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Autore: EvgeniaPsyche Rox    18/01/2014    5 recensioni
[Una piccola raccolta horror che spero possa farvi compagnia durante il periodo di Halloween e oltre.
Insomma, se non sapete quali storie raccontare ai vostri amici, beh... Ci sono io!]

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Attenzione: il primo e l'ultimo capitolo della storia non sono esattamente ciò che si definisce horror , anzi, potrebbero addirittura strappare un sorriso e risultare dolci. Ho deciso di aprire e concludere la raccolta in questo modo perché... Perché sì, mi andava
Al contrario, i capitoli centrali potranno essere più inquietanti e giungere addirittura a qualcosa di più ''forte''.
Capitolo 1: Le caramelle rubate.
Capitolo 2: Altrove.
Capitolo 3: Dietro la tenda.
Genere: Generale, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
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3. Dietro la tenda


 

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Era il suo libro preferito, anche se aveva imparato da poco a leggere e non aveva ancora compreso esattamente in che cosa consistesse la trama.
Era il suo libro preferito, e proprio per questo lo teneva sul comodino accanto al proprio letto; avrebbe potuto così aprirlo in ogni momento della giornata, soprattutto prima di andare a dormire.
Era il suo libro preferito, nonostante si limitasse a sfogliarne le pagine, avanti e indietro, una decina di volte, osservando i disegni stilizzati sotto le brevi frasi scritte in cima.
Aveva sei anni, Roxas, e quando gli domandavano chi preferisse tra la mamma e il papà rimaneva zitto; non sapeva quale fosse il suo cartone preferito, né tanto meno quale canzone gli piacesse più ballare, o quale giocattolo adorasse maggiormente tra quelli che possedeva nel suo enorme scatolone bianco.
Non aveva una fiaba preferita perché gli sembravano tutte uguali. Però aveva un libro preferito, e il suo si intitolava ''Dietro la collina.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Chiuse il libro e lo appoggiò sul comodino; dopodiché allungò la mano e spense il piccolo abat-jour a forma di scimmia. 
Si sistemò sul materasso, socchiudendo lentamente gli occhi, con le immagini del suo amato libro che parevano danzare nella sua mente.
Sulla prima pagina c'era una collina lontana, e il cielo era grigio, tutto grigio, sfumato in malo modo. Vi erano anche numerose case, su quella collina, tutte dal tetto rosso.
Nella seconda pagina invece venivano raffigurate le porte di ogni singola abitazione; erano tutte uguali, di un legno che pareva morto, abbandonato a se stesso. Le pareti bianche sgretolate, piene di crepe ovunque.
Erano case differenti rispetto a quelle che venivano costruite nella città di Roxas.
A Roxas piacevano le cose particolari, diverse. Per questo amava addormentarsi con le immagini del suo libro preferito in testa
 
 
 
 
 
 
 
 
Gli era stato regalato da sua zia Sarah; si stava disfando di tutti gli oggetti di suo figlio, poiché era tragicamente scomparso, e a Roxas era capitato quel magico oggetto di cui si era innamorato immediatamente.
Era sottile come qualsiasi altro libro per bambini.
Sulla copertina c'era lo stesso disegno della prima pagina e in stampatello maiuscolo vi era scritto: ''Dietro la collina.''
Nessuno scittore, casa editrice o autore.
Solo un titolo, delle parole che Roxas non riusciva ancora a leggere, e i disegni stilizzati. 
Negli altri libri le immagini invece erano perfette, spesso erano le stesse dei cartoni animati che guardava in Tv e questo faceva nascere in lui una grande invidia. 
Al contrario il suo libro preferito conteneva dei disegni che avevano il suo stesso stile; ciò significava che anche lui avrebbe potuto scrivere un libro o fare il pittore.
Il suo libro preferito gli aveva dato un futuro assicurato, per questo a Roxas piaceva tanto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Di notte sognò di galleggiare tra quelle immagini che adorava in maniera così morbosa.
Piovevano pezzi di carta, nella città dal nome misterioso che era posizionata su una collina immaginaria. C'erano le case dai tetti rossi, una ventina al massimo, il cielo grigio, e una piazza in mezzo alla quale spiccava una fontana.
Una fontana guasta probabilmente, poiché era del tutto asciutta.
Roxas non ricordava di aver incontrato qualcuno e questo gli dispiaceva molto perché dalla terza pagina in poi iniziano ad esservi disegnati tanti bei volti tristi: erano i volti degli abitanti della città sulla collina e a Roxas sembravano persone differenti da quelle che lo circondavano. 
A Roxas piacevano le cose diverse, particolari. Lo attiravano in qualche modo.
Proprio come Cappuccetto Rosso era rimasta attratta da quel bosco oscuro da cui avrebbe dovuto stare alla larga.
 
