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Autore: Bloomsbury    19/02/2014    17 recensioni
[Storia in revisione] Capitoli revisionati: 14/35.
Jay era un ragazzo come tanti, con qualcosa in più o in meno degli altri, un ragazzo normale, un ragazzo omosessuale: particolare insignificante per ogni persona di buon senso.
Si vergognava di tante cose, tranne che di questo.
Jay bramava la luce, la libertà.
Fece la scelta sbagliata nel contesto meno appropriato e quel particolare insignificante diventò la spada che lo uccise, la macchia scura che lo inghiottì.
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo!»
Così comincia la storia di Jay Hahn, fatta di dolori, di abbandoni, di amore, di amicizia, di segreti, di bugie, di tempesta.
E le tempeste intrappolano nel proprio occhio ogni cosa, risputandoti fuori lacerato, diverso, un mostro.
Jay uscirà ed entrerà da quelle raffiche di vento, diventerà lui stesso la tempesta e annienterà ogni cosa al suo passaggio.
Compreso se stesso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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decimo
"...And it's hard to hold a candle
In the cold November rain

We've been through this such a long long time
Just tryin' to kill the pain."

Guns N' Roses-November Rain



10. November Rain


La sveglia suonò imperterrita per quasi mezz’ora fino a che la mano assonnata di Jay non le diede il colpo di grazia scaraventandola giù dal comodino.
Gli avvenimenti accaduti qualche giorno prima, la confessione sparata a brucia pelo da Chaz e la disarmante ironia di Izaya non avevano fatto altro che confonderlo, alimentando esponenzialmente i suoi dubbi.
Puntò i grandi occhi verdi verso la finestra e si maledisse di non averla chiusa la sera prima. La luce lo accecò, spingendolo ad intrufolarsi nel caldo abbraccio delle coperte.

Dopo l’ennesima serata vissuta con imbarazzo per via dell’irrequietezza di Chaz e i continui goffi tentativi di Lizzie di far ritornare tutto alla normalità, appena ritornato a casa, aveva aperto la finestra per poi sedersi sul davanzale con le gambe penzoloni, lasciando che queste ciondolassero nel vuoto accompagnando il fluire dei suoi pensieri sconnessi. Aveva osservato l’orizzonte scorgendo i colori tipici dell’alba appena iniziata e il silenzio delle prime ore del mattino gli aveva dato modo di riflettere: sebbene si sentisse tremendamente in colpa per aver fatto soffrire Chaz, sapeva di aver fatto la cosa giusta. Chiunque gli avrebbe dato dell’egoista e forse un po’ era anche vero, tuttavia non avrebbe mai preso con leggerezza il suo cuore, i propri sentimenti, tantomeno quelli di Chaz.
Le parole dell’amico riecheggiarono nella sua mente, riproponendosi ad ogni sospiro lasciato all’aria, ad ogni tiro di sigaretta.
Cazzo, io ti amo Jay. Da così tanto tempo che non ricordo neanche più come si vive senza amarti”.
Ogni volta che sentiva ripetersi quelle parole la voglia di sparire avvolgeva ogni porzione del suo animo.
Si chiese se davvero non se ne fosse mai accorto e dopo minuti e minuti di riflessioni, di ricordi, la risposta arrivò chiara come il sole appena sorto: l'aveva sempre saputo.
La paura di perderlo lo aveva reso vittima delle sue stesse ammonizioni e dovette ammettere, a malincuore, un fatto che diventò lampante solo in quell’istante: aveva sapientemente rimosso e sotterrato ogni vago sospetto, con la speranza che non si ripresentasse. Aveva accusato Chaz di non essere stato sincero ma il peso della colpa attribuitagli sarebbe dovuto essere equamente ripartito perché, tanto quanto le omissioni, anche la sua ignavia nel cogliere i deboli segnali aveva contribuito ad accrescere la distanza e ad accumulare le falsità che avevano corrotto il loro rapporto. Quella finestra aperta fu l’altare sul quale aveva sviscerato la propria coscienza, ma nel momento del suo risveglio fu la ragione che lo spinse ad alzarsi colmo di preoccupazione e nervosismo.

