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Autore: Beatrix Bonnie    26/01/2014    2 recensioni
-Seguito de L'orologio d'oro-
I tempi spensierati sono finiti: con il ritorno di Colui-che-non-deve-essere-nominato, Mairead, Edmund e Laughlin, insieme ai loro amici del FIE, dovranno affrontare il crescente clima di razzismo dell'Irlanda magica, tra ansie per gli esami finali, nuovi caos a scuola e un Presidente della Magia che conquista sempre più potere. Per Edmund non sarà un'impresa facile, soprattutto visto che il ragazzo sarà anche impegnato nella ricerca di un leggendario manufatto magico di grande potenza, che potrà salvarlo dalla maledizione impostagli da Sigmund McFarren. Ma dove lo porterà la sua ricerca? E questo oggetto esiste davvero o sono solo farneticazioni di un vecchio?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 3
Vergognosi compromessi






Il mantello di seta frusciò leggero sulle sue spalle, quando una brezza di vento lo investì, non appena si fu materializzato. Non era il modo di viaggiare che preferiva: di solito prendeva la carrozza trainata dai suoi due cavalli alati, Blood e Purezza. Ma questa volta aveva bisogno di passare inosservato, per cui aveva scelto un metodo più discreto.
Io devo piegarmi a venire da lui. Inaudito.
Si fece forza: per quanto non gli piacesse essere a stretto contatto con quell'uomo, non poteva fare altrimenti.
Quanto è caduta in basso la nobiltà.
Bussò al portone, sentendosi come uno straccione che mendicava alla porta di un gran signore. Ma, forse, quello avrebbe avuto più dignità.
È necessario, è necessario. Sto solo facendo il mio dovere.
Un'elfa dall'aria nervosa venne ad aprire la porta e lo accolse con tutti gli onori. Gli prese il mantello, si sprofondò in una serie infinita di inchini e borbottò qualche scusa a mezza voce.
Ormai sono riverito soltanto dagli elfi domestici.
Seguì la creaturina verso lo studio del padrone di casa, cercando di ricordare a se stesso il motivo per cui si era abbassato a tanto. Pensò che, probabilmente, entrambi i suoi genitori l'avrebbero disprezzato: sua madre perché non condivideva il metodo con cui stava portando avanti i suoi ideali, il padre perché mai e poi mai avrebbe accettato che un nobile come lui si piegasse a tali bassezze. Suo padre era sempre stato un uomo tutto d'un pezzo, inflessibile anche quando era armato solo dei suoi ideali contro tutta la società. Ma lui aveva avuto la fortuna di nascere in un'epoca in cui la nobiltà valeva ancora qualcosa, in cui il nome aveva ancora un certo peso. Mentre ora nessuno aveva più rispetto per nulla, ognuno credeva di avere il diritto di pensarla come voleva, di avere la sua opinione su tutto, senza più obbediente deferenza verso la tradizione di cui era figlio. L'orgogliosa prigione dorata in cui si sarebbe rinchiuso suo padre, avrebbe di fatto spazzato via tutti quei principi che avrebbe invece dovuto difendere. Al contrario, quei vergognosi compromessi che lui era costretto a fare non dipendevano dalla sua volontà, ma dal fatto che doveva pur far sopravvivere ciò in cui credeva. E quella si era dimostrata l'unica via.
«Il padrone vi aspetta nel suo studio.» Le parole della piccola elfa domestica lo strapparono dalle sue considerazioni.
Meccorin Deamundi, undicesimo Conte di Con Cetchthach, si ritrovò a bussare alla porta dello studio di uno degli uomini che più disprezzava al mondo e solo allora realizzò di essere caduto davvero in basso.

