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Autore: Midnight the mad    01/02/2014    5 recensioni
Un vecchio diario trovato per caso, una pagina che racconta una storia di cui non c'è memoria.
Un segreto che centinaia di persone proteggerebbero con la vita, e che altrettante sarebbero disposte a rubare allo stesso prezzo.
Una scelta sbagliata, un potere perduto.
Come puoi scegliere da che parte stare?
E, soprattutto, come puoi essere certo di stare facendo la cosa giusta, se sai di non poterti fidare neanche di te stesso?
"Lo guardai. - Credo che tu non pensi davvero quello che stai dicendo. -
- E come fai a saperlo? Sai che non ho mentito. -
- Sì, ma so anche che non l'hai fatto neanche prima. Non hai mentito, quando hai detto che mi amavi. -"
"- Per proteggere te. E' per questo che l'ho fatto, dannazione! -
- Ah, davvero? Secondo me non è la verità. Secondo me l'hai fatto solo per proteggere te stesso, la tua felicità. Non ti è mai importati di quello che ne sarebbe stato di me. -
- Loro volevano ucciderti. - sussurrò, gli occhi lucidi.
- Anche tu mi hai uccisa. Non sono più io, questa, accidenti! Come fai a non rendertene conto? -"
Genere: Avventura, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccomi qui con il primo capitolo, come promesso molto più lungo del prologo :) Spero che vi piaccia.

L’ORO DELL’AZZURRO
Cominciò tutto con L’Oro dell’Azzurro. Joan Mirò, 1967. Ubicazione attuale: Barcellona. Tutto scritto ordinatamente sul retro del quadernetto che mi regalò mia zia per il mio compleanno, e che portava l’opera in copertina. Veniva dal Louvre, uno di quei souvenir che si possono comprare ovunque, a dire il vero. Era in un pacchetto insieme a un poster che non appesi mai e ad alcune cartoline che rappresentavano chissà quali altri quadri. L’unica cosa che ricordo è che in uno dei dipinti mi sembrava vagamente di riconoscere una scimmia, ma non era poi così sicura che fosse la verità, visto che anche L’Oro dell’Azzurro mi sembrava soltanto uno scarabocchio azzurro su uno sfondo giallo con qualche asterisco qua e là. In effetti, quando lo ricevetti io, dieci anni appena compiuti, lo relegai immediatamente nel cassetto degli oggetti che non usavo mai, e lì restò, almeno penso. Una volta o due provai a scriverci sopra usandolo come diario, ma non era così semplice, visto che non aveva le righe stampate, ma solo pagine bianche, e tutte le parole finivano per pendere penosamente verso destra. Alla fine, strappai quelle prime pagine e le buttai via, e il quaderno finì di nuovo nel cassetto, dal quale venne tirato fuori due o tre volte, massimo quattro, nel corso degli otto anni successivi, tanto per fare le pulizie. E sopra, nel tempo, gli si accumulavano altri vecchi diari usati o quaderni scartati per lo stesso motivo.
Intanto, la mia vita andava avanti senza chissà quali problemi, e senza curarsene molto dei quaderni accatastati nel terzo cassetto della scrivania. Avevo diciotto anni compiuti da poco, quinta liceo scientifico alla fine del primo triennio, carriera scolastica non male, compagni di classe simpatici eccetera eccetera. Il mio migliore amico si chiamava Jo, abbreviazione di Giovanni, nome con cui per altro non lo chiamava nessuno. Ci eravamo conosciuti al primo anno di liceo, e all’inizio l’avevo trovato un po’ inquietante. Aveva gli occhi verdi. Non quel castano strano che di solito viene chiamato “verde”, erano proprio color foglia appena nata. A guardarlo, a volte, sembrava di vedere un alieno, però era simpatico. Ci eravamo trovati bene da subito, e all’inizio mi era anche piaciuto proprio nel senso di piacere, ma ormai era acqua passata. Eravamo solo amici, troppo amici per mettersi insieme e rovinare tutto, anche perché effettivamente lui non era mai sembrato interessato a me in quel senso. Come a nessun’altra ragazza, del resto, almeno per quanto ne sapevo io. A dire il vero, stavo iniziando a pensare che fosse gay, anche se non gliel’avevo mai chiesto. In effetti, era il mio migliore amico e basta, quindi che importanza aveva?
