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Autore: Love_in_London_night    12/02/2014    6 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente (una cosa come eoni fa, lo so): Rhys cerca di fronteggiare il problema fratellastro. Tenta di distrarlo con regali che colmano il senso di colpa e la distanza tra loro, ma non funziona molto: Austin sa che il fratellastro è l'unica persona che gli è rimasta e vuole averlo vicino. Rhys, che lo vede come un problema, cerca di eludere le sue attenzioni.
Passiamo poi alla cena a casa Voight per festeggiare il compleanno di Nathan. Cena interessante, dove Felicia cerca di capire le ragioni del ritorno di Nate perchè, da amante del torbido e delle congiure quale è, pensa che dietro ci sia altro oltre al lavoro e la figlia. Pem, per evitare all'ex un brutto quarto d'ora (ma anche di più), rivela ai genitori che Cassidy è bisessuale, sviando così l'attenzione da Nathan, dato che i genitori sono alquanto... tradizionalisti.
quest'ultimo però si vendica dicendo a tutti che Pemberley frequenta un uomo, che si viene a scoprire che è Rhys, cosa che sconvolge la madre, dato che lui è socio della sua fondazione benefica. Non sa più quindi se sperare che la figlia ritorni con il padre della propria nipote, o se preferisce che stia con Rhys, la tipologia d'uomo che ha sempre sognato per Pemberley.
Il capitolo si chiude con i due bambini addormentati a casa di Pem e lei e Rhys che, nel silenzio della casa, riescono a consumare la loro prima volta.



Capitolo 9
 
Life is a dangerous game to play


 
Erano le dieci e mezza ed era steso nella parte destra del letto, quella più vicino alla finestra protetta dagli scuri pesanti, e più lontana dalla porta. Rhys fissava lo spiraglio di luna che si rifletteva sul soffitto bianco, non riusciva a prendere sonno; non era da lui essere già a casa, nonostante non fosse il fine settimana.
Era abituato a ben altro, fino a poco tempo prima. Cenava fuori con donne avvenenti quanto vuote, lì con lui solo per avere attenzioni e sperare di diversificarsi dalle altre che prima erano passate da quello stesso posto, facili come le illusioni che si potevano leggere nei loro occhi; qualche volta erano il contorno perfetto per futuri clienti, più spesso il dessert che si sceglieva Rhys per concludere al meglio una giornata di lavoro, il metodo migliore per sfogare le tensioni. Era convinto di sentirsi appagato così, con quelle azioni abituali, automatiche e asettiche che lo caratterizzavano.
In quella notte, dopo aver cenato a casa come ogni sera con pietanze cucinate da Josie, si era ritrovato nel letto da solo. Da quando Austin era entrato nella sua vita tutto era cambiato, stravolto dalla sua sola presenza: doveva dargli l’apparenza che quello che avesse guadagnato nel seguirlo a New York fosse la cosa più vicina a una famiglia che il bambino potesse trovare, ma non sapeva come ci si comportava con un famigliare, lui era sempre stato solo, di quella solitudine dove gli altri interagivano con te, ci vivevano ma non entravano dentro, perché non si aveva interesse a farli entrare, a conoscerli e farsi conoscere.
Odiava avere la porta aperta della propria camera da letto, ma era sempre stato abituato così, fino all’arrivo di Austin. Avrebbe voluto chiuderla, far finta che il ragazzino non esistesse e vedere la vita come era prima, come doveva essere per lui, ma aveva notato che il fratellastro lo controllava, spiava ogni sua mossa. Lo sguardo chiaro e triste, così simile al suo, parlava più di mille parole; e Rhys sapeva che era inutile infierire ulteriormente su di lui, perché non avrebbe giovato molto sul loro già inesistente rapporto, né tantomeno sulla persona che Austin sarebbe diventata. Era pur sempre un Hewitt, un vincente nato, e un giorno – forse – avrebbero dovuto fare squadra, non poteva dunque educarlo come un perdente.
Aveva comunque capito che c’era una cosa che gli adulti potevano esercitare sui più piccoli senza che loro capissero davvero cosa stava succedendo: usava l’autorità conferitagli dal proprio ruolo per tenerlo a distanza, non era dunque una porta a fare la differenza, ma l’abisso che lui stesso aveva costruito tra di loro, formato dal disinteresse più totale e sincero che potesse riversare nel fratellastro, solo per il semplice fatto che lui era così, ed era troppo tardi perché imparasse a comportarsi in modo diverso.
L’unica cosa che adorava di quella situazione era il silenzio che aleggiava nell’appartamento, in perfetta linea con lo stile pulito, moderno e asettico che lo caratterizzava. Un silenzio fittizio, certo, dato che a popolare le mura c’era un ragazzino di undici anni, ma l’assenza di suoni gli permetteva di evadere da lì dentro e pensare che, in fondo, nulla era poi cambiato; l’impressione di avere ancora il controllo su ciò che lo circondava.
Fu per questo che quel baccano repentino lo irritò a morte, tanto da costringerlo fuori dal letto. Erano rumori convulsi, Austin stava tossendo con fervore.
Rhys mise la faccia in corridoio, lo sguardo serio pronto a riprendere il fratello con occhi severi, senza dire una parola, come piaceva a lui.
Lo vide in corridoio, appoggiato alla parete, mentre si stringeva le mani sullo stomaco.
«Stai bene?» era pallido e sudaticcio, aveva tutto tranne che un aspetto sano, ma Rhys non sapeva come gestire la situazione, quindi decise di essere diretto come suo solito e accertarsi delle condizioni di lui con una semplice domanda.
Austin, sempre con meno forze, annuì con la testa ciondolante e gli occhi chiusi e gonfi, concentrati a mantenere sotto controllo il dolore che provava.
Al suo consenso, Rhys aveva deciso di ritornare in camera propria ed evitare di disturbarlo, convinto che se avesse avuto qualcosa in mente non lo avrebbe voluto tra i piedi; o così si raccontò per mettere a tacere la coscienza.
Non fece però in tempo a girarsi, che un rumore assai poco gradevole colpì le sue orecchie: tornò a guardare il fratello e vide ai suoi piedi una chiazza di vomito che riproponeva la cena. Era arrabbiato nel vedere tutta la sua casa messa in subbuglio dal malessere di un ragazzino, ma si spaventò quando lo vide scivolare piano a terra, mentre perdeva i sensi. Aggirò la pozza e lo colse al volo, pronto a portarlo in bagno dove il bambino si riebbe solo per rigettare ancora.
Con lo stomaco libero e senza forze si sedette accanto alla tazza, come gli aveva intimato nel panico Rhys.
«Torno subito, non muoverti. E se ti viene da vomitare, qui dentro» e indicò la ceramica cui Austin era aggrappato con tutte le sue forze.
Cosa doveva fare? In quel bagno non c’era abbastanza aria per pensare. Lui non stava male da… Non si ricordava nemmeno da quanto.
Dov’era il telefono quando serviva?
Senza tanti preamboli cercò in rubrica il nome dell’unica persona che poteva aiutarlo.
Intanto un nuovo conato giunse al suo orecchio, facendogli provare un brivido di disagio lungo la schiena.
«Pronto» era talmente assonnata da non riuscire a porre la domanda in modo corretto.
Aveva risposto dopo molti squilli, nella speranza che chiunque ci fosse dall’altra parte della cornetta desistesse dal suo intento.
«Pemberley, sono Rhys».  La voce senza il timbro sicuro la mise in allarme, facendole aprire gli occhi per concentrarsi sulle sue parole. «Austin sta male, continua a vomitare, a dire che ha i crampi allo stomaco. È bollente ed è svenuto un paio di volte. Non so che fare!»