«Avanti» replicò annoiato McPride. Riordinò un paio di documenti ufficiali del Governo e li ripose sotto chiave nel cassetto di desta della scrivania.
Deamundi entrò nello studio con la stessa faccia di uno che è appena scivolato a faccia in giù su una bella cacca di troll. Il mento sempre un po' sollevato, l'espressione disgustata e quell'eterna aria di superiorità.
Certe cose non cambiano mai, si disse McPride, con un mezzo sorriso. «Prego, accomodati» lo accolse, alzandosi in piedi e facendo segno di prendere posto di fronte a lui. A giudicare dal suo sguardo, l'altro avrebbe preferito sedersi sul groppone di un Dulladhan, ma dopo qualche secondo di ripugnanza fu costretto a cedere.
«Scusa se ti ho fatto venire fin qui, ma ho un sacco di lavoro arretrato» si giustificò, usando il suo tono più amabile e innocente. In realtà, quella frase sottintendeva molte cose ed era certo che anche Deamundi le avesse colte; prima di tutto, sottolineava la sottile differenza tra loro due: lui si era fatto da sé, con il proprio duro lavoro, l'altro aveva ricevuto titolo, fama e ricchezze su un piatto d'argento, come gentile eredità del padre. In secondo luogo, l'averlo costretto a venire da lui, indicava chi dei due reggesse davvero le fila del gioco.
Io.
Deamundi non rispose nulla, ostinato nel suo sdegnoso mutismo, così McPride continuò: «Allora, di cosa volevi parlare?» Gli dava del tu e lo trattava come fossero vecchi amici. Sapeva quando questo infastidisse l'altro e forse proprio per quel motivo si divertiva tanto. Dopotutto, avevano solo un anno di differenza e al Trinity avevano avuto più che qualche sporadico contatto. Anzi, McPride si ricordò di quella volta in cui, al penultimo anno, Deamundi aveva tentato di dissuaderlo dal rubare la relazione della loro compagna di casa Elan O'Connel; furto che lui aveva progettato in modo da assicurarsi che fosse il suo articolo ad ottenere la pubblicazione sulla rivista Incantesimi Inantati e non quello della O'Connel.
Il loro alterco, a suo parere, era restato memorabile. Ancora ci ripensava, ogni tanto, e sorrideva soddisfatto.

Trinity College, febbraio del 1958

«Ti stai cacciando in grossi guai, McPride» lo avvertì Deamundi, fissandolo dritto negli occhi.
Adolphus si lasciò sfuggire un sorrisetto. «I miei guai sono solo affari miei» gli rispose, facendo intendere che la conversazione poteva chiudersi lì. Ma non aveva fatto i conti con una circostanza molto semplice: stava parlando a Messer Pomposo Deamundi, prossimo conte di Con Cetchthach.
«I tuoi guai sono affari della casa, se rischiano di farci perdere punti» gli rispose infatti l'altro ragazzo e nel dirlo spinse in fuori il petto, come per far meglio vedere la sua coccarda da dictator, la carica studentesca più prestigiosa.
Adolphus gli lanciò uno sguardo di sufficienza. «Detto tra noi, mi interessano poco i punti della casa, quando c'è in ballo una pubblicazione su Incantesimi Incantati» replicò con un annoiato sbadiglio.
Gli occhi di Deamundi si ridussero a due fessure, come se volesse incenerirlo con un solo sguardo. «Non capisci, vero? L'onore della propria casa viene prima di tutto» recitò a denti stretti. «Prima di qualsiasi cosa e a qualsiasi costo.»
Adolphus sbuffò scocciato. «Tienili per te i tuoi pomposi ideali da nobilotto. Gloria e onore mi interessano solo quando posso averli io» gli rivelò.
«Non osare!» scandì Deamundi, improvvisamente più alto e minaccioso. «Non osare mai più darmi del nobilotto, razza di sudicio plebeo! Io sono Meccorin Con Cetchthach Deamundi di Sir Eriu Temair, prossimo undicesimo Conte di Con Cetchthach...»
«Sì, sì, sì» lo interruppe Adolphus, annoiato. «Lascia che ti riveli una cosa, Prossimo Undicesimo Conte: la tua merda puzza quanto la mia» gli confidò con un ghigno; poi approfittò dello scandalizzato mutismo dell'altro per continuare: «E quando tu sarai rinchiuso nel tuo palazzo dorato a difendere i tuoi titoli vuoti, io sarò sopra di te, perché sarò arrivato al vertice del potere con le mie forze, e ti cagherò in testa talmente tanto da fartici affogare dentro.»
E poi se ne andò, lasciandosi alle spalle un impietrito Deamundi, parecchio scandalizzato e di certo meno pomposo.