La mia migliore amica invece era Marghe, Margherita. Era stata in classe con me fino alla quinta elementare, ma ci vedevamo comunque spesso, visto che l’avevo praticamente costretta a venire con me al corso di nuoto che frequentavo. Era quella a cui parlavo di più di me, essenzialmente. Le dicevo tutti i miei sogni da piccola e tutti i miei pensieri da grande. Ed era bello parlare con lei, visto che non mi chiamava mai “strana”, né dava l’impressione di credere che fossi pazza, neanche quando facevo i discorsi più assurdi. Era bello avere qualcuno a cui potevo dire le cose che mi vergognavo anche a scrivere in un diario. Marghe capiva più della carta, decisamente.
Era gennaio, tardo gennaio, il giorno in cui, alla disperata ricerca di un foglio bianco per stampare una relazione che avrei dovuto consegnare il giorno dopo alla professoressa di fisica, infilai una mano nel terzo cassetto della scrivania. Ne cavai fuori un bel po’ di roba, tra cui nessun foglio da stampante. Il quadernetto dell’Oro dell’Azzurro finì sulla moquette blu insieme a tutto il resto, spiaccicato sotto il vocabolario di latino. Quando mi decisi a tirarlo fuori da lì sotto, aveva la copertina irrimediabilmente piegata. Con un sospiro, cercai di raddrizzarla, e in quel momento mi cadde l’occhio sulla facciata bianca della prima pagina.
O meglio, sulla facciata che sarebbe dovuta essere bianca.
Un po’ stupita vidi che, dopo i segni di un paio di pagine strappate in precedenza, la prima pagina integra era per metà ricoperta di scritte, fatte con una grafia piuttosto frettolosa, ma che senza dubbio era la mia. Era anche piena di abbreviazioni che usavo spesso quando avevo più o meno dodici anni, cosa confermata dalla data in alto a destra, che segnava il ventitré di maggio di sei anni prima.
Ma lo stupore divenne qualcosa di più quando lessi cosa c’era scritto sopra.
 
Sto per morire.
Ok, lo so ke è strano iniziare un diario in punto di morte, ma voglio rendermi meglio conto dell’enorme cazzata ke ho fatto e ripetermi quanto sono scema e ke, se uscirò viva da questa storia (anke se nn credo) nn farò mai + una cosa del genere.
Allora, tutto è cominciato circa 20 minuti fa. E cioè quando Marghe mi ha chiesto… insomma, meglio
 
Stop. Tutto qui. Nient’altro. Per un po’ rimasi a fissare la pagina, quasi allibita. Ma quando cazzo l’avevo scritta, quella roba? E perché? Che mi era preso? L’ennesima delle fissazioni che avevo a quell’età? E perché avrei dovuto scriverla lì? Ma poi, cazzo, “sto per morire”? Seriamente? Sembrava il diario della vittima che viene trovato in un film horror, tanto meglio se con l’ultima frase neanche finita. Decisamente, era un po’ inquietante.
Magari era un racconto che avevo iniziato a scrivere, pensai. In quel periodo, avevo spesso fisse per quel genere di cose. In effetti, l’idea di una vita “strana” mi era sempre piaciuta. Ero la classica bambina fantasiosa che voleva a tutti i costi credere nella magia e roba del genere. Per un periodo mi ero anche fissata con la religione delle streghe e i poteri delle pietre. A dire il vero, adesso mi vergognavo abbastanza. Però quella pagina di diario era davvero piuttosto strana. La fissai per un po’, poi decisi di mandare un messaggio ironico a Marghe, tanto per scherzarci su. Tanto, lei l’aveva sempre saputo che non ero tanto normale. Dopo la mia crisi per non aver ricevuto la lettera da Hogwarts che c’era stata verso la prima media ormai non si stupiva più di nulla, perciò fotografai la pagina e le mandai l’immagine.
Ehi, guarda un po’ qua.
Lei, come al solito, rispose dopo più o meno un paio d’ore.
Cavolo, ma che roba è???