«Stai calmo. Hai chiamato il pediatra?»
Si girò verso il bagno per controllare la situazione. «No, ora lo chiamo. Dio, non so cosa fare».
Il self control era stato accantonato per un più sano attaccato di panico. Pemberley avrebbe giurato che Rhys non sapesse nemmeno cos’era, un pediatra.
Sbuffò ormai sveglia e schiacciò il tasto per illuminare il display della sveglia, erano da poco passate le dieci e mezza.
«Senti, io ora parto e vengo a casa tua. Tu, mentre io arrivo, cerchi il numero di un dottore e lo costringi ad alzare il culo per visitarlo. Naive ed io arriviamo il prima possibile»
«Grazie» e a quelle parole si sentì davvero rinfrancato. «Grazie infinite».
Pemberley riattaccò senza aggiungere altro, irritata per essere stata svegliata poco dopo essere riuscita a prendere sonno. Preparò un borsone con dentro il cambio per il giorno dopo, il necessario per una buona igiene e alcuni vestiti della figlia, poi andò a buttarla giù dal letto.
«Sveglia scricciolo, andiamo in gita»
«In gita?» domandò Naive tra uno sbadiglio e l’altro, ripetendo le parole che avevano catturato la sua totale attenzione nel giro di pochi secondi.
«Oh sì, il tuo amichetto non sta molto bene. Il bambino ha bisogno di aiuto» e, nel dirlo, non aveva pensato certo ad Austin.
 
Arrivò a casa di Rhys poco meno di un’ora dopo la telefonata. Decise di non dare peso al senso di inadeguatezza che aveva provato davanti a quel palazzo, o davanti al custode quando, dopo averle chiesto le proprie formalità, l’aveva guardata come si fissavano i senzatetto vicino alle stazioni dei pullman: con un misto di disapprovazione e disgusto. Aveva cercato pure di ignorare la strana sensazione di smarrimento nell’entrare così per la prima volta nell’appartamento di Rhys: in pigiama e con la figlia.
«Davvero? In pigiama?» un tono di disappunto nella voce, lo sconcerto negli occhi. A volte Pemberley era tale e quale a tutti gli altri americani medi, ma su di lei quell’essere così qualunque – normale – era tremendamente affascinante ai suoi occhi.
Fece indicare il bagno a Naive, dato che doveva espletare le proprie funzioni vitali dopo il tragitto, poi gli rispose piccata.
«Ti stupisci? Sono stata svegliata e tirata fuori dal mio letto, pretendevi che venissi in tuo soccorso con il tubino nero e le Louboutin che non ho? Mi dispiace» e si fece sotto, un diavolo per capello e l’indice puntato contro il suo petto. Poteva essere ricco, potente, bello e famoso, ma Pemberley non si lasciava impressionare dalle apparenze, non quando veniva criticata per essere corsa in suo aiuto. «Ma il tipo di donna che speravi varcasse la soglia è la stessa donna che non avrebbe risposto alla tua chiamata o che ti avrebbe riso in faccia dopo averti sentito in difficoltà. Spiacente, sono fatta così. E tu non puoi avere tutto, non da me».
Lo oltrepassò muovendosi alla cieca per casa, voleva trovare Austin e vedere come stava.
Rhys era rimasto colpito dal discorso infervorato della ragazza. Il suo cuore batté di orgoglio ferito quando lei nominò il soccorso che era arrivata a prestargli, odiava dipendere dagli altri, non gli era più capitato dopo la morte della madre, forse anche prima.
Ma la collera si sgonfiò poco dopo, quando si accorse che tutto ciò che Pemberley aveva detto era vero. Se avesse chiamato Addison gli avrebbe risposto ubriaca o fatta, e sarebbe corsa molto più volentieri per una scopata che per un bambino in preda ai conati di vomito; e lo stesso si poteva dire delle sue ex compagne o le molte conquiste che avevano intervallato la relazioni un po’ più durature.
«Scusa, ero stanco ed essere ancora sveglio mi ha irritato parecchio» ammise dopo averla raggiunta. Le fece strada verso la camera di Austin. «Grazie davvero per essere qui».
Ringraziare qualcuno per il proprio aiuto non era poi difficile come pensava, bastava solo non farci l’abitudine.
«Ma… La sacca all’ingresso?» aveva paura di aver capito, e non frainteso, le intenzioni di lei.
Pemberley si girò con lo sguardo lampeggiante d’ira. Aveva sonno, era arrabbiata e non aveva voglia di essere redarguita da una persona che al primo sentore di complicazione la chiamava al telefono come se nulla fosse.
«Pensi davvero che, avendomi svegliata nel cuore della notte e lavorando io in una delle vie principali di New York, torni a casa dopo essere venuta qui per i tuoi comodi?» stava perdendo la pazienza, anche se si era ripromessa di evitare scene davanti ai ragazzi.
«In effetti hai ragione, non ci aveva pensato». Non che la cosa la stupisse.
«Senti, non preoccuparti, posso chiamare Nathan e stare da lui. Troverò un angolo di casa sua dove dormire». Si girò nel mormorare quella frase, voleva vedere se giocare con lui – anche se il momento era il meno opportuno – l’avrebbe portato a tirar fuori un po’ di coraggio.
L’idea lo atterrì un po’. Cosa c’entrava Nathan in tutto quello? Si stava parlando di aiuto, di un bambino che stava male e i coinvolti, in quell’istante, erano solo loro. Possibile che per lei la soluzione ai suoi mali fosse il suo ex?
Era vero che tra loro le cose non erano definite, ma lui stava facendo un enorme sforzo per cercare di spostarsi verso un’ottica del tutto diversa da quella che aveva adottato per una vita intera. Pemberley gli piaceva, anche se non sapeva in quali termini esatti, e non era disposto a dividerla con il fantasma del passato di lei. Poteva accettare che lui fosse il padre di Naive e che facesse parte della sua vita, ma Nathan doveva limitarsi a quello: essere un padre per la bambina, non un appiglio per la madre.
«No, rimani qui. Ho delle camere degli ospiti molto confortevoli, tu e Naive potreste sistemarvi lì, mi farebbe piacere».
Pem fu stupita dalla sua richiesta esplicita. Forse Nathan era stato per lui un punto difficile da toccare, la molla che aveva fatto scattare qualcosa nel suo orgoglio. Alzò solo un angolo della bocca per aver capito di avere un po’ di potere su di lui.
«Meglio così, grazie mille».
La ragazza si fece dire dove fosse la camera di Austin, ma non vi trovarono né il malato né la figlia, sentirono però dei rumori provenire dal bagno e decisero così di seguire le tracce lasciate dai bambini.
«Mamma, sta male». Naive aveva gli occhi lucidi e l’espressione tesa. Il suo amico aveva un aspetto orribile e lei, oltre che accompagnarlo e sorreggerlo fino al bagno, non sapeva cos’altro fare.
«Cosa ti ha detto il dottore?» la giovane mamma si rivolse a Rhys mentre andava a prestare assistenza al bambino che, con la faccia nella tazza, stava finendo di rimettere quella che ormai era solo bile. I conati erano deboli e distanti, segno che non c’era poi molto da rigurgitare; era sfiancato.
Rhys, dal canto suo, decise di rimanere fuori dal bagno troppo affollato e le rispose nervoso: «Ha parlato di un’influenza intestinale molto forte, gli ha iniettato un calmante per il vomito e ha detto di dargli un antipiretico».