Il Deamundi di oggi, invece, era fin troppo pomposo e schizzinoso per i gusti di Adolphus McPride.
«Ho portato il nominativo per sostituire Donna O'Marsy.» Il suo tono di voce voleva suonare neutro, ma trasudava superiorità.
«Hai scelto saggiamente, spero» lo stuzzicò McPride, senza tuttavia togliere la maschera di affabilità e cortesia.
Deamundi lo fissò per qualche secondo, come se volesse sfidarlo a mettere in discussione la sua autorità. «Daireen Cumhacht» annunciò.
La Cumhacht? Quella testa calda? McPride sapeva poco di quella donna, ma gli erano bastate le rare occasioni in cui aveva avuto a che fare con l'EIF per inquadrare quella squilibrata. No, non sembrava per niente una buona idea. «Perché proprio lei?» si sentì in dovere di chiedere.
Deamundi sembrò soppesare l'idea di non dare spiegazioni del suo operato a insulsi plebei, ma alla fine si costrinse a rispondere: «Suo fratello insegna Trasfigurazione al Trinity: sarà un valido appoggio per lei, quando dovrà sostituire Captatio.»
Tutti uguali, questi nobili. Convinti che i legami familiari fossero più forti di qualsiasi cosa. Fosse stato per lui, avrebbe fatto una scelta più oculata, ma era certo di non poter far cambiare idea all'altezzoso Conte. Inoltre, nutriva il dubbio che la decisione avesse anche altre motivazioni oltre a quella che gli era stata fornita.
«Molto bene» concesse infine. «Le cose stanno andando per il meglio.»
«Per il meglio?» gli fece eco Deamundi, quasi inorridito.
McPride si concesse un sorriso falsamente bonario. «A volte sei così cieco, Meccorin.»
L'altro contrasse i pugni, ma in realtà si limitò a una di quelle sue occhiate che avrebbero fatto tremare il cuore del più impavido degli uomini.
Non il mio, però, si disse McPride ridendo tra sé e sé per quegli assurdi atteggiamenti da nobile consumato dalla tragicità del mondo. Unì la punta delle mani e fissò Deamundi dritto negli occhi. «Il ritorno di Colui-che-non-deve-essere-nominato è per noi una benedizione, perché nulla unisce un popolo più della minaccia di nemico straniero» gli spiegò paziente, con aria di uno che ha a che fare con un bimbetto. «E quando la paura di essere invasi diventa più forte della ragione stessa, si tende ad accogliere di buon grado anche leggi che a mente lucida verrebbero taccate di razzismo. Non ci avevi pensato, vero?»
«A te non è mai importata la difesa dell'Irlanda dagli inglesi!» lo accusò il Conte, che stranamente ritrovava la voce solo quando aveva da difendere i suoi stupidi ideali della razza pura celta.
«Non è la mia priorità» concesse McPride, solo per il gusto di far infuriare Deamundi, più che per reale presa di posizione. Al momento, appoggiava tale linea non solo perché effettivamente la riteneva la migliore, ma anche perché era quella che gli avrebbe permesso di restare sulla vetta.
«Non resterai per sempre in posizione di potere» lo ammonì Deamundi, con freddo scherno, come se volesse ricordare che lui, invece, sarebbe restato Conte di Con Cetchthach fino alla fine dei suoi giorni.
«Una volta ti dissi che gloria e onore mi interessano solo quando posso averli io e non ho cambiato opinione.» Il sorriso di McPride non poteva essere più ricco di fascino e inquietante insieme. «Vedi, mi sono parecchio affezionato al mio posto di Presidente dell'Irlanda Magica.»
Deamundi pareva incredibilmente soddisfatto per qualcosa. «Il tuo mandato scade fra un anno e mezzo» gli annunciò. «E dopo il secondo mandato non sei più rieleggibile.»
«Allora sei sordo, oltre che cieco» lo schernì McPride che, nonostante l'evidenza dei fatti pronunciati dall'altro, sembrava avere ancora un asso nella manica. «Nulla unisce più che un nemico straniero e la paura fa sì che la gente cerchi una figura carismatica in cui credere.» Si alzò dalla sedia e aprì le braccia, una grottesca e inquietante versione di un papa amorevole che parla alle folle di fedeli. Sorrise e il quadro fu perfetto. «Io sono l'uomo di cui hai bisogno per la tua sicurezza.»

