Capitolo II
Rimasero impalati sul pianerottolo per una manciata di secondi, ma a lui sembrò comunque un tempo interminabile. In quegli anni, l’aveva vista in mille versioni diverse: abitini provocanti, borse enormi, giubbini di pelle per darsi un tono, camicie, polo, elegantissima, a volte anche sportiva…ma in quel momento persino il flemmatico Manfredi non poteva evitare di fissarla un minimo turbato: l’impeccabile Carla Ferrari era lì con dei pantaloncini sbrindellati che arrivavano a metà coscia, un’informe tshirt viola con la scritta Camposcuola Sorriso 1998 e un paio di peluche ai piedi dalle dimensioni imbarazzanti.
— Non sapevo portassi gli occhiali,— disse lei
mentre continuava a fissarlo.
Non
sapevo ti piacesse distruggere le fantasie erotiche del maschio medio, avrebbe voluto risponderle. Non lo fece, ma
qualcosa del suo sguardo dovette tradire il pensiero perché la vide arrossire,
a disagio.
Una voce squillante e vagamente familiare li
raggiunse: — Ti dico che è più su, non pensi che avrebbero aperto la porta
sapendoci qui?
— Moni, ricordi male…
Carla sembrò ancora più a disagio e impaziente,
quando lo guardò negli occhi e gli chiese: — Posso entrare?
Le fece un cenno e, quando furono dentro, chiuse la
porta facendo attenzione a non fare rumore.
Nella penombra dell’ingresso, mentre Manfredi stava
appoggiato alla porta fissando Carla al centro della stanza, inevitabilmente
calò un silenzio carico di imbarazzo.
— Se continui a fissarla così, la porta prenderà
fuoco.
Incuriosito, la osservò distogliere gli occhi e
guardarsi intorno impacciata.
— Scusami per l’improvvisata, ma… non so come
spiegartelo,— disse ancora più in difficoltà.
— La dentista
ti ha portato a casa gente troppo altolocata per il tuo abbigliamento?
Lei lo guardò senza capire, prima di avere un’illuminazione
e darsi una frettolosa occhiata all’abbigliamento: — Sono proprio ridicola
conciata così, vero?— gli domandò, con un sorriso divertito che finì con il
sorprenderlo,— Comunque no, non sono scappata per questo motivo. È che non
volevo incontrare quelle persone…
Manfredi la soppesò con lo sguardo, indeciso se
insistere o meno. In fondo non era da lui intromettersi negli affari altrui.
— Hai tagliato con la dentista?— domandò alla fine. Quando lei annuì, come al solito non
fu in grado di trattenersi: — E come mai, divergenze insostenibili sul locale
da frequentare?
Anziché incazzarsi, Carla si mise a ridacchiare: —
Ma ti sembro davvero così superficiale?
Lui sollevò le spalle e in quel gesto volle
ricordarle tutte le volte che le aveva incontrate per le scale, troppo
impegnate a commentare il delirio
della sera prima o troppo ubriache o troppo in tiro per prestare attenzione a
chi era dietro di loro.
— E poi, quando diavolo smetterete di chiamarla dentista?
A quella domanda, neanche Manfredi riuscì a
nascondere un sorriso divertito: — Non vorrei mai offenderla…
Inevitabilmente i pensieri di Manfredi andarono
all’unica volta che Carla era stata in quell’appartamento.
Era dicembre, il loro primo anno di università.
Manfredi, Alessio ed Enrico, ben lontani dal pensare agli impegni universitari,
avevano deciso di dare una festa prima che i due ragazzi tornassero ai
rispettivi paesi per le vacanze natalizie, lasciando la casa al solo Manfredi.