«Su Austin, aggrappati a me, ti porto a letto». Gli sussurrò lei dolce e comprensiva. Il bambino non se lo fece ripetere due volte, abbandonò il debole braccio dietro il collo della donna e si fece trasportare nel proprio letto.
Prima di rimboccargli le coperte e somministrargli l’antipiretico decise di cambiare i vestiti sudati, gli mise una maglietta a maniche corte e dei pantaloncini leggeri per permettergli di stare ancora più comodo, perché quando il medicinale avesse fatto effetto il sudore sarebbe tornato a imperlare la sua pelle.
«Stai tranquillo, il peggio è passato. Ora riposati e se c’è qualcosa che non va mi trovi…»  guardò Rhys, dubbiosa.
«La trovi nella stanza degli ospiti qui accanto» disse lui con lo sguardo serio, cercando di memorizzare ogni movimento di Pem nel caso avesse dovuto bissare l’esperienza, odiava farsi trovare impreparato.
Austin annuì appena, in quello che doveva essergli costato molto come sforzo. Lei gli depositò un bacio sulla fronte, poi intimò alla figlia di salutarlo e andare a dormire nella stanza dove Rhys aveva depositato il bagaglio che si erano portate.
Si ritrovarono così i due adulti in corridoio: Pemberley preoccupata per la situazione e Rhys in imbarazzo per non aver saputo gestire gli eventi e per la difficoltà che provava nel esprimerle la propria gratitudine.
«Non so come ringraziarti, davvero» gli sembrò di aver fatto un bel passo avanti, ma la reazione di lei lo stupì.
Pemberley si avvicinò in modo da averlo a portata di mano, e nonostante la superasse di venti centimetri buoni gli prese il viso tra il pollice e l’indice, assicurandosi che gli occhi di lui fossero puntati nei propri, infine sibilò a denti stretti: «Apri bene le orecchie: prima capirai che il tuo non è un ruolo a tempo determinato, prima la smetterai di rovinare la vita a te stesso e a un bambino che non ha nessuna colpa. Ormai è responsabilità tua, non potrai lavartene le mani per sempre. Scendi a patti con questa cosa e mettiti l’anima in pace».
Era inviperito. Nessuno si era mai permesso di sgridarlo come se fosse un bambino, nessuno doveva osare, era lui ad aver sempre il controllo della situazione e a incutere timore. Eppure sembrava che Pemberley non fosse assoggettata da lui come gli altri, non aveva paura di imporsi quando serviva; Rhys sapeva che lei era conscia di aver a che fare con un personaggio con un carattere forte e che sarebbero potute esserci conseguenze, ma se ne fregava. Se Pem doveva dirgli una cosa non si faceva scrupolo, diventava più grande di lui, maestosa nella sua convinzione tanto da renderlo piccolo, e gli faceva intendere al meglio come era la situazione, che lui lo volesse o meno.
Forse aveva bisogno di una cosa simile.
Di sicuro sapeva che Pemberley gli piaceva per quel suo lato così deciso.
Si stropicciò gli occhi, stanco e frastornato. «Penso tu abbia ragione, solo che non è per nulla facile».
Prima di Austin, ma soprattutto prima di Pemberley, aveva adorato la sua vita, da quando quei due avevano fatto irruzione nella sua quotidianità aveva capito che qualcosa gli mancava, un qualcosa che cozzava con fare prepotente con lo stile sostenuto fino a poco prima.
Doveva capire cosa valeva di più per lui.
«Non è facile e non lo diventerà mai»  rispose Pemberley ammorbidita dal tono spaventato di Rhys. «Ma prima accetti la situazione, prima finirai di distruggerti, o di autocastigarti» gli si legò alla vita, d’improvviso più dolce, la stanchezza piombata su di lei d’un tratto.
Rhys si lasciò abbracciare, anche se era strano per lui un gesto simile, non si ricordava il momento di averne ricevuto uno. Era bello però sentirsi confortato dalle braccia esili di una ragazza che gli arrivava alle spalle, si stupì della forza e della tranquillità che riuscì a comunicargli.
«Vuoi dormire con me?» lo chiese quasi a forza, sarebbe stata la prima volta in cui avrebbe diviso il letto con una donna che si sarebbe svegliata poi nello stesso. Le parole erano uscite prima di pensarle davvero, e l’idea lo soffocò, un altro passo verso la resa cui doveva cedere, il rendersi conto che la sua strada doveva per forza prendere una deviazione.
Pemberley non si aspettava una simile proposta.
«No, grazie. Preferisco non confondere le idee a Naive» era vero. Dormire in casa di un amico nel suo stesso letto non avrebbe fatto altro che complicare le cose. Inoltre l’aveva vista agitata, voleva coccolarla un po’ e assicurarsi che si addormentasse senza difficoltà.
Lo baciò sulla bocca e accolse così un sospirò che nemmeno lei seppe interpretare, un gesto a cui anche lei avrebbe voluto lasciarsi andare.
«Buonanotte» le sussurrò elegante e di nuovo padrone di sé.
«’Notte» sorrise più distesa Pem, aveva la tacita consapevolezza di essere arrivata dove le altre avevano fallito, perché Rhys Hewitt non mostrava le proprie debolezze a chiunque, nemmeno nel momento del bisogno.
Lei era diventata l’eccezione che confermava la regola.
Si mise nel letto stanca, nonostante fosse passata da poco la mezzanotte, Naive ad attenderla con lo gli occhi spalancati.
«Cosa c’è ranocchietta?» sperava che quel nomignolo, di solito usata da Nate, potesse aiutarla a rilassarsi un po’.
Naive si avvicinò alla madre, accoccolandosi accanto al suo cuore. «Questo posto mette i brividi. È davvero una casa? Come ci si può vivere?»
Pemberley la accarezzò, sentendo che di lì a poco sua figlia, ormai ragazzina, non gliel’avrebbe più permesso. «Tesoro, è un appartamento molto bello, ma è freddo. Non preoccuparti però, sono convinta che Austin saprà renderlo più umano».
La bambina annuì in preda al sonno, gli occhi chiusi per dimenticare la sensazione di disagio percepita fino a poco prima. Voleva cancellare il freddo che sembrava circondarla oltre all’oscurità della notte.
Fu solo dopo una manciata di minuti che Pemberley, non ancora del tutto addormentata, percepì un timido schiarirsi di voce proveniente dall’uscio e, dopo aver aperto gli occhi vide la figura esile e debilitata di Austin appoggiato allo stipite della porta, le spalle ricurve per la vergogna.
«Piccolo, cosa c’è? Ti senti male di nuovo? Ti serve qualcosa?» era già pronta ad alzarsi, per il dispiacere di Naive che aveva appena preso sonno su di lei, tanto che si girò di schiena scocciata, continuando a dormire.
«No» si affrettò a dire lui, sentendosi colpevole per averla messa in allarme. Perché riusciva a scomodare tutti? Lo faceva sentire a disagio. «Però, ecco… Faccio fatica a dormire».
Alzò le spalle come a voler scrollare da esse quella sensazione di essere sempre sbagliato, cercando di darsi il contegno che Rhys si sarebbe aspettato da lui.
«Cosa ne dici ci venire qui? Male di sicuro non ti fa, e almeno stai in compagnia». A Pemberley si strinse il cuore. Non aveva soltanto bisogno di una figura paterna, a mancargli più di tutto era una madre che si prendesse cura delle sue necessità di cui nemmeno lui pensava di avere.
Annuì felice di quella proposta, non se lo fece ripetere due volte e si infilò nel grande letto matrimoniale tra Naive e Pemberley, dove questa lo accolse tra le proprie braccia.
