».

«Non ce la faccio...».

«Tu ce la fai. Lo so che ce la fai. Ascoltami, okay? Focalizzati sulla mia voce, solo sulla mia voce».

Era difficile. Per quanto amassi la sua voce, qualcosa mi stava trascinando via – metaforicamente – da quel luogo e io non potevo impedirlo. Anche se mi sforzavo di parlare ancora, dalla mia bocca uscivano solo lamenti. Riuscii ad ascoltare le frasi che Simon mi diceva, mi sussurrava di restare con lui, di tenere gli occhi aperti, ma io... Io non ce la feci.

Era troppo arduo resistere.

E allora mi lasciai andare.

  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: LilithJow