Boh, l’ho trovato in un quaderno del cavolo che non aprivo da secoli. Penso sia tipo una storia che mi stavo inventando o qualcosa del genere, ma a dire il vero quando l’ho vista mi è preso un colpoXD
In effetti è un po’ inquietante. Boh, io non mi ricordo di averti mai detto niente che c’entra con la tua morteXD
No, neanche io. Mi sa che in quel periodo ero proprio svampita del tutto -.-
Tu sei sempre svampita.
Ah. Ah. Ah.
Alzando gli occhi al cielo mollai il cellulare sulla scrivania insieme al quaderno, infilai la relazione nello zaino e mi misi a letto.
-
Erano dietro di me.
Non sapevo come facessi a saperlo, ma era la verità, lo sentivo nelle ossa, e nella paura che sputavo a ogni respiro mentre ansimavo.
Correvo, correvo e basta, il cuore in tumulto. Pensare era troppo difficile, troppo stancante, visto che ero già esausta, terribilmente esausta. Mi sembrava di correre da sempre, a dire il vero.

Ero in un bosco, o qualcosa di simile. Non riuscivo a concentrarmi su niente di quello che vedevo, ma c’era verde sotto e verde sopra, e marrone all’altezza dei miei occhi. E io continuavo a correre, a scappare. Non dovevano prendermi, non dovevano trovarmi, o sarebbe finita male.
La borsa mi sbatteva contro la coscia quasi con furia a ogni passo, mi stringeva il collo con la tracolla di cuoio troppo duro. All’improvviso, qualcosa in me scattò. Ero arrivata.
Mi fermai, e vidi la porta in mezzo agli alberi. Era assurdo che ci fosse una cosa del genere, lì, eppure c’era: una porta di vecchio legno dall’aria solida, sospesa a una trentina di centimetri da terra, che sembrava galleggiare nell’aria.
La aprii e corsi dentro. Non finii dall’altra parte, atterrando di nuovo sull’erba. Tutto il mondo si confuse nel buio.
E poi aprii gli occhi.
-
Mi svegliai di soprassalto. Mi succedeva spesso, dopo sogni particolarmente frenetici, che a dire il vero non facevo quasi mai. Non avevo mai avuto più di tanta memoria per i sogni, di solito me li dimenticavo quasi subito, eppure dubitavo che con quello sarebbe successo. Era così vivido, e avevo anche il fiatone, accidenti. Ma cavolo, proprio un incubo doveva capitarmi? Detestavo gli incubi.
Sbadigliando, mi misi seduta e lanciai un’occhiata alla sveglia. Erano le sei e mezza e dopo un quarto d’ora mi sarei dovuta alzare, perciò non avrebbe avuto molto senso rimettersi a dormire. Mi alzai in piedi e mi stiracchiai ruotando le spalle all’indietro, poi afferrai lo zaino e iniziai a ficcarci dentro le cose che mi sarebbero servite quel giorno a scuola, ovvero troppe. Da quando ero in quinta ed erano cominciate le giornate scolastiche di sei ore due volte a settimana per preparazione alla Maturità il mio zaino era diventato degno di un sollevatore di pesi professionista.
Che palle.
Afferrai il cellulare, che ovviamente era scarico. Con uno sbuffo, lo collegai al caricatore. Possibile che la batteria durasse sempre meno? L’avevo messo a caricare il pomeriggio precedente, accidenti!
Frugai nell’armadio alla ricerca di qualcosa di decente da mettermi, e alla fine optai per il classico abbinamento “felpa e jeans”. Faceva troppo freddo per qualsiasi altra cosa. Nella mia città, per qualche motivo a me ignoto, faceva relativamente caldo – addirittura sui quindici gradi – durante tutto dicembre e la prima metà di gennaio. Poi, non appena arrivava la seconda metà, temperature intorno allo zero. Il tutto cambiava da un giorno all’altro: tu uscivi tranquillamente di casa alla solita ora con la solita giacca e ti ritrovavi a congelare fissando la strada ricoperta di brina. Anche perché l’umidità, lì, non mancava mai.
Mi infilai in bagno e mi diedi una rapida lavata con l’acqua fredda. Non avevo mai voglia di aspettare che si scaldasse, anche se in inverno mi ritrovavo sempre a detestare la mia mancanza di pazienza.