 
 
 
 
 
 
 
Passavano le settimane, e Roxas a scuola si stava impegnando al massimo nella lettura perché voleva decifrare una volta per tutte il suo libro preferito.
Ne aveva parlato con i suoi amici e loro gli avevano detto che volevano vedere a tutti i costi quel libro così particolare.
Lo aveva mostrato anche a sua madre, precisamente aveva aperto il libro alla terza pagina e aveva indicato il disegno che raffigurava una ragazzina dai capelli gialli (''Si dice biondi!'', lo aveva corretto poi la donna) e gli occhi azzurri.
Durante l'ora di arte aveva perfino iniziato a disegnare quella città che tanto lo affascinava e spesso cercava di raffigurare ciò che aveva visto nei suoi sogni.
 
 
 
 
 
 
 
 
Sognò la ragazza dai capelli gialli, il giorno in cui provò a disegnarla di fronte agli occhi un po' perplessi del suo maestro di pittura.
«Io vivo qui», gli disse, e Roxas la capì non dal suono dalla voce, perché non l'aveva, bensì dalle parole che fuoriuscivano dalle sue labbra sottoforma di ragnatele che poi formavano lettere tremanti, le quali infine andavano tristemente ad impigliarsi sulle case, dando loro un aspetto ancora più trasandato.
La ragazzina aveva lunghi capelli gialli, gli occhi azzurri, la pelle chiara, un vestito bianco come la neve e i piedi scalzi. Rimase seduta per tutto il tempo sul bordo della fontana e Roxas dal canto suo non si era avvicinato più di tanto.
Si limitò a guardarla disegnare su un album, in silenzio. Non parlò mai, anche se avrebbe voluto porle mille domande, magari sugli altri abitanti, ma non ne ebbe il coraggio, dal momento che era troppo terrorizzato dal vedere le ragnatele uscire dalla propria bocca.
Talvolta si guardò attorno e capì che gli abitanti della città non dovevano essere molto loquaci, poiché le ragnatele non erano così numerose.
Una in particolare però lo colpì: era appesa sul portone di una casa non molto lontana. Pareva più distrutta delle altre.
Poche parole, lettere tremanti, sul punto di decadere.
Roxas assottigliò gli occhi e si sforzò di leggere:
'''Vat-te-ne-da-qui.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Sulla quarta e sulla quinta pagina altri volti. Gli abitanti guardavano sempre di fronte a sé e sembravano davvero fissare Roxas che cercava in ogni maniera di leggere chissà cosa in quegli specchi mal disegnati.
La sesta pagina era tutta bianca, spiccavano solo alcune macchie nere che avrebbero dovuto rappresentare alcuni corvi.
Sulla settima pagina invece c'era solo una frase che Roxas lesse più facilmente perché sapeva di averla già vista da qualche altra parte: ''Vattene da qui.''
Si sentì offeso in qualche modo.
Perché gli abitanti del suo libro preferito volevano cacciarlo via? Che cos'aveva fatto di male?
Ci pensò un po' e comprese che forse si sentivano soli. E Roxas sapeva che quando una persona si abituava troppo alla solitudine poi non voleva vedere più nessuno.
Decise dunque di portare il suo libro a scuola per farlo vedere ai suoi amici come aveva promesso; magari in quel modo gli abitanti della città avrebbero sentito meno il peso della solitudine.
 
 
 
 
 
 
 