Fissò il soffitto della sua camera per pochi istanti cercando un gancio invisibile al quale appigliarsi e dopo qualche minuto poggiò i piedi sul pavimento, deciso ad affrontare anche quella giornata con coraggio. La vita di Jay, da quel fatidico giorno, era diventata una giostra continua di emozioni, negative e positive; il solo alzarsi dal letto e attraversare le stanze di quella che non era più casa sua richiedeva una dose di eroismo non indifferente, ma dopo aver appurato il fatto che nella vita 
nella sua vita  ogni cosa doveva essere necessariamente vissuta senza cedere alla voglia di sparire, si levò con fiducia dirigendosi poi al piano di sotto.
Scese le scale adagio concentrandosi sulle risate sommesse dei componenti della sua famiglia riuniti per la colazione e quando fu abbastanza vicino si arrestò davanti alla porta chiusa ascoltando le voci di chi sentiva ancora di amare, e sorrise, riconoscendo nella familiarità di quei discorsi ordinari momenti della sua vita neanche troppo lontani.
Aprì la porta.
L’odore del caffè lo investì tanto da svegliarlo completamente e scrutando i visi di suo padre e suo fratello minore un nodo nello stomaco lo costrinse ad una smorfia di amarezza.
Vide suo padre con un’espressione che non ricordava neanche più di aver mai visto e scorgendo nella profondità del suo sguardo una complice intimità condivisa con suo fratello minore, la nostalgia lo soffocò. Un valzer continuo di flash lo riportò in quella stessa cucina,
solo a qualche mese prima, quando con suo padre usava confrontarsi alla pari su ogni tipo di argomento; attimi di sublime felicità si trasformarono in un ritratto cupo e indelebile, e la felicità passata originata dalla soddisfazione che ogni figlio prova quando viene seriamente considerato dal proprio genitore si dissolse, come i contorni sfumati di un disegno piegato dall’avanzare del tempo.
Era troppo tardi per scappare e senza alcuna ragione il sorriso di Izaya si presentò nella sua mente. Pareva rammentargli, con voce pacata e gentile, le mille rassicurazioni che soleva ripetergli ogniqualvolta lo trovava particolarmente provato o assorto. “Non sei tu che devi adattarti a loro. Tu sei così come sei e devi importi perché meriti rispetto anche solo per il coraggio che hai dimostrato, e se non gli starà bene, allora, fagli vedere che sei sereno nonostante tutto. Non hai bisogno di loro.” Concetto semplice e diretto, apparentemente infantile, ma sacrosanto.
«Buongiorno a tutti».
I visi dei presenti si contrassero e Joseph, suo fratello, fu l’unico a rivolgergli un indolente saluto in risposta.
Da suo padre e sua madre neanche una parola.
Tentò disperatamente di ignorare quel silenzio dicendosi che avrebbe dovuto sfoggiare tutto il suo orgoglio a testa alta, si avvicinò ostentando sicurezza e afferrò una fetta di pane tostato, intrappolandola tra i denti.
I suoi occhi erano più luminosi del solito e i capelli scompigliati gli donavano un’espressione ancora più infantile 
cosa che normalmente avrebbe intenerito sua madre che, con dolci carezze, avrebbe intrecciato le proprie dita alle ciocche scomposte dei capelli del suo bambino per ravvivare la cresta ribelle che già in precedenza aveva disapprovato, ma che aveva scelto di accettare per quieto vivere. Jay guardò prima suo fratello; poi suo padre e sua madre: sembravano estranei. Avevano smesso di parlare e sorridere solo perché il loro vergognoso figlio era entrato a disturbare la tranquilla quotidianità che avevano deciso di vivere senza di lui.
Joseph, insperabilmente, riprese a parlare come non aveva mai fatto prima ed il padre, fiero dell’improvvisa e forbita favella del figlio, sorrise, rispondendo con interesse alle sue argomentazioni.
Con l’assenza di Jay, il piccolo Joseph poté godere delle attenzioni che prima erano state di suo fratello e con grande soddisfazione esibì la nuova posizione guadagnata in famiglia, come se si trattasse di una promozione di lavoro. Figli di serie A e figli di serie B; suo padre aveva sempre ragionato così e declassando senza tanta fatica il maggiore dei suoi figli aveva riposto ogni speranza sul minore, augurandosi che questi non lo deludesse.
Jay stava impalato, spettatore di quella vita familiare che un tempo era stata anche sua; avrebbe voluto intervenire nella conversazione ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato il caso. Posò gli occhi sul tavolo e si accorse che non gli era stato riservato un posto. Dove normalmente avrebbe trovato la sua tazza c’era il cestino del pane e delle marmellate: la madre aveva usato il suo posto per posizionare le cose necessarie a tutti. Evidentemente, la sua presenza non era necessaria tanto quanto una marmellata di fragole.
Mise il broncio 
come quando era bambino e guardò sua madre che con incredibile calma e disinvoltura versava il caffè per i suoi uomini, ignorando totalmente la presenza di suo figlio.
All’ennesimo schiaffo morale e ai successivi evidenti segnali di insofferenza da parte dei genitori, Jay gettò il pane nella pattumiera e senza indugio si allontanò sommessamente dalla cucina.
Quel piccolo spaccato di vita stracciò l’ultimo brandello di speranza; Jay divenne un mendicante di attenzioni estraneo alla sua stessa vita, il membro inutile di un quadro familiare imperfetto nella sostanza ma del tutto pianificato perché risultasse senza macchia all’apparenza. L’istinto di fare le valige e scappare si scontrò con l’impossibilità pratica di mettere in atto i suoi propositi. Non ci sarebbe stato alcun posto dove andare senza procurare peso a qualcuno, avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e prendere in mano la sua vita 
l’avrebbe fatto  anche se non sapeva esattamente da dove iniziare.
Arrivato in camera si lasciò andare al primo vero sospiro della giornata e fece spallucce tentando di ridimensionare ciò che aveva appena vissuto, ma gli occhi si riempirono di lacrime ed il mento tremante prese il posto del menefreghismo che aveva tentato in tutti i modi di dimostrare a se stesso, e crollò in un silenzioso pianto, pregando disperatamente i suoi occhi di smetterla. Avrebbe voluto essere solido abbastanza da non sentire il peso di ciò che aveva visto, ma la sua giovane età non gli aveva ancora permesso di accumulare abbastanza forza da riuscire a sostenere un tale colpo. Odiò la sua debolezza in ogni modo, strinse i denti e levò lo sguardo dal pavimento asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Si alzò di scatto, afferrando il cellulare abbandonato sul letto: avrebbe chiamato Lizzie, avrebbe parlato con lei del più e del meno; ma non appena posò gli occhi sul display vide la data di quel nuovo giorno appena iniziato pessimamente.
Undici Novembre: il giorno del suo diciottesimo compleanno.