Cercai in qualche modo di sistemare quella matassa intricata a ciocche castane e blu che erano i miei capelli, e alla fine fui costretta a usare della schiuma per renderli presentabili. Odiavo sentirmi appiccicosa di quella roba, ma almeno in quel modo non sembravo qualcuno che aveva appena messo un dito in una presa di corrente.
Entrai in cucina per fare colazione, nonostante lo odiassi. La mattina avevo sempre lo stomaco chiuso, ma sapevo benissimo che, se non avessi mangiato, entro le dieci mi sarei ritrovata a lamentarmi per la fame, e questa volta il mio compagno di banco mi avrebbe uccisa sul serio. Mi limitai a ingoiare una manciata di cereali, poi tornai in bagno per lavarmi i denti. Guardando l’orologio appeso al muro, mi resi conto che erano appena le sette. Non avevo nessuna voglia di restare lì ad aspettare gingillandomi, perciò pensai che magari sarei potuta uscire subito e magari fare un salto al bar accanto alla scuola dove facevano una cioccolata calda con panna che sinceramente valeva il prezzo astronomico a cui era venduta. Non stetti a pensarci troppo; mi infilai un paio di stivaletti e la giacca, afferrai lo zaino e uscii.
Fuori, come previsto, il freddo mi fece rabbrividire. Ficcai le mani in tasca e cercai di camminare il più in fretta possibile fino alla fermata dell’autobus, cosa assolutamente inutile visto che poi dovetti restare lì ad aspettarlo per altri cinque minuti. Quando finalmente riuscii a salire, mi resi conto che qualcosa di buono nel prendere il pullman a quell’ora c’era: il mezzo era praticamente deserto. Mi lasciai cadere su un sedile, cosa che non riuscivo quasi mai a fare in orari normali, e mi ficcai le cuffie nelle orecchie. Isolarmi dal mondo non sembrava una cattiva idea, almeno fino a quando, con la musica, non arrivarono anche le immagini del sogno, che erano decisamente inquietanti, quasi angosciose. Probabilmente mi ero solo fatta un po’ troppo coinvolgere da quella pagina di diario ma ehi, strano era strano, dovevo ammetterlo. Sbuffando, mi sfilai le cuffie e mi rassegnai a passare tutto il resto del viaggio in silenzio.
Quando finalmente fu l’ora di scendere, mi ero praticamente addormentata con la faccia spiaccicata contro il finestrino. Grugnendo mi tirai su e corsi fuori. In effetti, forse sarebbe stata una buona idea restare a dormire un altro po’.
Non appena misi piede nel bar, però, dovetti ricredermi. Valeva sicuramente la pena di passare una mezzoretta lì prima di entrare in quella specie di ospedale dai muri scrostati che era la mia scuola. Da Nadia era un locale su due piani che si affacciava su una delle piazze più frequentate della città, all’angolo della strada che portava alla stazione. Era arredato in modo moderno, ma l’atmosfera era quella di una serata in famiglia davanti al caminetto. Non so perché mi facesse quell’impressione, ma non ero l’unica ad adorare quel posto. In effetti, c’era già un bel po’ di gente, perciò fui costretta a evitare di salire al piano di sopra, dal quale si poteva osservare tutta la piazza, vista l’enorme finestra che correva lungo tutta la parete.
Mi rassegnai a infilarmi in uno dei tavolini della saletta meno frequentata, quella più vicina all’uscita. Era dotata di porte a vetri ma, come in qualsiasi altro posto lì in città, era impossibile evitare gli spifferi. Beh, comunque, la cioccolata era davvero calda, e buona, anche. Pure se costava quattro euro e cinquanta.
All’improvviso qualcosa, anzi, qualcuno – anzi, qualcosa e qualcuno – mi finirono addosso. Io riuscii miracolosamente a evitare che la cioccolata sporcasse la mia giacca preferita, ma in qualche modo quella fece una piroetta e finì direttamente in testa al qualcuno di cui sopra. Seguì un’imprecazione.
In qualche modo riuscii a togliermi di dosso una… valigia, poi mi guardai intorno per valutare i danni.
Ero finita per terra, ma almeno non mi ero fatta male, visto che sotto di me c’era una borsa piuttosto grande ma morbida.
E, accanto a me, c’era Dio.