Avevano invitato praticamente chiunque conoscessero anche solo di vista e,
inevitabilmente, l’invito era stato esteso anche alle tre bellissime inquiline
del piano di sotto. Alla fine erano
venute in due – la bionda impettita e la mora dal sorriso timido – e se ne
erano state per i fatti loro, senza riuscire a inserirsi in quella caciara che
si era rivelata la festa. Manfredi non pensò subito che fossero snob, perché in
fondo sapeva quanto potesse essere difficile socializzare in un ambiente del
tutto estraneo e, dal momento che una delle due lo aveva molto colpito, si era
ripromesso di avvicinarle per farle sentire a loro agio.
Non ne ebbe occasione.
Non seppe dire l’esatta dinamica, ma a un certo
punto cominciarono a piovere da tutti i lati patatine e pop corn, finché
qualcuno degli invitati non minacciò tutti con una bottiglia di spumante a buon
mercato. Ci fu il fuggi fuggi generale e, nella calca, una ragazza cadde,
sbattendo la faccia a terra.
Poi, grazie alle urla imbufalite dell’amica, tutti
scoprirono il nome della malcapitata: Carla.
— Ma vi sembra il modo di comportarsi? L’avete fatta
cadere! Ma che persone siete?
La ragazza, alzatasi senza troppi problemi, mise una
mano sul braccio dell’amica: — Non mi sono fatta niente, Monica.
L’amica la guardò scocciata e subito strabuzzò gli
occhi: — Sanguini! Fammi vedere!
La costrinse ad aprire la bocca e, dopo un’occhiata
frettolosa, guardò i ragazzi intorno a loro: — Ci vogliono i punti.
Manfredi come sempre non riuscì a trattenersi: —
Macché punti, è un taglietto.
— Senti, mi puoi credere perché io faccio odontoiatria,— lo incalzò la
ragazza, atteggiandosi.
— Ah, quindi dopo aver studiato chimica e fisica hai
già le competenze di un dentista. Minchia, complimenti,— commentò a quel punto
Enrico.
Monica stava per rispondere, ma venne interrotta da
Carla: — Tesoro, mi andresti a prendere un bicchiere d’acqua così pulisco la
bocca e ce ne andiamo da qui?
Mentre l’amica si allontanava, qualcuno diede un
kleenex alla ragazza per pulirsi le
labbra. Nascosta dietro il fazzoletto, si rivolse a Manfredi ed Enrico: — Mi
dispiace, è un po’ irruente ma a modo suo voleva difendermi.
— No, — la interruppe bruscamente Manfredi,— Voleva
soltanto farci vergognare del nostro modo di divertirci. Tu sei stata solo la
scusa.
— Effettivamente non è molto carino invitare
qualcuno e poi buttargli addosso del cibo,— gli rispose lei spazientita.
Si guardarono male per qualche minuto, finché
Manfredi non decise di voltare le spalle a quella stronza snob e di tornare al suo divertimento non molto carino.
***
Rimasero
impalati sul pianerottolo per una manciata di secondi, ma a lui sembrò comunque
un tempo interminabile. In quegli anni, l’aveva vista sempre uguale a se stessa:
distaccata, tra il serio e l’infastidito per quel continuo via vai che era
costretta a sopportare. Quel giorno, però, e per la prima volta da che Gabriele
avesse memoria, Sveva lo accolse con quello che inequivocabilmente era
sollievo. Era un particolare luccichio negli occhi celesti, una piega insolita
delle labbra rosa, un guizzo delle sopracciglia delicate.
—
Oh, sei tu…— commentò poi facendogli spazio per entrare.
—
La tua infinita gentilezza non smette mai di commuovermi,— le disse mentre le
dava un bacio sulla guancia, che la fece sbuffare infastidita.
—
Carla non c’è.
—
Come non c’è?— si lamentò,— Aveva detto che sarebbe stata…
—
Per una volta potresti stare zitto?— lo interruppe brusca, mentre gli occhi
andavano verso il corridoio, da cui adesso che ci faceva caso sembravano
provenire delle voci.
—
Uh, sei in compagnia? Chi è lo sfortunato stavolta?
—
Facciamo così: va’ lì dentro e scoprilo da te. Io ho da fare.