 
Roxas passò la fine della mattinata a cercare il suo amato libro nella sua piccola cartella blu. Venne addirittura rimproverato un paio di volte dalla maestra e quando si accorse di averlo perso per davvero, scoppiò a piangere.
Pensò alla fanciulla dai lunghi capelli gialli, alla fontana guasta, alla collina in lontananza, e pianse ancora più forte, enormi gocce d'acqua dai suoi occhi che andavano a bagnargli il grembiulino azzurro, finché improvvisamente il richiamo di un suo compagno lo distrasse: «Maestra, maestra! C'è una ragnatela qui!» 
«Che schifo!»
«Bleah, ma è enorme!»
Roxas si voltò di scatto e scorse una ragnatela sotto il banco del primo bambino che aveva parlato; dietro di essa giaceva il suo amato libro, nascosto da un quaderno di matematica.
Gli occhi blu di Roxas allora si fecero duri, un'espressione adirata, forse troppo per un bambino di soli sei anni, pareva un adulto tremendamente incazzato alla vista della sua auto rigata, e si avvicinò a passi veloci verso il compagno che gli aveva rubato gli abitanti della città sulla collina.
La maestra non fece in tempo a precipitarsi verso i due, che Roxas già lo aveva spintonato, facendogli sbattere la testa contro il banco.
Roxas non sapeva se era ciò che voleva fare. Era partito con l'intenzione di allontanarlo e basta, non di fargli male. Roxas non lo sapeva, non lo sapeva proprio, ma quando, tra gli schiamazzi degli altri bambini e le urla della maestra, si chinò sotto il banco e notò che il suo libro era stato strappato, si accorse che, sì, era quello che voleva, voleva farlo piangere, quello schifoso ladro maledetto.
 
 
 
 
 
 
 
 
La maestra lo sgridò, sua madre lo mise in punizione e suo padre disse che in fondo era solo un bambino.
Ma a Roxas non importò niente di tutto ciò.
Non cenò e passò la serata chiuso in camera propria, cercando di risistemare la collina distrutta.
Il suo compagno aveva stropicciato alcune immagini, ma il danno più grave era la pagina strappata che Roxas stava tentando disperatamente di incollare, nonostante non ricordasse esattamente dove si trovava.
Raffigurava un altro abitante della città, un uomo precisamente: era alto, aveva i capelli rossi che parevano artigli che riempivano il cielo grigio, due strani simboli sugli zigomi, le gambe lunghe, e gli occhi verdi, verdissimi, che guardavano dritto di fronte a sé, verso Roxas, e lo osservavano ancora più intensamente degli altri volti.
Roxas passò un'ultima volta la colla sulla pagina e riuscì finalmente ad attaccarla al libro; dopodiché si lasciò sfuggire un allegro sorriso soddisfatto e si asciugò le mani sul pigiama. Tornò a guardare il proprio lavoro e si stupì, forse più che altro si impaurì, anzi, si spaventò proprio, perché notò che era comparsa una frase in alto, sui capelli rossi dell'abitante della città sulla collina.
Ne era sicuro, prima non c'era quella frase. Era rimasto più di venti minuti ad armeggiare con la colla, quindi aveva imparato perfettamente i disegni, i colori, tutto.
Non c'era quella frase che ora spiccava, non c'era proprio.
''Gra-zie-per-a-ver-mi-sal-va-to.''
«Prego.», rispose Roxas ad alta voce, più tranquillo.
Era felice che ora gli abitanti della città non fossero più spaventati da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
Era un rumore indecifrabile ma persistente, che si espandeva come un sussurro nell'orecchio di Roxas ad intervalli regolari.
Ogni tre secondi un toc.
Altri tre secondi. Toc.
Tre secondi. Toc.
Roxas rimase paralizzato sotto le coperte, la testa sul cuscino, immerso nelle tenebre, ad osservare il nulla.
Tre secondi. Toc.
Quel rumore lo stava torturando, gli impediva di prendere sonno, lo terrorizzava. Lo faceva sudare, era accaldato, ma non aveva il coraggio di togliersi le coperte. Voleva solo addormentarsi e tornare nella città sulla collina.
Pensò di chiamare sua madre, ma era arrabbiato con lei, poiché lo aveva messo in punizione.
Pensò di chiamare suo padre, ma aveva paura di schiudere le labbra e urlare a gran voce.
Tre secondi. Toc.
Roxas rimase così per una decina di minuti e non riusciva a capire se si stesse abituando a quel rumore o se la paura avesse ormai preso possesso di lui. Ogni volta sperava che il Toc si interrompesse, che tacesse una volta per tutte, ma non accadeva mai, arrivava sempre, e talvolta pareva più forte, altre volte più debole, illudendo il bambino che fosse sul punto di spegnersi definitivamente.
Analizzò il rumore nelle sue sfumature e comprese che proveniva di là, verso il comodino, dove c'era il suo libro preferito, dietro la tenda.
Tre secondi. Toc. Tic.
Si aggiunse un altro rumore. 
Tre secondi. Toc. Silenzio. Tic.
Roxas si mise le coperte sulla testa e chiuse le mani in una preghiera, mescolando un po' tutte quelle che conosceva solo vagamente, poiché non era mai riuscito ad impararle a memoria.
Quel giorno non riuscì a tornare dalla ragazza dai lunghi capelli gialli e rimase solo con il rumore proveniente dalla tenda.
 