Austin si accoccolò al suo petto, sentendosi per la prima volta protetto e al sicuro da quando era arrivato in America. La donna lo avvolse con le proprie braccia, cullandolo appena per cercare di calmare i brividi che ancora lo scuotevano, anche se non avrebbe saputo dire se a causa dell’influenza o della paura che quella nuova vita gli aveva deliberatamente insinuato nelle viscere.
«Grazie» le sussurrò, e dopo poco sentì il respiro del ragazzino farsi più pesante accanto al proprio collo bagnato da una singola lacrima rilasciata dall’occhio ormai rilassato dal contatto con lei.
Una lacrima che le aveva spezzato il cuore, facendole percepire quanto fosse grande la desolazione nel cuore di quel bambino, una lacrima che non le avrebbe permesso di addormentarsi, né di regolare il respiro intervallato dal proprio pianto.
 
Nonostante fosse riuscita a prendere sonno era a pezzi. Aveva dormito poco, e i pensieri che le affollavano la mente non erano stati i più rincuoranti della sua vita. Dopo aver saggiato sulla propria pelle la tristezza di Austin si era sentita amareggiata come quando aveva deciso di crescere Naive, sola e contro il mondo, soprattutto contro i suoi genitori e Nathan, nonostante non ci fosse nessuna battaglia da combattere.
«Tutto ok?» anche Rhys sembrava più tranquillo. Si era affacciato in camera richiamato dal rumore della piccola sveglia sul comodino. Le parve che il sonno l’avesse disteso, facendogli vedere a mente fredda la notte vissuta, dandogli il giusto distacco per affrontarla.
«Cosa fai in giro?» gli domandò curiosa, alzandosi senza svegliare i bambini.
«Cercavo Austin per vedere come stava, quando non l’ho visto nel suo letto mi sono preoccupato e sono venuto a cercarlo».
Senza preavviso gli mise le mani dietro il collo per attirarlo a sé e baciarlo. Era la prima frase da persona matura che gli aveva sentito dire e l’aveva resa orgogliosa. Forse a forza di imbeccate e strigliate iniziava a capire quale fosse il suo ruolo.
Era struccata, con i capelli spettinati, nessuno dei due si era lavato i denti, Pemberley inoltre indossava un pigiama ridicolo con degli unicorni e degli orsi con la pancia a cuore, ma quel momento sarebbe stato il migliore di tutta la giornata. Niente avrebbe battuto la tenerezza e la passione di quel gesto.
Anche Rhys era certo che nella prossima settimana nulla di meglio sarebbe potuto accadere. Era lì che voleva essere, sulle labbra di lei. Era così che avrebbe voluto essere svegliato ogni giorno, con lo stesso bisogno e la stessa urgenza.
«Bleah, che schifo» disse Austin dando di gomito all’amica, ancora assonnata.
«Parli tu che hai vomitato tutta sera? Sono così belli» rispose sognante Naive. «Su, andate avanti. Potrei guardarvi per ore».
E, per rimarcare il concetto, appoggiò la faccia sui palmi delle mani mentre i gomiti erano retti dalle ginocchia, le gambe incrociate sotto le lenzuola.
«Avanti, pesti! Fuori dal letto» disse Pemberley colta in flagrante e con le guance rosse.
«Andate da Josie, vi starà aspettando per la colazione» riprese Rhys con uno di quei rari sorrisi che facevano capolino sulle sue labbra.
«Chi è Josie?» domandò Naive ad Austin, curiosa e ormai completamente sveglia.
«Josephine è la donna che cucina e pulisce la casa» rispose pronto il bambino, ancora troppo pallido e malfermo sulle gambe lunghe e magre. «Vieni, te la presento. È simpatica».
Naive si fece trascinare volentieri in cucina, ma fu solo davanti alla madre e a Rhys che si fermò, lo sguardo compiaciuto: «E comunque io l’avevo capito da tempo che vi baciavate, ogni volta che rimanevate soli poi eravate spettinati».
Lo disse con il fare di chi era sicuro di avere la verità in pugno.
Pemberley si scusò e seguirono i più piccoli in cucina, dove una graziosa donna con un’elegante coda bassa li attendeva mentre cucinava frittelle e toast per tutti, tranne che per Austin. A lui era destinata una dieta più leggera.
«Oh, buongiorno» li salutò cortese, come se fosse normale vedere due estranee che si aggiravano per casa in pigiama, e una inoltre ampiamente minorenne.
«Salve» la salutò con la stesse gentilezza Pemberley, condita però da una punta di imbarazzo.
«Josie, lei è…» prese coraggio. «La mia ragazza».
Non ne avevano mai parlato, non ne era nemmeno sicuro, ma lui era un tipo che doveva sapere quello che faceva e, soprattutto, si prendeva sempre quello che voleva. Aveva pensato che mettere in chiaro la situazione l’avrebbe fatta sentire impegnata e che quindi il proprio ruolo sarebbe stato definito anche agli occhi di Nathan, nel caso gli fossero venute in mente strane idee.
«Oh, che bella novità, finalmente ha messo la testa a posto!» convenne felice mentre servì la colazione a tutti.
«Ma io vado a scuola?» domandò preoccupato Austin, che raggiunse una gradazione ancora più chiara del bianco a cui si era votato dalla notte. Era anche sudato, probabilmente aveva ancora la febbre.
«Certo che no» rispose pronto Rhys. «Josie, puoi prenderti cura di lui?»
«Certo, con molto piacere» rispose pronta la domestica mentre passava accanto al tavolo per accarezzare i capelli chiari del bambino.
Naive lo guardò con invidia. «Beato te, io devo correre se non voglio sentirmi sgridare dalla maestra Solomon».
D’improvviso il pancake non era così buono, l’atmosfera da brunch domenicale aveva abbandonato la tavola, ricordando a tutti che c’erano degli obblighi da rispettare.
«Ho già chiamato la preside, ho avvertito che saresti arrivata in ritardo»
«Wow» continuò sarcastica. «Che soddisfazione!»
Si prepararono, Rhys nel bagno personale che aveva adiacente alla camera, Pemberley e Naive in quello degli ospiti, tutti intenti a rendersi presentabili per i propri impegni.
Pemberley, mentre si contemplava allo specchio, vide un bagliore strano negli occhi, un’eccitazione che si ripercuoteva sulle sue stesse guance. Quella mattina, davanti alla sua domestica, Rhys l’aveva descritta come la sua… ragazza.
La frase l’aveva colpita parecchio, ma era felice di constatare i passi avanti fatti dall’uomo. Era mesi che si frequentavano, ma le sembrava che solo dopo la strigliata della notte precedente avesse deciso di prendersi le proprie responsabilità.
Lasciò Naive nella camera degli ospiti a vestirsi e sgusciò di soppiatto nella camera del padrone di casa, spinta dal bisogno di salutarlo con più calma, come avrebbe voluto fare ogni mattina con l’uomo con cui avrebbe deciso di dividere la propria vita.
Bussò più per annunciarsi che chiedere il permesso di entrare, visto come si erano messe le cose quella mattina, era troppo tardi. Troppo tardi per lasciarla fuori o chiedere se poteva addentrarsi, almeno nella sua vita.
Lui si girò in tempo per vederla avvicinarsi con passo quasi sinuoso, lo sguardo sicuro e acceso di malizia.
Lo aiutò a stringere il nodo alla cravatta e percorse il profilo delle labbra di lui con la lingua, con tutta l’intenzione di comunicargli che l’avrebbe svestito più che volentieri, nonostante il lavoro incombesse su di loro e la casa fosse fin troppo popolata per i suoi gusti.