***

Izaya arrivò al locale stropicciandosi le mani intorpidite dal freddo e suoi occhi si posarono sulla figura accartocciata di Jay, accovacciato sulla sedia come un bambino in punizione. Lo squadrò per qualche istante percependo immediatamente il suo stato d’animo. Si piazzò un sorriso solare sulla faccia cercando di apparire il più sereno possibile. I tentavi di Jay di sviare ogni sospetto circa il suo reale umore, fingendo tranquillità, non raggirarono il ragazzo che con passo sempre più cauto si avvicinava a lui cercando, nel frattempo, l’unica che potesse essere a conoscenza del malessere che in quel momento stava corrodendo inesorabilmente l’animo del più piccolo. Non riuscì a scorgere Lizzie 
indaffarata in chissà quale faccenda  così dovette accettare il fatto di misurarsi con una sofferenza sconosciuta, forse anche più grande di quello che poteva immaginare, approcciandosi ad essa con inconsapevolezza. Non gli avrebbe mai chiesto informazioni direttamente solo per soddisfare una sua curiosità, sapeva di conoscere anche solo in minima parte la ragione di quegli occhi gonfi e provati dalle lacrime.
Se avesse potuto seguire l’istinto l’avrebbe raggiunto e abbracciato, ma il rispetto che provava nei suoi confronti,
soprattutto dopo la sua richiesta di essere lasciato in pace a riflettere senza dover prendere delle decisioni affrettate  non gli permise di valicare un limite inviolabile che lui stesso aveva posto tra loro.
«Ciao, Jay. Sei un raggio di sole oggi.»
«Anche tu non sei male. Ti mantieni sempre bene, nonostante l’età».
Izaya si sedette difronte a lui incrociando le mani sul tavolo e analizzò ancora il suo volto: c’era qualcosa di più della semplice e consueta malinconia, tuttavia non si azzardò a chiedere nulla, continuò a punzecchiarlo per risollevarlo. «Dov’è il simpaticone del gruppo? Non mi pare di vederlo.»
«Izaya… non fare il cretino! Sai che si offende.»
«Non mi pare di vederlo nei paraggi e non credo che abbia messo cimici nel locale.»
«No. Ma quando inizi da subito a prenderti gioco di lui poi ci prendi gusto e continui per tutta la serata.»
«Dimora ancora nel mio cuore la speranza di vederlo felice con un ragazzo che non sia tu» recitò sentitamente, premendosi le mani al petto.
«Izaya…»
«Che ho detto di male? Senti, Jay, Chaz non mi sta affatto antipatico, anzi lo apprezzo; soprattutto dopo quella delicata e commovente dichiarazione d’amore, ma se permetti prego perché lui possa essere felice altrove.»
«Ti vedo particolarmente combattivo oggi, temevo avessi ceduto le armi.»
«Non posso cedere le armi. Io ti voglio.» La determinazione negli occhi di Izaya fece scivolare il cuore di Jay in ogni angolo del suo corpo, colorandogli le guance di rosso, costringendolo ad abbassare la testa.
«La tua reazione mi suggerisce cose che le tue labbra non osano pronunciare, piccolo Jay.»
«E la tua sicurezza mi dice che sarebbe ora di chiamare Lizzie».
Izaya seguì la traiettoria dello sguardo di Jay per poterlo catturare e farlo suo. Voleva dargli prova della determinazione con la quale aveva tutte le intenzioni di conquistarlo per poi avere tutto il diritto di proteggerlo a modo proprio. Il desiderio impellente di prendersi cura di lui era misterioso quanto coinvolgente e, di fatto, non capì mai perché Jay fosse diventato così importante, ma più il tempo passava più sentiva che quel ragazzino gli avrebbe cambiato la vita, l’avrebbe reso felice.
«Scusa, Izaya» la voce squillante di Lizzie tagliò di netto l’atmosfera che i due erano riusciti a costruirsi intorno. «Vieni un attimo ad aiutarmi con questi scatoloni?»