No, non avevo appena preso una botta in testa. Ero appena caduta praticamente addosso al ragazzo più assolutamente fantastico che avessi mai visto. Era alto, più di me sicuramente, spalle larghe ma non un armadio, capelli nero pece completamente ricoperti di cioccolata, che gli era colata anche sul viso dalla mascella squadrata e gli occhi di un castano scuro anche quello quasi nero. Socchiusi la bocca, poi ingoiai aria. – Ehm. – balbettai.
Lui, a sorpresa, mi fissò quasi preoccupato. – Ti sei fatta male? –
Eh? – No. Scusa per… – aggiunsi, viola dalla testa ai piedi, indicando i suoi capelli.
Dio ridacchiò, e io per poco non rimasi imbambolata a fissare il suo viso perfetto. Cazzo. Non mi ero neanche truccata, quel giorno, e…
Il ragazzo interruppe i miei pensieri pulendosi una macchia di cioccolato dal viso e leccandosi il dito. – Buona. – commentò, ironico, poi tornò serio. – Davvero, mi dispiace. Lo sapevo che non sarebbe stata una buona idea entrare qui dentro con tutta questa roba. – Si tirò su, poi mi spostò la valigia di dosso e mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi. Io per un secondo continuai a fissarlo imbambolata.
- Stai bene? – scherzò lui. – Vabbé che sono figo, ma non c’è bisogno che sbavi. –
Mi riscossi di colpo a quella battuta. – Sì, e sei pure un bello stronzo. – mi uscì, prima che riuscissi a fermarmi. Ma cazzo! Possibile che non riuscissi mai a essere carina con i ragazzi?
- Stronzissimo. – concordò però Dio, senza offendersi. Poi mi tirò su e basta. – Scusa. Odio quando le ragazzine fanno quelle facce. – aggiunse. – Di solito dovrebbero prendermi a schiaffi, quando finisco addosso alla gente in questa maniera. –
- Se vuoi posso prenderti a schiaffi. – ribattei, incrociando il suo sguardo. Era strano, ovviamente bellissimo, nonostante avesse il viso per metà ricoperto di cioccolata.
Ridacchiò. – Sarebbe divertente. – rispose. – Almeno saprei che effetto fa. –
Alzai gli occhi al cielo, ma non ero arrabbiata con lui. In effetti, sembrava parecchio un tipo da botta e risposta. – Magari potresti levarti quella roba di dosso. – osservai.
- Mh. – concordò. – Scusa di nuovo. – Cavolo, ora aveva perso del tutto l’aria da stronzo.
Scrollai le spalle. – Diciamo che non sono io quella ricoperta di cioccolata calda. –
Fece un mezzo sorriso. – Già. Vado a darmi una lavata. – Si guardò intorno.
- Il bagno è lì. –
- Ah, ok, grazie. –
- Vuoi una mano? – chiesi, senza pensarci. Un attimo dopo, avrei voluto prendermi a pugni. Cavolo, non ero io quella che gli aveva appena dato dello stronzo? Però accidenti, era davvero bello, troppo bello.
- Non eri superiori ai fighetti stronzi? – domandò, quasi con sfida.
Alzai gli occhi al cielo e lo spinsi nel bagno.
In effetti, non servii a molto, visto che più che altro quello che fece fu ficcare la testa sotto il rubinetto del lavandino. Dai capelli gli venne via un bel po’ di cioccolata.
- Direi che ho fatto. – commentò, dopo un po’.
- Sì, ma farai meglio a farli asciugare, prima di uscire. – osservai.
- Mh, già. – rispose, uscendo dal bagno con me al seguito. Raccolse sacca e valigia e le appoggiò contro il muro, poi si sedette al tavolo che, durante la nostra assenza, era stato perfettamente ripulito. – Ti va di aspettare un po’ qui con me? –
Io rimasi a fissarlo. Ma che era, adesso si metteva a provarci?