Rhys approfondì quel contatto schiudendo la bocca e, al tempo stesso, facendosi spazio in quella di lei. Le strinse i fianchi con possessione, circondati da un solo braccio dato che l’altra mano era corsa tra i capelli arruffati per evitare che il viso si spostasse dal proprio.
A Pemberley sfuggì un lamento di piacere quasi insoddisfatto, e Rhys fece scontrare i bacini per farle sentire quanto la desiderava. Con la mano, dai fianchi scese sulla coscia e la sollevò con fare possessivo, quasi pronto per prenderla in braccio e continuare il discorso.
«Mamma, dove è…» furono interrotti dalle grida di Naive. «Ah no, trovato. Niente!».
«Volevo darti il buongiorno» soffiò accaldata e con la voce roca sulle labbra di lui.
Era quella trasformazione che l’aveva tanto colpito e lo affascinava. All’apparenza Pemberley era l’acqua cheta, la brava ragazza che tutti si aspettavano da una persona che si presentava in quel modo calmo, eppure le bastava un barlume di spontaneità più profondo – o un semplice imput – e si trasformava, diventando una donna capace di prendersi quello che voleva senza mai perdere classe e dignità.
Riusciva a essere madre senza dover rinunciare a essere femminile, e lo eccitava tantissimo il suo carattere così premuroso e passionale in ogni aspetto che la riguardasse.
«Mai mettere piede nella tana del lupo» disse scendendo verso il collo. «Potrebbe non resistere alla tentazione di mangiarti». Le lasciò un morbido morso tra la mascella e l’orecchio dopo aver percorso con la punta del naso ogni lembo di pelle già marchiato dalle labbra bollenti.
«Stai forse cercando di dirmi che, come saluto, è stato di tuo gradimento?» domandò molto più padrona di sé, le urla della figlia l’avevano fatta rientrare nel suo pieno ruolo di persona responsabile in quanto madre.
«Molto». Continuò imperterrito lui, perso nello scoprire il corpo che gli si offriva davanti. Scese con le mani sul sedere di Pem, stringendo la presa.
«Ma sto anche…» si fermò per leccarsi le labbra alla ricerca della parola giusta, anche se in realtà si era interrotto per vedere quanto quel gesto avesse potere su di lei. Dopotutto era un maniaco del controllo, la situazione doveva averla in mano lui. Ristabilito l’ordine, riprese a parlare. «Aggiungendo che mi piacerebbe vederti stasera, magari per riprendere il discorso di questo buongiorno lasciato così in sospeso. Hai Naive a casa?»
«N-no, è da Nathan» balbettò Pemberley preda dell’eccitazione che non se ne era mai andata. «Ma Austin?»
«Posso pagare la baby-sitter, però poi dovrò tornare. Te la senti?»
 Se la sentiva? Le dispiaceva che lasciasse Austin solo, ma era anche vero che non avevano molto tempo da ritagliare per loro due. Per una volta cedette, il suo essere donna venne prima dell’essere madre.
Lo baciò con trasporto, nella speranza di comunicargli quanto lo desiderasse.
«Lo prendo come un sì» riprese lui più lucido.
«Devi» e poi, improvvisa, le venne un’idea.
«Senti… Cosa ne dici di un week end ad Aspen? I miei partono per una settimana, la prima di Aprile, e noi andiamo con loro. Tu potresti raggiungerci con Austin il fine settimana cosa ne dici?»
D’un tratto il nodo alla cravatta era diventato un cappio. Era davvero così stretto?
Forse Pemberley aveva mal interpretato le sue intenzioni della mattina, correndo troppo con la fantasia. Era stato affrettato a dare un nome al loro legame? Avrebbe recuperato in qualche modo alla gaffe?
«Non posso assicurarti nulla». Sorrise più incerto e distaccato, il Rhys che – come al solito – mostrava la sua faccia imperturbabile per non mostrare debolezze a chi gli stava davanti. «Ma vedrò di fare il possibile. Ora devo andare, o rischio di arrivare tardi alla HewittCorp, e non sarebbe da me».
Lasciò quella frase aleggiare tra loro, come se la fine di quel dialogo dovesse mettere a tacere ogni discorso iniziato poco prima.
 
Silene era eccitata. Dopo mesi era riuscita ad arrivare a casa di Joshua dopo una cena e una serata con i controfiocchi.
Le sue orecchie erano deliziate dal rumore dei loro baci sempre più impazienti, mentre la pelle si beava delle dita di lui che, per la prima volta, spogliavano il suo corpo. Erano quelle le sensazioni che amava, i ricordi da incidere nella memoria come eccitanti, piccoli momenti fuggevoli che prima o poi non ci sarebbero stati più.
Un vibrare sommesso li interruppe, facendoli ridacchiare come due adolescenti colti in flagrante.
«Devo controllare almeno chi è, potrebbe essere importante» gli disse prima di mordersi il labbro inferiore, colpevole. Josh annuì sereno e divertito, non avevano fretta, aveva tutta l’intenzione di prendersi il tempo necessario per far sì che quella serata diventasse una di quelle da ricordare in eterno.
Ciao piccolo fiore di luna, quando ci vediamo?” sbuffò.
Davvero Cassidy, a miglia di distanza, riusciva a infilarsi tra di loro e a rovinare quello che stava per succedere? Non riusciva a capacitarsi di come fosse in grado di rovinarle la vita nonostante i suoi piani, irritarla a morte e farle sentire una morsa allo stomaco a cui non avrebbe mai dato un nome, almeno per amor proprio; non poteva permettergli di avere potere su di lei, non poteva essere tanto patetica.
Digitò subito una risposta, furiosa. “Se tutto va secondo i miei piani, MAI.
Appoggiò il telefono sul tavolo di vetro accanto al divano, poi riprese da dove aveva lasciato il tutto, ovvero dalla bocca di Yoshi, il quale – paziente – la osservava curioso e calmo.
Un’altra vibrazione.
«Scusa» mormorò imbarazzata e rossa in viso per la rabbia.
«Chi è?» Josh era divertito.
«Cass» rispose con fare disinvolto Silene, non voleva dimostrare quanto le premesse sapere dove l’altro uomo volesse andare a parare.
«Posso leggere?» visto il delicato triangolo di cui lui stesso faceva parte, si sentiva coinvolto in quello scambio di messaggi, anche se l’assenza di Cassidy nel suo, di telefono, valeva più di ogni altro gesto.
Non hai voglia di vedermi? Fiore bugiardo…
Dopo che entrambi ebbero letto il contenuto del messaggio, si guardarono sbigottiti. Era sempre e solo il suo ego a farla da padrone, non era mai veramente interessato, doveva dimostrare a se stesso di essere in grado di ammaliare tutti.
La mia voglia di vederti è proporzionale a quella di farmi suora. Ora ti pregherei di lasciarmi in pace, ho di meglio da fare. Niente a che vedere con cose da suore però. Ho intenzione di mettermi in ginocchio, e non per pregare.
Ridacchiò divertita dal suo stesso messaggio, poi si dedicò famelica alla camicia del ragazzo che era sopra di lei, lo sguardo avido di chi sapeva cosa stava per succedere e non attendeva altro.
«Quindi vuoi metterti in ginocchio e non per pregare?» le chiese eccitato mentre con decisione faceva scorrere verso il basso la zip dei pantaloni di lei, dopo di che iniziò ad accarezzare la pelle vicino all’elastico degli slip.
Sospirò compiaciuta, avrebbe voluto tutto e subito, ma era anche bello morire di voglia nell’attesa.
Furono i jeans di Joshua a vibrare questa volta, e il primo a sorprendersene fu lui.