«Arrivo, donna. Le mie forti e possenti braccia sono pronte a tutto.» Si alzò sgranchendosi le dita delle mani, si avvicinò a Jay con tenerezza e prima di andare gli passò delicatamente il dito sul viso: dalla tempia, all’angolo delle labbra; percorse i lineamenti delicati e stanchi di Jay con un solo dito, per poi frenare quel bramoso vagare nel pugno della sua stessa mano. Se si poteva chiamare contatto fisico quello era stato il primo e se anche solo un dito di Izaya aveva la capacità di rendere vittima dei brividi la sua pelle, Jay non osò immaginare cosa avrebbe potuto provocare il resto della mano. La leggerezza di un dito aveva rimpiazzato la pesantezza dei suoi pensieri, la delicatezza di un cenno non del tutto voluto, non pianificato ma figlio di uno slancio irrefrenabile, aveva aperto la strada verso altre possibilità che necessitavano solo di essere colte, se solo non fosse stato così complicato.
Se solo non ci fosse stata in gioco la felicità di troppe persone.
Izaya si allontanò da lui sentendone già la mancanza, raggiunse Lizzie con l’intenzione di prenderla un po’ in giro come al solito, ma non trovando alcun scatolone da dover trasportare capì che le intenzioni della ragazza erano altre.
Come un rapinatore lesto e forte, Lizzie cinse il polso di Izaya trascinandolo nel punto più nascosto del locale. «Ascoltami bene: oggi è il compleanno di Jay, compie diciotto anni. Dobbiamo fare qualcosa.»
«Non c’era bisogno di portarmi in questo luogo angusto e puzzolente.»
«Non è il momento di scherzare…»
«Lizzie» la interruppe, cambiando totalmente sguardo e tono di voce. «I genitori lo hanno ignorato!?» La ragazza abbassò lo sguardo lasciando al dispiacere dei suoi occhi il compito di dare una risposta.
Izaya acconsentì sospirando e fece per andarsene, ma Lizzie lo trattenne ancora: «Non dirgli che te l’ho detto».
La fissò per un breve istante scorgendo la pena che l’aveva aggredita per tutto il tempo prima del suo arrivo e provò tenerezza per quella donna bella e sola che aveva scelto di prendersi cura di un ragazzo sconosciuto ma che, inspiegabilmente, era entrato nel suo cuore. Capì che i legami nascono e si fondono senza essere necessariamente preventivati dalla natura o rafforzati dal tanto tempo trascorso insieme. Lizzie era divenuta una casa per Jay, se ne rese conto in quell’istante, quella donna così materna senza essere mamma aveva scelto di prendersi la responsabilità di una vita abbandonata da chi avrebbe dovuto prendersene cura.
Izaya sorrise, scegliendo in quel preciso momento di diventare la roccia sul quale tutti avrebbero costruito il loro legame.
Si allontanò e raggiunse Jay spalancando le braccia. «Diciotto anni. Jay è diventato un uomo.»
«Izaya, Cristo! Ti avevo chiesto di non dire niente» uscì allo scoperto Lizzie urlando il suo disappunto.
Jay guardò la scena perplesso, non capendo fino in fondo le dinamiche di quel piccolo ma divertente spettacolo.
«Lizzie, non potevo non dirlo. Sono felice. Finalmente potrò averlo senza risultare un molestatore di minorenni» rispose gongolando, sedendosi di nuovo difronte a Jay. Gli afferrò le mani accarezzandogliele dolcemente e con eccitazione nello sguardo spiattellò d’improvviso i suoi programmi: «Dai, piccolo Jay, chiama Chaz. Stasera porterò voi bambini nel luogo della perdizione, a festeggiare».




Angolo Autrice.
Ciao! Ringrazio tutti quelli che hanno letto per intero la storie e tutti quelli che stanno ancora leggendo. Voglio ringraziare chi mi ha supportato capitolo dopo capitolo e chi mi ha seguita silenziosamente.
Grazie, quindi, a coloro che hanno insierito la storia nelle seguite/preferite/ricordate e aggiungo un grazie caloroso a SNappy.
Un abbraccio.
Bloomsbury
   
 
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