 
 
 
 
 
 
 
Non volle andare a scuola la mattina successiva. Non voleva rivedere il suo compagno crudele e la maestra che lo aveva sgridato.
Sua madre andò a lavorare e lui si chiuse in camera propria per sfogliare all'infinito il suo libro preferito.
Andò alla pagina che aveva incollato e si stupì quando si accorse che i residui di colla erano completamente scomparsi. Pensò che la sua colla fosse magica e si divertì a rileggere la frase dell'abitante rosso, il suo dolce ''Grazie'', poi si divertì anche a dirgli mille volte ''Prego.''
Dopodiché abbassò lo sguardo verso gli occhi verdi disegnati in malo modo e si fermo lì, a guardarli per minuti interi. 
Gli parve quasi di riuscire a contare tutte le volte che l'autore avesse ricalcato con il pastello verde, talmente tanto intensamente stava osservando quelle pozze smeraldine: successivamente provò un brivido forte alla schiena che in un attimo si espanse in tutto il corpo, come una fredda carezza, e Roxas pensò che fosse una piacevole sensazione, almeno fino a quando il brivido non si trasformò in un tagliente bruciore agli occhi, insopportabile, acuto, pareva davvero che qualcuno gli avesse lanciato del succo di limone sul volto.
Roxas allora urlò forte, chiamò un sonoro ''PAPA'!'', e scoppiò a piangere perché quel bruciore non passava, e più si sfregava gli occhi, più le gocce di limone sembravano penetrargli le orbite.
Continuò a sfregarsi le palpebre finché suo padre non spalancò la porta della sua piccola stanza, allarmato, ed ebbe un sussulto quando, guardando prima il riflesso di suo figlio allo specchio, notò che al posto delle iridi c'erano due voragini nere, come se qualcuno gli avesse strappato gli occhi senza pietà.
 
 
 
 
 
 
 
 
Quella notte dormì con i suoi genitori, rannicchiato accanto al robusto corpo di suo padre.
Si strinse le gambe al petto e quando si addormentò si ritrovò nella piccola piazza della città sulla collina.
Vide ancora una volta la ragazza dai lunghi capelli gialli intenta a disegnare. 
Roxas questa volta le si avvicinò ed ebbe voglia di chiederle un centinaio di domande, ma alla fine dalle sue labbra ne scivolò fuori una soltanto: «Dove sono gli altri?», chiese, e fu sollevato dall'udire la propria voce, almeno fino a quando non s'accorse che dalla bocca gli erano uscite delle falene nere come il carbone che portava Babbo Natale ai bambini cattivi.
Roxas ebbe l'impulso di vomitare, perché l'idea di aver avuto quelle creature nel proprio stomaco gli fece venire una tremenda nausea; poi le vide volare via, e parevano zoppicare in aria, proprio come l'amico di suo padre a cui mancava una gamba, e infine andavano ad attaccarsi sulle pareti delle varie case, formando delle macchie scure.
La fanciulla dai lunghi capelli gialli scosse la testa e lanciò improvvisamente tutti i suoi pastelli nella piccola fontana guasta. Dopodiché schiuse le labbra, e altre falene nere iniziarono a riempire l'aria, andando ad addobbare i numerosi edifici. «Sono tutti occupati a costruire una nuova casa. La città è impegnata in una grande festa.»
Roxas non riuscì ad udire bene la sua voce; era strana, quasi fastidiosa, come due unghie affilate che graffiavano la lavagna, o come il tintinnio della forchetta sui bicchieri. 
Non parlò più perché quelle falene erano troppo disgustose, e allora si concentrò sulla fontana dalla quale iniziò a fuoriuscire una pallida nebbia cadaverica che in poco tempo si espanse per la città.
Roxas si svegliò e i suoi genitori lo trovarono sdraiato sul pavimento a moquette.
 