Ciao occhi a mandorla, come stai? Stasera sei impegnato. Con me, ovvio. Preparati a una serata indimenticabile…
Josh fissò lo schermò sbigottito mentre Silene sgranò gli occhi, allibita da tanta faccia tosta.
Fu il turno del ragazzo di indignarsi e rispondergli per le rime: “Ciao a te piccolo fiore opportunista, stasera sono impegnato sì, ma con Sil. Ora penso che lo faremo qui, sul divano. Questa sarà la parte indimenticabile della serata, non tu. Brucia che io possa avere ciò che tu non hai mai avuto? Mi dispiace, non sono la seconda scelta di nessuno. Non cercarmi più, non mi meriti.
Spense il cellulare e, con decisione mista a urgenza e rabbia, oltrepassò l’ostacolo degli slip di Silene per andare a scoprire quella carne che non era in attesa di altri che lui, strappandole il primo di tanti gemiti soddisfatti.
 
«E Rhys?» Scones, avido e agitato, si allentò la cravatta. Era sera e alla HewittCorp non c’era anima viva in giro, eccezion fatta per lui e Colton.
«Lo vedi?» sorrise arido quest’ultimo indicando l’edificio in cui erano con entrambi le braccia. «È con la sua fidanzatina modello del momento, probabilmente se la starà scopando proprio ora».
Ed era vero, in quel momento, dopo una giornata di lavoro, era corso da Pemberley per gratificarsi dei suoi sospiri. Gli piaceva scoprire come potesse dedicarsi al corpo di una donna e, al tempo stesso, provare piacere personale, prima non era mai stato così.
«E quindi vuoi che io ritocchi i bilanci del trimestre passato? Ancora una volta».
«Ancora una volta» annuì Colton.
Si sentiva furbo, e lo era. Se no Rhys non l’avrebbe scelto come direttore degli affari interni della corporation, e nemmeno gli avrebbe lasciato gestire i nuovi clienti e i futuri soci. Se c’era una cosa che aveva imparato, era che il suo amico si fidava di lui. Rhys, da buon titolare, ci metteva i capitali, e lui, da buon braccio destro, li faceva fruttare, almeno per se stesso. Giusto un po’.
«Spiegami» Scones, capo della squadra della contabilità della HewittCorp, era bravo a far deviare cinquecentomila dollari come se fossero stati pochi spiccioli, voleva solo capirne il perché. «Perché Rhys non dovrebbe accorgersene»
«Semplice» Colton si accomodò sulla sedia posta davanti alla scrivania del contabile. Il buio della sera e le luci soffuse della stanza – le stesse che conferivano quel tono così cameratesco e importante all’incontro – gli davano sicurezza. «Lui si fida del suo capo della contabilità e del direttore a cui affida tutto. Se loro dichiarano che i bilanci non hanno pecche, lui saprà che è così. Inoltre sappiamo entrambi che sei in grado di mostrare bilanci in cui spariscono cinquecentomila dollari senza che qualcuno se ne accorga».
Scones si appoggiò allo schienale della poltrona in pelle, doveva pensare un attimo a come coprire un ammanco simile.
«Non è la prima volta che lo fai»
«Non è la prima volta che ci guadagni» lo guardò eloquente Colton, piegandosi sul legno lucido e costoso che li separava. «È solo un… profitto personale esentasse, dopotutto».
Il contabile si accarezzò il mento tanto quanto la sua mente coccolava l’idea instillata da Colton.
«Su, ho visto i vantaggi degli ultimi piccoli prelievi. L’auto, le cene, le modelle. Noi ci capiamo, siamo uguali» gli disse con fare confidenziale. Scones aveva un addome che iniziava a essere pronunciato e l’attaccatura dei capelli continuava a spostarsi, lasciando scoperti sempre più ampi spazi di cranio. Colton, invece, aveva i capelli neri, un fisico curato dalla palestra e un sorriso strafottente che invogliava le donne a voler curare la sua allergia ai rapporti duraturi. Non vedeva tutte queste somiglianze. «Ci piace mantenere un certo tenore di vita, e per farlo dobbiamo prenderci delle piccole libertà che, tutto sommato, ci appartengono. Siamo quelli che qua dentro hanno più responsabilità e si fanno il culo, non credi?»
Era furbo, e sapeva di esserlo. Ecco perché era convinto di restare impunito, perché la sua astuzia gli era sempre servita per sopravvivere. La sua era una vera e propria arte.
«Il tuo ragionamento, in effetti, non fa una piega».
Diamine, capiva perché fosse lui a gestire le relazioni con i pezzi grossi. Li faceva sentire importanti, necessari e non si poneva al di sopra di nessuno, anche se era chiaro che a muovere i fili fosse lui, eppure lasciava credere che fossero gli altri a decidere.
«Ottimo» disse Colton soddisfatto per poi estrarre dalla tasca interna della propria giacca di alta sartoria un foglietto con delle coordinate bancarie del suo conto offshore. «Addebitali pure qui, e tu tieniti pure il venti percento, te lo meriti».
Gli strizzò l’occhio prima di uscire dall’ufficio, doveva incontrarsi con una modella di Victoria’s Secret che non vedeva l’ora di mostrargli la nuova collezione in anteprima e in uno show assolutamente privato.
«E sta’ tranquillo, Rhys non se ne accorgerà mai».
 
Erano i primi di aprile, eppure ad Aspen sembrava gennaio inoltrato. Nonostante di giorno la temperatura fosse fredda ma gradevole, di notte si scendeva ancora abbondantemente sotto lo zero, costringendo le persone a stare rintanate nei loro chalet forniti di ogni comfort.
La neve cadeva e impediva a tutti di sciare, difatti le piste erano inaccessibili e Naive si limitava a estenuanti discese con lo slittino, istigate sempre da Nathan che, instancabile, le correva appresso come se le forze non potessero venire meno.
Pemberley sperava solo che il tempo decidesse di stabilizzarsi, aveva davvero voglia di usare lo snowboard, nonostante non amasse così tanto la montagna. Per lei voleva dire giri in paese, camino, cioccolata calda e coccole, il resto era un divertimento bello ma superfluo.
«Papà, ancora!» urlò Naive dalla pista di pattinaggio, era sul ghiaccio con Nathan che la faceva girare come una trottola.
Pemberley non si era presa nemmeno la briga di infilare i pattini: non solo non era capace a pattinare, ma aveva la fluidità di un tronco e, soprattutto, aveva paura di finire per terra e di vedere le proprie dita tagliate dalla lama dei pattini di qualcun altro.
Un brivido le percorse la schiena.
«Papà?» chiese Rhys dall’altro capo del telefono, confuso.
Pemberley si morse il labbro, colpevole. «Sì, c’è Nathan con noi»
«Ah» rispose asciutto l’uomo in collegamento da New York. Quel tono così freddo che riusciva a essere più pungente del clima di Aspen. L’inflessione che, Pem lo sapeva, usava per le accuse velate verso le cose che lo infastidivano.
«Tu hai detto di no, così i miei hanno pensato di chiederlo a lui, che invece ha accettato» aggiunse con la voce petulante a mo’ di scusa.
«Capisco. Sono facilmente rimpiazzabile, vedo» ammise a denti stretti lui. Si odiava per quella dichiarazione, una volta una simile debolezza non gli sarebbe sfuggita di bocca.
Lo sguardo di lei si accese. «A me sembri più facilmente… Geloso». Una punta di soddisfazione in quelle parole.
«Geloso? Io? Ti prego, mi hai visto? Sono solo contrariato perché Nathan di questi tempi ti sta troppo intorno. Non è normale». Gli piaceva ricordarle che tra loro il legame era diventato esclusivo, d’altronde l’aveva fatto per evitare simili quanto spiacevoli eventi.