***

Laughlin osservò costernato la roba che aveva preparato: con tutti quei bagagli, sembrava un venditore ambulante, o un one-man-band. Aveva il baule, la sua arpa celtica dentro la custodia rigida e il nuovo violino che aveva comprato a giugno, quando aveva cominciato a suonare; doveva mantenersi allenato, se voleva sperare di padroneggiare lo strumento entro un paio di anni.
In realtà, buona parte della sua costernazione derivava dal fatto che il giorno dopo sarebbe partito per il suo ultimo anno al Trinity, più che non dall'enorme quantità di bagagli che era costretto a portarsi dietro. Che poi, a voler ben guardare, non era neanche così enorme.
Qualcuno bussò alla sua porta e dal tocco delicato riconobbe che era sua madre.
«Avanti» borbottò con uno sbadiglio.
La testa di Daire fece capolino nella stanza. «Pronti i bagagli?» domandò con un sorriso.
Laughlin si strinse nelle spalle e rispose con una specie di grugnito: era inutile fingere, perché tanto sua madre aveva un radar eccezionale per captare le bugie. Doveva esserselo fatto impiantare in qualche zona del cervello quando era restata incinta.
«Che succede, Laughlin?» sondò infatti, entrando in camera sua.
Il ragazzo si lasciò cadere sul letto con fare sconsolato. «È l'ultimo anno» annunciò, senza che si capisse davvero il subbuglio di emozioni che tale affermazione doveva provocargli. Sua madre si sedette sul letto a fianco a lui e attese che decidesse di parlare. Faceva sempre così: non lo obbligava mai, né lo costringeva con le parole, ma attendeva che lui fosse pronto a svuotare il sacco. Quante volte, da bambino, aveva ceduto a quel silenzio insieme amorevole e deciso e aveva confessato le sue marachelle.
Sbuffò. Tanto non c'era niente da fare contro Daire. «Voglio dire...» cominciò, mettendosi a gesticolare per enfatizzare le sue parole. «Al Trinity mi trovo bene, è come una seconda casa e ci sono i miei amici. Poi quest'anno facciamo solo le materie avanzate che abbiamo scelto noi, quindi non ho neanche il problema di dover studiare cose che non mi piacciono.» E questa era la parte nostalgica, di chi non ha per niente voglia di finire la scuola.
Eppure c'era ancora qualcosa che lo turbava. Daire sorrise, per incoraggiarlo a continuare.
«È che, allo stesso tempo, sono stufo di starmene chiuso tra le mura del castello, ho voglia di vedere cosa ci aspetta dopo, là fuori. Di entrare nel mondo del lavoro, nel mondo degli adulti» confessò alla fine.
Sua madre annuì comprensiva, posandogli una mano sulla spalla. «Laughlin, goditi quest'ultimo anno, perché poi, per affrontare il mondo là fuori, hai tutta la vita» gli consigliò. Come ogni ragazzo, anche il suo piccolino aveva voglia di crescere e spiccare il volo, ma era giusto che imparasse a pazientare e a gustarsi la sua adolescenza, prima di venir scaraventato nella società adulta, con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà.
«Ehi, Laugh, vieni fuori ad allenarti con me?» esclamò proprio in quel momento Bearach, spalancando la porta della camera del fratello con la scopa da corsa in mano. «Voglio provare ad entrare in squadra come Cercatore, quest'anno!»
Laughlin fece una smorfia. «Sto parlando con la mamma di cose serie.»
«Quanto sei noioso» borbottò il ragazzino, facendogli il verso con le espressioni della faccia. «La maturità non ti dona» gli confessò, appoggiando il piede sulla scopa e sollevandosi di un poco da terra.
«Bearach, non voglio che si voli in casa» puntualizzò Daire, in tono fermo.
Il ragazzino ridiscese a terra con un sonoro sbuffo.
«Dai ascolto a tua madre» intervenne il signor Maleficium, che stava passando per il corridoio proprio in quel momento. In realtà, il suo soccorso si rivelò superfluo, perché era piuttosto difficile tentare di disobbedire a Daire Maleficium.
«Finite le lezioni, caro?» domandò la donna con un sorriso.
«Sì, per oggi sì.» Tenere una scuola di musica si stava rivelando più impegnativo del previsto, dal momento che era praticamente l'unica di tutta l'Irlanda magica. Ma Eoin ne traeva delle immense soddisfazioni. Anche se, ad essere sinceri, il suo allievo preferito era Laughlin, perché vedeva riflesso negli occhi di suo figlio il suo stesso amore per la musica. «Ti porti dietro anche il violino, Laughlin?» gli chiese infatti, notando la custodia vicino al baule.
«Be', se voglio migliorare devo esercitarmi» rispose con semplicità, cercando di nascondere il fastidio causato da quella intrusione in massa nella sua camera.
Eoin sorrise. «Bravo, così avrò qualcuno a cui lasciare in eredità la mia scuola e tutti i miei strumenti» ci scherzò su.
«A me no di certo!» puntualizzò Bearach, sghignazzando. «Sono un disastro in musica!»
Eoin finse un'aria drammaticamente seria. «Infatti, a volte, mi chiedo come tu possa essere mio figlio.»
«Papà!» protestò il ragazzino, simulando una smorfia offesa. «E comunque neanche a Laughlin interessa la tua scuola: lui vuole fare carriera al Ministero» aggiunse, con un'occhiata di biasimo nei confronti del fratello maggiore.
Laughlin ricambiò con uno sguardo di superiorità. «Che male c'è in un po' di sana ambizione?» domandò, ma mentre lo stava dicendo, già non era più del tutto sicuro che quella potesse essere davvero la sua strada.
Fu assalito da una strana ansia. In fin dei conti, non aveva realmente fretta di entrare in un mondo in cui tutto era traballante e insicuro. Aveva voglia di crescere, certo, ma in che ambiente? Paura, razzismo, morte. Questo era ciò che il mondo degli adulti avrebbe potuto offrirgli, ora come ora.
Mi godrò quest'ultimo anno, si ripromise. Poi affronterò ciò che ci attende là fuori.