Detto
questo, la ragazza gli voltò le spalle e si andò a chiudere in camera. Fu solo
quando arrivò nel soggiorno che Gabriele si spiegò il sollievo con cui Sveva
aveva accolto il suo arrivo e soprattutto la fretta con cui si era rifugiata
nella sua stanza. A dirla tutta, si convinse che anche Carla doveva essere
nascosta da qualche parte.
—
Voi che cazzo ci fate qui?
Guardando
i due ospiti di Sveva, la mente di
Gabriele andò a quel famoso febbraio del loro primo anno di università. Negli
anni del liceo Gabriele e Carla erano sempre stati amici inseparabili,
insostituibili alleati nelle manifestazioni e occupazioni studentesche. Da quando
erano iniziate le lezioni, però, si vedevano molto meno, perché nonostante
frequentassero entrambi Giurisprudenza per quel primo anno erano stati divisi
in due cattedre diverse. Ad essere penalizzata era stata Carla, dato che
Gabriele si era ritrovato con certe loro conoscenze del partito, mentre lei era
completamente sola. Carla non lo diceva mai ad alta voce, ma per una ragazza
come lei, abituata da sempre a essere circondata da amici, quella condizione
era una vera maledizione. Purtroppo, Gabriele capì l’entità di quel malessere
quando ormai era troppo tardi e le conseguenze si erano rivelate nella loro
gravità.
Non
aveva capito nemmeno quel famoso giorno in cui gli aveva presentato il coglione
che adesso se ne stava comodamente seduto nel salotto di Carla e Sveva: la
persona che più disprezzava al mondo.
Mentre
se ne stava nell’atrio con i suoi colleghi, aveva scorto una persona familiare
camminare nella sua direzione: — Ferrari,— l’aveva chiamata,— che ci fai qui
fuori a quest’ora? Non avevi lezione di filosofia del diritto?
Carla
l’aveva guardato un po’ spaesata, ma si era comunque fermata a salutarlo: — Mi
ha chiamato Monica per prendere un caffè insieme.
—
Scusa, ma quello di casa vostra non va bene?
Carla
non era mai stata una secchiona, ma non era da lei perdere una lezione per un
puro capriccio.
—
No, ma… in effetti non siamo da sole, sai…— aveva spiegato in difficoltà.
Il
grand’uomo aveva fatto la sua comparsa proprio in quel momento.
—
Hei Carli, scusa il ritardo.
Bastarono
cinque minuti di stentata conversazione, perché Gabriele collegasse alcune
cose: Carla era tutta in tiro come mai era stata negli anni del liceo; quel
tizio dall’aria allampanata aveva addosso due mesi di stipendio dell’operaio
medio; Carla era paonazza al punto da essere imbarazzante; il tizio se la
mangiava con gli occhi, visibilmente divertito; Carla era così intimidita da
quel cretino che le si inceppavano le parole come mai le era accaduto prima.
Dopo
qualche giorno, Carla gli raccontò che glielo aveva presentato Monica a una
delle serate in cui andavano tutti i venerdì. Si chiamava Andrea, era figlio di
un noto avvocato penalista e – come aveva precisato dopo appena due parole –
abitava in un attico in pieno centro. Era semplicemente ricco e privilegiato.
Una vera delusione che una ragazza come Carla desse importanza a cose del
genere.
***
La
mezzora più lunga della sua vita. Un’autentica agonia! Carla e Manfredi se ne
erano stati seduti in cucina, cercando di fare una conversazione che non
sfociasse in una lite. Purtroppo, si erano rivelati davvero pochi gli argomenti
che non li facevano scattare uno contro l’altra: né politica né esami né tempo libero. Se
ricordava bene, stavano per litigare pure quando lei si era lamentata del gran
caldo di quella giornata.
A
un certo punto, gli aveva chiesto se poteva fare una telefonata e non aveva
resistito alla tentazione di tirare un sospiro di sollievo quando all’altro
capo Sveva le aveva detto che Monica e Andrea se ne erano andati da una
manciata di minuti.