Lei sorrise, lo stomaco che intrappolava moltissime farfalle. «Rhys, è il padre di mia figlia e sta imparando a conoscerla. Farà sempre parte della mia vita, non posso negarlo. Ma non come tu intendi»
«Mi fa piacere saperlo» rispose secco. «Vorrei fosse chiaro anche a lui.     E comunque» riprese stizzito, ma cercando di controllare il fastidio «Io non ho detto che non sarei venuto, ho dichiarato che difficilmente sarei riuscito a venire»
«E dove sarebbe la differenza?» iniziava a stufarsi dei suoi messaggi sibillini, aveva solo bisogno di chiarezza, e Rhys in quello aveva ancora molti deficit.
«Sto cercando di liberarmi» rispose di getto, inventandosi la risposta al momento. Dopotutto non era una così brutta idea passare il fine settimana ad Aspen con Austin. Non gli sembrava più una cosa abominevole, non da quando aveva saputo che Nathan si era aggiunto all’allegra brigata.
Era Rhys Hewitt, non si sarebbe fatto soffiare la ragazza da un tizio qualunque che approfittava dei suoi vecchi legami e del suo attuale status di padre per riaverla con sé. Lui la sua possibilità l’aveva avuta e l’aveva sprecata. Aveva scelto la persona sbagliata a cui pestare i piedi.
Appoggiò il braccio con cui reggeva la cornetta sulla lucida scrivania, mentre con l’altra mano si grattò energicamente gli occhi. Da quando era diventato umano e cedeva alle pulsioni più basse e becere?
Lui non era così, era sempre caratterizzato da un certo self control misto a un aplombe impeccabile.
Si era rammollito. E non capiva se fosse colpa di Pemberley o di Austin.
«Se riesco a liberarmi o ad anticipare alcuni appuntamenti importanti che ho nel fine settimana, vi raggiungo»
Quel dubbio che gli dava la sicurezza di non aver promesso nulla, ma che gli conferiva la possibilità di scegliere il da farsi all’ultimo.
«Questa sì che è una notizia!» commentò con troppa enfasi Pemberley, tanto che Nathan alzò lo sguardo su di lei, preoccupato e curioso.
Lo liquidò con un gesto della mano per rassicurarlo, poi voltò le spalle alla pista e si allontanò ancora un po’.
«Fammi sapere assolutamente se ci riesci! Io ti aspetto». Per fortuna non poteva vedere le sue guance rosse.
«Ma certo, cara. Ora devo andare, il lavoro mi chiama. Salutami la tua famiglia. E anche Nathan» rispose affabile, anche se era sicuro che non gliel’avrebbe mai detto. Quale donna non avrebbe amato una sorpresa?
Sarebbe arrivato come il migliore dei principi azzurri a salvare la bella principessa dal terribile orco, che in quel caso aveva i capelli scuri e un fisico sportivo. Ma d’altronde c’era bisogno di adattarsi, i tempi erano cambiati.
Riattaccò senza aspettare una risposta, doveva vedere se riusciva ad anticipare alcuni appuntamenti, così Austin e lui avrebbero potuto prendere il jet e volare venerdì pomeriggio verso le vette innevate di Aspen.
 
Era il tardo pomeriggio di venerdì ed erano riusciti a sciare per un pelo. La neve verso le tre aveva ricominciato a scendere fitta, vorticando davanti alle loro facce creando scenari inimmaginabili.
Li aveva costretti di nuovo nella baita con somma gioia di Naive, aveva deciso che la montagna le piaceva, ma non quegli sport così… Spavaldi. Lei preferiva comunque il mare.
Lo chalet dei Voight si trovava leggermente fuori dal paese. Oltre il chiasso della strada, la poltiglia dell’asfalto battuto, il chiacchiericcio degli sciatori che tornavano dalla loro attività quotidiana, lì si annidava il loro piccolo regno. La cittadina piena di luci e di vita ai piedi, tutta la montagna alle spalle.
La casa, tutta in legno dalla tonalità calda che dava un tocco intimo e famigliare, godeva del paesaggio sottostante dominando con eleganza e semplicità le altre abitazioni. Le finestre emanavano sempre una luce ovattata, il camino fumava in abbondanza e le persone all’interno saettavano da una stanza all’altra con un sorriso sereno dipinto sul volto. Lo chalet era diviso su due piani: di sotto c’erano gli spazi comuni, una cucina, un salotto con un camino in pietra, un soggiorno e un piccolo bagno per gli ospiti. Lì si svolgevano tutte le attività che accomunavano la strana famiglia; di sopra, invece, c’era la zona relax, composta da quattro stanze da letto e due bagni.
Dopo essere ricorsi alle docce per scaldarsi e levarsi la stanchezza, Naive si concesse una cioccolata calda – a suo avviso meritatissima, visto lo sforzo sullo snowboard – che fece venire l’acquolina in bocca a tutti, facendo cedere anche i più grandi.
Così, con la figlia e Nathan seduti sul divano a prendersi in giro davanti a un programma TV e le tazze fumanti in mano, Pemberley aveva gli occhi fissi sulle luci del paese, dato che stava diventando scuro, e la testa altrove, a miglia di distanza. La cioccolata fumava nella tazza davanti a lei, la neve che distorceva il paesaggio rendendolo – se possibile – ancora più bello e malinconico.
Si strinse nelle braccia nel tentativo di allontanare la sensazione di disagio che il silenzio da cui erano circondati le dava, le pareva opprimente, al posto di tranquillizzarla. Nonostante lo chalet fosse corollato da luci che davano un’atmosfera vivace, la neve ovattava ogni suono, con la sensazione di essere emarginati da tutto il resto. Almeno così si sentiva Pemberley, le mancava New York e soprattutto chi la controllava.
Sbuffò e si girò verso sinistra per osservare il fuoco e il divano lì davanti che ospitava suo figlia a Nathan. Sua madre si stava concedendo un bagno rilassante, mentre Terrence stava smanettando sul computer nella privacy di camera sua. Comportamento bizzarro da parte loro, ma decise di essere grata per quei momenti di respiro che le concedevano: non sapeva dove volessero andare a parare, ma senza loro nei paraggi si sentiva libera di agire come meno discrezione, una linea d’azione più conforme alla sua età.
«Mamma, vieni qui con me e papà!» Naive aveva intercettato il suo sguardo perso e l’aveva invitata sul divano, le mani che battevano sulla seduta vicino a loro.
Pemberley diede le spalle alle finestra.
Nathan la fissava in attesa di una risposta, il suo sguardo così deciso la metteva a disagio. Aveva smesso di ridere e fare qualunque cosa stesse facendo per guardarla. Era come se ci fosse… Speranza in quello sguardo, e le stava bruciando sulla pelle, scavava nell’interno tanto le faceva male.
E Naive, quella bambina non più così piccola, aveva gli occhi colmi di sogni. «Tutti insieme» aggiunse speranzosa.
Ecco perché quegli sguardi le facevano paura, perché avevano un sacco di significati.
Era felice che Nathan fosse entrato a gamba tesa nella vita di Naive, lei aveva un padre e lui voleva esserlo, avrebbe sempre voluto esserlo, e ora stava diventando una realtà concreta e percepibile anche da una bambina di dieci anni e mezzo.
A spaventare Pemberley erano le conseguenze: quel posto vuoto, accanto a loro, voleva dire completezza.
La famiglia che vedeva riflessa negli occhi di Naive e che le faceva paura. Cosa voleva dire, per lei?