 
 
 
 
 
 
 
Durante la ricreazione mangiò una merendina alla marmellata e fece per andare a giocare con gli altri bambini, quando una fitta allo stomaco lo costrinse a correre urgentemente in bagno.
Portò con sé il proprio libro, impaurito dall'ipotesi che il suo compagno-ladro avesse potuto rubarglielo una seconda volta, e si inginocchiò davanti al gabinetto per vomitare.
Tremò forte, Roxas, in preda a violenti spasmi, e tremò ancor di più quando si accorse che dalle sue labbra pendeva uno strano liquido nero come il carbone. 
Poi guardò il fondo della tazza e vide altro nero; soffocò a stento un urlo isterico e tirò lo sciaquone, terrorizzato all'idea di vedere per davvero delle falene uscire dall'acqua e attaccarsi alle pareti  del bagno.
Con il battito cardiaco a mille, la pelle sudata, le mani tremanti e gli occhi spalancati dal terrore, si voltò lentamente alla propria destra, verso il suo amato libro che dalla fretta aveva lanciato sul pavimento bianco.
Era aperto ad una pagina che non riuscì a riconoscere. C'erano tante figure, gli abitanti, vide perfino l'uomo che lo aveva ringraziato, e, con le braccia tese verso l'alto in una misteriosa danza, avevano circondato una casa nuova dalle pareti pulite e priva di ragnatele.
Sopra una scritta:
''Gli-a-bi-tan-ti-del-la-cit-tà-so-no-fe-li-ci-per-ché-pre-sto-ve-dran-no-il-nuo-vo-ar-ri-va-to.''
 
 
 
 
 
 
 
 
Si rannicchiò nuovamente sul letto matrimoniale dei suoi genitori, ma sua madre lo rimproverò, dicendogli che quella storia non poteva andare avanti per sempre.
Così Roxas si recò in camera propria e suo padre lasciò la porta aperta, raccomandandolo di avvertirlo in caso avesse avuto davvero tanta paura.
Poi si chinò verso di lui, gli diece un bacio sulla fronte e gli disse: «Non esistono i mostri, Roxas.»
E Roxas ci credette, poiché suo padre non diceva mai bugie: si coricò sul morbido materasso e chiuse gli occhi, senza riuscire però a prendere sonno.
Si girò e si rigirò, poi anche i suoi genitori andarono a dormire e la casa venne immersa dalle tenebre che a Roxas quella notte parvero più dense del solito.
Toc. Tic.
Tre secondi.
Toc. Tic.
Altri tre secondi.
Toc. Tic. Toc.
Il cuore di Roxas iniziò a correre, a cavalcare la paura, più forte che mai. Pensò a suo padre che gli aveva detto che i mostri non esistevano, ma non sembrò più crederci molto.
Toc. Tic. Toc.
Bussava. Era qualcuno che stava bussando da qualche parte.
Toc. Tic. Toc.
Due secondi.
Toc. Toc. Toc.
Passi. Qualcuno forse camminava da qualche parte, chissà dove, chissà chi era.
Roxas chiuse gli occhi, come se la vista e l'udito fossero in qualche modo collegati, ma il rumore, al contrario, diventò ancora più forte, insistente, e parve rimbombare nel suo cervello, cresceva di intensità, come quando aveva sentito gli occhi bruciare, e si stupì del fatto che i suoi genitori non si fossero ancora svegliati.
Suo padre gli aveva detto che i mostri non esistevano, e Roxas sapeva che suo padre non diceva mai bugie. Per questo voleva vederla; voleva vedere l'assenza di mostri per abbracciare suo padre e gridare: «Sì, papà, sì, avevi ragione!»
Si tolse lentamente le coperte con il cuore in gola ed ebbe paura di vomitare anche quello, proprio come gli era accaduto con le falene nere come il carbone; si alzò dal materasso, con il Toc Toc fortissimo che sembrava gridare mentre si mescolava al suo battito cardiaco.
Afferrò il libro della città dietro la collina accuratamente posizionato sul comodino e lo strinse al proprio petto, sperando che in qualche modo gli donasse del coraggio.
Toc. Toc. Toc.
Un secondo.
No, meno.
Assenza di silenzio. La stanza ora era piena di rumori: i suoi pensieri che gli martellavano il cervello, la paura che gli violentava l'anima, i suoi passi, il suo cuore, il toc-toc misterioso del mostro-che-non-doveva-esistere.
Allungò la mano sinistra, lentamente, e afferrò il ruvido tessuto ricamato della tenda. Pensò improvvisamente al suo compagno cattivo e al fatto che forse aveva esagerato a spingerlo in quel modo.
Magari l'indomani avrebbe potuto chiedergli scusa.
Scostò di scatto la tenda e non tentò di chiamare suo padre per dirgli che sì, aveva ragione, i mostri non esistevano.
Quando lo vide dal vivo non riuscì a rispondergli con un ''prego'', nemmeno per una volta. 
Poi Roxas lasciò andare il proprio libro e si tappò le orecchie, come se l'udito fosse in qualche modo collegato alla vista.
 