Alzò gli occhi al cielo. – E dai, che palle, non fare la permalosa. Prometto che non farò più il montato idiota, d’accordo? –
Mi sedetti con una scrollata di spalle, guardando l’orologio. Mancava ancora un quarto d’ora all’inizio delle lezioni, e restare lì con quella specie di fotomodello non sembrava una cattiva idea. – Magari già che ci sei puoi dirmi come ti chiami. Così almeno la smetto di chiamarti Dio. –
Lui scoppiò a ridere. – Mike. – rispose. – Micheal, in realtà, ma sono stato chiamato talmente volte “Michelle” per sbaglio che adesso dico a tutti che mi chiamo Mike. –
In effetti, era capitato anche a un mio ex compagno di classe che si chiamava così di essere chiamato “Michelle” per sbaglio. – E sei… in viaggio? – chiesi, guardando la valigia e la borsa.
- Sì, mi sono trasferito da esattamente due ore e sedici minuti. – spiegò, ironico. – Sono venuto qui per l’università. –
- Quale? – In realtà, non lo vedevo in nessuna università. Per qualche motivo, osservando sia lui che il giubbotto di pelle non proprio nuovissimo che indossava – che addosso a chiunque altro sarebbe sembrato perfettamente anonimo, ma che ovviamente addosso a lui era perfetto – me lo immaginavo come una specie di rockstar o roba del genere. In effetti, con quei capelli un po’ lunghi alla Billie Joe Armstrong, ci sarebbe stato bene.
- Ingegneria. Tu, invece? –
- Liceo. Ultimo anno. – risposi, ma sinceramente non avevo chissà quale voglia di parlare di me. – Da dov’è che ti sei trasferito? –
- Milano. Ah, non me l’hai detto come ti chiami, vero? –
Il trucchetto più vecchio del mondo. Che, effettivamente, però, funzionava sempre benissimo. – Eva. – risposi. – Mi dispiace, non ho un nome figo come il tuo. – aggiunsi, scherzando, ma non più di tanto. Lui era un ragazzo fantastico che arrivava da Milano, andava all’università eccetera, io una liceale anonima con i capelli mezzi tinti di blu, un nome stupido e una vita passata sempre nella stessa città alle spalle.
- A me piace, invece. – rispose. – Sa tanto di cattiva ragazza. –
- E a te piacciono le cattive ragazze? –
Ridacchiò. – Sì, direi di sì. – Si passò una mano tra i capelli, scuotendo un po’ la testa per farli asciugare meglio. – Dai, raccontami qualcosa di te. A meno che tu non pensi che io sia un maniaco. –
- In effetti, hai un po’ l’aria da maniaco. – scherzai, ma neanche così tanto. In effetti, il soprannome “Dio” non gli si addiceva per niente. Era bellissimo, certo, ma una di quelle bellezze meravigliosamente pericolose. Sì, c’era qualcosa, nei suoi occhi, un briciolo di sfida e anche di qualcos’altro, che mi piaceva quasi più del suo aspetto. – Diciamo che in questo posto non ci sono solo cattive ragazze. –
Si lasciò scappare un sorriso. – Cosa intendi tu esattamente per “cattivo”? –
- Non lo so neanche io. – ammisi. – Ma direi… sottilmente crudele. Un po’ come me. – In effetti, era abbastanza vero: ero tremendamente sarcastica, e a volte me ne uscivo con cose un bel po’ taglienti. Non avevo un ottimo carattere, insomma.
- Mh… allora dovrei iniziare a preoccuparmi. – rispose, con aria cospiratoria.
- Forse. –
Cavolo, era divertente parlare con lui. Così tanto divertente che non mi accorsi di che ore fossero fino a quando non guardai l’orologio e capii di essere già in ritardo di dieci minuti.
- Cazzo. – sibilai, schizzando in piedi e afferrando lo zaino.
- Ritardo? – chiese lui.
Non risposi nemmeno. – Beh, ciao. – dissi. Era un saluto stupido, ma avevo un compito in classe alla prima ora.
- E dai, te ne vai così? Hai davvero così tanta voglia di andare a scuola? –
Mi bloccai. In effetti, no. Però…
- Magari potresti darmi una mano a trovare casa mia. Sai, non è che io sia molto pratico di questo posto. –
- Che c’è, stai cercando di rimorchiare? – chiesi.
Alzò le spalle, con un mezzo sorriso. Un fantastico e sottilmente crudele mezzo sorriso.
Ci misi circa due secondi a decidere che il compito poteva anche essere tranquillamente saltato. – D’accordo. – 
  
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