Unità e coesione tra tre elementi distinti, o un padre e una madre che dovevano dividere più di una figlia?
Fissò Nathan con nostalgia.
Era stato facile innamorarsi di lui, e altrettanto difficile sfuggire per potergli permettere di realizzare i suoi sogni senza essere d’intralcio. Ma se non fosse fuggita sarebbero stati ancora lì, insieme? Non solo per Naive?
Erano domande ardue a cui non avrebbe mai saputo dare risposta.
Una donna avrebbe potuto innamorarsi di Nathan, ma lei?
Era una persona che aveva imparato a conoscere in passato, eppure non poteva dire lo stesso del presente. Erano cambiati essendo sempre gli stessi. Nathan non conosceva la Pemberley odierna e Pem non conosceva Nate. Cosa avrebbero potuto scoprire di nuovo nell’altro?
Non riusciva a concepirlo.
Sceglierlo ancora sarebbe stata la scelta più facile per lei, se ne rendeva conto: era il padre di sua figlia e non si sarebbe affidata a un estraneo, ma questo non lo rendeva per forza la scelta giusta, anzi.
Guardò gli occhi imploranti di Naive.
Non le avrebbe fatto male avere una sicurezza data dai due genitori vicini a lei, non l’avrebbe ferita o fatta illudere, anche perché sapeva come stavano le cose, e nel quadro generale c’era Rhys, nonostante non l’avesse raggiunta e non avesse speso una parola a riguardo.
Fece un paio di passi verso il divano – incerta – verso due visi che si distendevano di più alla sua vicinanza, quando l’attenzione di Pemberley venne catturata da due fari che, per un momento, abbagliarono l’interno della casa, passando proprio dalla finestra davanti cui era rimasta per tutto quel tempo.
«Ma chi diavolo…?»
La macchina si fermò nei pressi del piccolo spazio adibito a parcheggio dei Voight.
La prima persona a scendere dall’abitacolo aveva la testa bionda e non era molto alta. Austin alzò il viso e sorrise, come se in quel clima così rigido ritrovasse una sensazione famigliare.
Rhys lo seguì a ruota, poco dopo, per prendere i borsoni dal baule.
«Oddio» mugugnò Pemberley sorpresa con una mano sopra la bocca.
«Cosa c’è?» Nate era preoccupato, sembrava sconvolta.
Lei non rispose, corse verso la porta e uscì solo dopo aver infilato ai piedi degli stivali, giusto per non camminare scalza nella neve.
Non gli diede il tempo di fare altro che gli saltò al collo, contenta di vederlo lì, nessuna distanza a separarli.
«Austin!» urlò dopo poco Naive dall’uscio, entusiasta. Il bambino sorrise felice e quando lei gli fece cenno con la mano di entrare, lui  colse al volo l’occasione per allontanarsi da quelle smancerie. Non capiva come potessero fare simili cose, quei due. Ci si comportava così da grandi tra amici? Non pensava proprio.
Ma forse non erano solo amici.
«Ce l’hai fatta, sei venuto!» gli sussurrò.
«Volevo farti una sorpresa»
«Ci sei riuscito!» e accarezzò una sua guancia fredda e liscia. «Forza, entriamo».
Dentro casa Nate e Rhys si fissarono per poi salutarsi come un cenno, una gara silenziosa a chi avrebbe abbassato lo sguardo per ultimo e avrebbe gonfiato il petto di più.
«Dove lo sistemi Pem?» chiese con aria innocente il padre di sua figlia. «Non ci sono abbastanza camere».
«Austin può dormire con Naive e, beh, Rhys con me» sorrise imbarazzata, mentre Rhys osservava il viso di Nathan tirarsi.
«Vado a chiamare i tuoi, li avviso che ci sono ospiti» disse cortese Nate, una maschera dietro cui nascondere la rabbia. «Vi lascio soli per un po’».
Strizzò l’occhio alla sua ex, ritrovando il buonumore perduto.
Salì le scale di corsa, sentendosi terribilmente solo, anche la figlia aveva un qualcuno con cui condividere il suo tempo e rimpiazzarlo in quei giorni. Era lui contro tutti gli altri, una bolla perfetta di armonia e amore che si scontrava con la sua solitudine formata perlopiù da rancore.
Pemberley non era cambiata poi molto in tutti quegli anni: per quanto cercasse di fare come voleva lei, si ritrovava ad assecondare il volere altrui, e Rhys ne era la prova lampante.
Estrasse il cellulare dalla tasca, forse era arrivato il momento di accettare l’invito a bere qualcosa dopo lavoro di Cynthia. Non aveva nulla da perdere e il tempo stringeva.
Pemberley non aveva più bisogno di lui?
Bene, lui non avrebbe avuto bisogno di lei.
«Nate?» di colpo New York era diventato il suo rifugio sicuro, più di quello chalet.
«Cynthia, ciao. Senti, stavo pensando… Cosa ne dici di andare a bere quel famoso cocktail quando torno in città? Ho già la gola secca». Perché anche lui era capace ad essere affascinante, bastava solo ricordare come si faceva.

 




Non so nemmeno io come iniziare, se non con scusa.
Come vi avevo accennato nelle note precedenti, le cose non giravano bene. Senza contare che, a fine luglio, sono peggiorate di molto. Fino a fine ottrobre ero talmente a pezzi da aver perso la voglia di leggere e, soprattutto, quella di scrivere.
In questo caso un concerto è stato provvidenziale. Il concerto dei Thirty Seconds To Mars del 2 novembre a Milano. Mi stavo riprendendo, anche se a rilento, e loro mi hanno dato forza, carica e positività. Mi hanno ricordato come ci si rialza. Il processo è stato lungo, e ora posso dire che tutto è passato.
Il mio excursus su EFP è stato lungo, e facendo anche un po' il Giorgio Mastrota della situazione, ve lo illustro. Ho ripreso a scrivere e l'ho fatto proprio nel fandom dei mars, a metà novembre. Ho iniziato con una OS introspettiva su Jared (The triad in him), per poi continuare con una minilong "comica" su di lui (Trenta secondi da Marte, anni luce da Venere), infine sono arrivata a un'altra shot introspettiva su Shannon (The secret is out). Siccome scrivere di loro è terribilmente facile, ho deciso di fare lo spin off della mini long, incentrato su Shannon. Si sa mai che tra voi si nasconda qualche Echelon.
Prima però di arrivare a questo aggiornamento sono tornata alle originali con una OS fluff e da carie nata sabato notte: La ricetta della felicità.
Infine sono arrivata qui. Sono prolifica, ma non so quanto durerà. Intanto io cerco di sfruttare la cosa quanto posso.

Cosa dire di questo capitolo? Ho iniziato a settembre a scriverlo, e spero che non si senta troppo. Il problema di questa storia è sempre stata la sua imprevedibilità, perchè non avevo una scaletta. Fatta quella, sono riuscita a concludere il capitolo con una certà facilità. Spero sia sempre così. Per la cronaca: la storia sarà composta da 15 capitoli in tutto, sedici se mi dilungo su alcuni punti, devo ancora vedere.
Il nome del capitolo - nemmeno a dirlo - è la frase di una canzone dei Mars. Ho solo sostituito Love con Life.
Ci tengo molto a ringraziare le persone che, nonostante il mio mutismo, hanno aspettato, commentato e inserito la storia tra le proprie, se sono qui è anche merito vostro.
Spero ci sia ancora qualcuno interessato un minimo a questa storia...
Se volete mi trovate nel gruppo, almeno potete ingannare le lunghe attese a cui vi costringo: Love Doses.
Alla prossima, sbaciucchiamenti, Cris.

   
 
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