Lo
aveva ringraziato per l’ospitalità prima di lanciarsi contro il portone e
scendere di corsa le scale, come a voler mettere quanta più distanza possibile
tra lei e il gelo che le trasmetteva Manfredi.
Era
stato Gabriele ad aprire la porta di casa: alto come pochi suoi conoscenti, ben
piazzato di spalle e dalla carnagione scura per gli anni passati a giocare a
rugby all’aria aperta, riccioli biondi e occhi azzurri da bambino dispettoso,
Gabriele riusciva sempre ad apparire ancora più bello grazie a quel modo di
fare così spontaneo e poco studiato. Carla non poteva fare a meno di chiedersi
come mai non si fosse mai invaghita di quello che fin da bambini era stato il
suo migliore amico.
—
Hai deciso di estirpare la libido maschile dal mondo?
—
Eh?— domandò senza capire.
—
Dove sei andata vestita in quel modo?— spiegò, mentre sghignazzando la faceva
entrare in casa.
—
Taci, per favore…— lo pregò mentre per l’ennesima volta guardava desolata il
suo abbigliamento a dir poco ridicolo.
—
Dov’è Sveva?
—
A fare quello che le riesce meglio…
—
Cioè?
—
Appena sono arrivata si è chiusa in camera e mi ha lasciato solo con quei due,—
le raccontò sbuffando, — Almeno lei non si fa cacciare da casa sua da due
idioti…
Era
troppo sperare che Gabriele non le facesse la ramanzina che le propinava ogni
volta che la vedeva cambiare strada per non incontrare Andrea in facoltà.
—
Non posso farci nulla…
—
Beh, adesso devi imparare a farci
qualcosa.
—
Che vuoi dire?
—
Hanno deciso di farlo… Hanno deciso di creare il CSA anche qui da noi. E sai
chi è il presidente di Azione Universitaria…
Carla
fece no con la testa, incredula. Non voleva incontrare Andrea, era riuscita ad
evitarlo per almeno un anno e avrebbe potuto continuare a farlo per altro tempo
ancora. Non voleva averci a che fare, provare di nuovo quel profondo senso di
umiliazione che aveva provato tanto tempo fa, a causa di Monica, a causa di
Andrea. Ma soprattutto a causa sua.
—
Non lo farò mai.
Note:
E finalmente - dopo eoni dal primo capitolo - eccoci al secondo. Mi dispiace averci messo tutto questo tempo, ma a mia discolpa posso dire che non sono stati mesi facili: ho iniziato la pratica forense con tutti gli impegni e la stanchezza che ne derivano e ho preso parte a un progettino molto ambizioso con altre due autrici di EFP nonché membri adorati della mia famiglia virtuale: Emily Alexandre e Lyra Winter. Il progetto in questione ha un nome - Persefone - e si tratta di una storia a sei mani e come tale piuttosto esigente. Se foste interessate, eccovi la trama e il link :
1920. 1969. 2013. New York.
Il jazz e i sogni folli degli anni Venti, l'epoca dei sopravvissuti, di chi ha perso i propri cari in guerra ma ha alzato la testa ed è andato avanti, mentre l'odore del tabacco copre quello della morte e l'immortalità è a portata di mano.
La musica e gli ideali di Woodstock, ultimo sogno di una gioventù ribelle, che sta per risvegliarsi sull'orlo di un baratro.
E, infine, il presente dove ogni cosa si ripete sfuggendo a ogni logica razionale, caotica, veloce, inarrestabile. Un viaggio ai confini di un mondo ormai sepolto, per scoprire che non tutto è come appare, per imparare ad essere liberi.
Una stessa città e tre ragazze.
Maia, Mer e Tai vivono i loro ventiquattro anni in tre momenti del tutto diversi, eppure c'è qualcosa a tenerle unite: una potente famiglia, una collana dai diamanti rossi, una vita già stabilita e la confortante presenza di un grande amore.
Finché, un giorno, non arriva lui...
Persefone
Alla prossima,
Agnes