Eccomi!
In extremis, ma ce l'ho fatta ad aggiornare.
In questo capitolo potete gustare appieno i miei due adorabili cattivoni, Deamundi e McPride, solo per voi, insieme nella stessa scena! ahahah! Io li adoro, perché sono tutti e due cattivi ma a modo loro e sono troppo affascinanti da descrivere. Visto che poi sono praticamente agli antipodi, metterli assieme è un vero spasso. Infatti, il ricordo del Trinity, appartiene ad una raccolta one-shot che avevo programmato di scrivere, dedicata a personaggi minori di ognuna delle tre case. Al momento il progetto è arenato causa troppi impegni, ma questo pezzo era troppo divertente per restare nella memoria del pc!
Così avete anche un po' pregustato i piani malefici di McPride. Credete che cederà la seggiolina di presidente tanto facilmente? ;)
Infine, ho voluto dare un po' di giustizia anche a Laughlin che, va bene che è un buffone, ma ha anche lui i suoi momenti seri. Le sue ansie da ultimo anno sono più che giustificate, in fondo: credo che le abbiamo avute tutti alla fine di un ciclo scolastico (liceo, università?), ma in più lui ha la scusa di Voi-sapete-chi. E non è una scusa da poco!
Comunque, vi lascio con un paio di immagini:
QUI l'immagine del capitolo, ovvero il caro conte Meccorin Deamundi.
QUI, invece, la copertina che avevo fatto per quel famoso racconto da cui è tratta la scena McPride-Deamundi. Guardateli, non hanno l'espressione perfetta per il loro ruolo? ^^

Ci rivediamo per il prossimo capitolo domenica 16 febbraio. E avrete una sorpresa bella grossa! ;)
A presto,
Beatrix

   
 
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