 
 
 
 
 
La stanza di Roxas non era molto grande, alla fine. 
C'era un armadio di legno, uno specchio, un letto e, accanto, un piccolo comodino. Dietro a quest'ultimo spiccava la finestra e una tenda color crema leggermente scostata.
Per terra un libro aperto sulle ultime due pagine: a sinistra un disegno stilizzato che raffigurava un bambino dai capelli gialli e gli occhi blu cobalto.
A destra una collina lontana, il cielo grigio, tutto grigio, sfumato in malo modo. Vi erano anche numerose case, su quella collina, tutte dal tetto rosso. 
Sopra una scritta:
''C'era una volta una misteriosa città che ospitava degli strani abitanti su una collina immaginaria...''
 
 
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*Note di Ev'*
Temevo che questa raccolta fosse morta, ohw. Cioè, le ispirazioni per l'orrore le ho, sono presenti molte storie interrotte qua e là (?), però buh, nessuna mi incitava a continuarla, e poi... E poi mi è uscita questa. 
Ho avuto ''fortuna'', diciamo. Il fatto è che da queste parti sta piovendo a dirotto da giorni interi, e quindi ieri le scuole sono state chiuse; di conseguenza Non ho fatto la verifica di storia dell'arte, olà! ho avuto molto tempo libero per scrivere questa storia, anche perché l'altro ieri, in piena notte, il mio soffitto ha iniziato a perdere acqua e mi sono presa una paura assurda (Non vi dico quante seghe mentali ho iniziato a farmi :C Avevo pure preparato un cartella con il computer e tutti i miei scritti, in caso si fosse allagato tutto e fossi stata costretta a fuggire per chissà dove (???) ), quindi è nata tutta questa storia. Che non c'entra un cazzo né con l'acqua, né con la pioggia, né con niente.
Ed ecco tutta la mia fortuna per questo racconto. Fortuna, sì, tralasciando le svariate frane e tutti i casini poco simpatici che stanno accadendo.
Ma passiamo all'analisi, che è meglio.
 
 
Anche questo capitolo, un po' come quello precedente, è principalmente un gioco tra l'immaginazione, che racchiude anche i sogni, e la realtà.
Abbiamo un bambino particolarmente sfigato, e quando mai non lo è!, Roxas, il quale è follemente innamorato del proprio libro che gli è stato regalato da sua zia Sarah, una povera donna che ha perso suo figlio (Molto probabilmente a causa di quel medesimo libro).
E quindi la storia si alterna con frammenti piuttosto brevi, i quali o descrivono come la quotidianità di Roxas venga influenzata da quel libro, o i suoi sogni riguardanti la misteriosa città, o ancora gli strani rumori che provengono da dietro la tenda. 
I giorni trascorrono, e le stranezze non fanno altro che aumentare: tra disegni piuttosto inquietanti, gente che per parlare è costretta a vomitare falene e ragni ( :c ), occhi che bruciano come non mai, Roxas continua a non capire che deve disfarsi di quel cazzo di libro, ci avviciniamo verso la fine, nella quale gli abitanti sembrano particolarmente felici per il nuovo arrivato che sta per raggiungerli, il quale, tramite il rapimento di quel simpaticone di Axel, si rivelerà essere Roxas stesso.
E si conclude così l'ennesima storia dove Roxas fa la parte dello sfigato.
 
 
'Orcabbestia, l'ultima storia l'ho pubblicata tipo una settimana fa. Yuppi, sto mandando a quel paese gli studi per scrivere tante /allegre/ storie.
E... Non so che altro dire. Oh, beh, sì, come sempre, vi invito caldamente a commentare se avete letto questo capitolo, poiché per me è essenziale comprendere i pareri altrui. 
Detto ciò posso svanire di scena e andare a divorarmi un bel gelato in pieno Gennaio, con la speranza che le scuole da me rimangano chiuse anche Lunedì, così addio versione di latino, shalàlàlà.
Alla prossima-!
E.P.R. 
   
 
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