Platessa e zucchine.
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CAPITOLO V ▪
Rain punzecchiò con
la forchetta il filetto di platessa che aveva nel piatto, riducendolo
letteralmente in poltiglia.
Non
gli piaceva un granché il pesce, ma non poteva permettersi di non bilanciare la
dieta, e così lo mangiava comunque – controvoglia, ma lo faceva lo stesso. Il
trucco era mischiarlo con le zucchine, così da confonderne il sapore e riuscire
comunque a pulire il piatto senza vomitare, e, dal momento che amava le
zucchine, quella gli era sempre parsa la soluzione più logica. Mischiò il tutto
premendo con la posata, alzando poi lo sguardo verso l’espressione schifata di Étienne, intento a mangiare la sua insalata di
pollo.
«Che c’è?» gli chiese, conscio che l’intruglio
che aveva prodotto nel piatto aveva un aspetto disgustoso e un sapore che
sfiorava l’accettabilità.
«Ammiravo il tuo odio verso quel povero pesce…» ammise, tornando poi a concentrarsi sulla sua insalata,
come se niente fosse.
E’ stato carino, però. Poteva mangiarsi qualcosa di decente,
e invece si è preso solo l’insalata. Non sapeva se
effettivamente lo avesse fatto per compassione, o perché semplicemente gli
andava così, ma in qualsiasi caso gli aveva risparmiato la sofferenza di
osservarlo mentre mangiava una pizza, per esempio. «Non mi piace il pesce e
basta» spiegò, portandosi poi un boccone di quella poltiglia alle labbra, «se
lo mangio così sa di zucchine» aggiunse poi, dopo aver deglutito – fa cagare comunque, in realtà! Ma non
era rilevante, alla fine.
«E allora perché lo mangi?» gli chiese l’altro,
osservando di nuovo la purea di platessa. Sembra
vomito, lo so – Rain avrebbe voluto dirglielo, ma
il solo pensiero lo nauseava: sto
mangiando una cosa che sembra vomito, che bello!
«È complicato, ma devo mangiarlo, così come mangio
tutto il resto» rispose, ingoiando poi un altro boccone. Alla fine aveva
imparato a gestire la sua dieta nel corso degli anni, e a mangiare tutto, anche
le cose che al suo palato risultavano cattive.
«Come mia madre… ho
presente» commentò Étienne, abbandonando la forchetta nel piatto. «Comunque siete
pazzi, io non ce la farei mai» confessò con un sorriso, portandosi poi il
bicchiere alle labbra. Non era la prima volta che Rain
lo vedeva increspare le labbra così, e non era nemmeno la prima volta in cui
aveva pensato che, quando sorrideva, era uno spettacolo fantastico. Ma che cazzo faccio?
«Bisogna solo farci l’abitudine…»
si affrettò a rispondere, scacciando quei pensieri molesti che lo mettevano a
disagio – mi sto comportando come Brice, si disse, mangiando un altro boccone. Ma poi gli
venne in mente che Brice non si sarebbe limitato ai
pensieri, e che in realtà non era ancora caduto così in basso.
«Domani hai lezione?» – la domanda gli arrivò
lontana, come una voce troppo distante che lo guidava, trascinandolo di nuovo
alla realtà, davanti a quel piatto di sbobba verdastra. Cosa?
«Sì, domani è giovedì» rispose prontamente, sperando
che il suo cervello avesse recepito il giusto messaggio, «perché?» chiese,
cercando di capire dove volesse andare a parare.
Étienne si strinse nelle spalle, sfoggiando un altro di quei sorrisi
che lo disarmavano, «Volevo chiederti se volevi venire all’Access,
ma domani hai lezione, quindi immagino che la risposta sia no» disse, e un
pensiero malsano si fece strada nella testa di Rain –
stiamo flirtando? Non era la prima
volta che si poneva quella domanda, ma dal momento che la sua mente era
annebbiata da quell’attrazione fisica che si ostinava a rinnegare, tanto valeva
ripudiare anche quella stupida idea.
«Ti fai le domande e ti rispondi da solo?» gli
domandò ironico, cercando di ripulire il piatto in fretta, «se dico di sì?»
aggiunse con un sorrisino che, inevitabilmente, ne fece sbocciare un altro
sulle labbra di Étienne.
«Se dici di sì ci vediamo alle dieci qua sotto,
se invece devi andare a dormire alle sei del pomeriggio, ci vediamo Lunedì a
lezione» spiegò poggiando la schiena alla sedia, stirando i muscoli delle
braccia.
Régine ridacchiò rotolandosi sul materasso,
osservando Rain estrarre una maglia dall’anta
dell’armadio che era costretto a condividere con Brice.
«Chi è il fortunato che si beccherà tutto questo ben di Dio, stasera?» domandò
passandosi le dita fra i capelli ramati, legandoli poi in quello che – con
molta fantasia – sarebbe potuto sembrare uno chignon. Vide il suo compagno di
ballo irrigidirsi appena, e poi infilarsi la maglietta stringendosi nelle
spalle: «uno…» si limitò a risponderle, dandole la
schiena.
«Uno figo?» ribatté subito
lei, senza perdere neanche per un secondo quel sorriso che le colorava il viso.
«Perché se è sexy e gay potrei incazzarmi parecchio» scherzò poggiando la testa
sul cuscino – non voleva metterlo in imbarazzo, solo sapere, ammesso che lui le
concedesse questo privilegio. Dopotutto Rain era
sempre stato molto introverso, riguardo alle sue emozioni, come se non
conoscesse altro modo per esprimersi al di fuori della danza.
«È un bel ragazzo, ma non è gay, e non è un
appuntamento» le rispose, accantonando quel suo solito tono acido che usava
spesso con Brice. Avevano un rapporto di reciproco
rispetto, loro due. Si erano sempre trovati in sintonia, ed era anche per
questo che ballavano assieme, che lei si fidava ciecamente di lui. Era come
amarsi: come se le loro anime facessero l’amore ogni volta che iniziava la
musica.
«Ma lui ti piace, e ci stai male…»
mormorò lei, facendogli intuire che – per quanto lui tentasse di nasconderlo –
si capiva dal tono della sua voce, dalla postura del suo corpo, e dai suoi
occhi – soprattutto dai suoi occhi. «Non me ne vuoi parlare un po’?» aggiunse
poi, sapendo di aver centrato in pieno la ferita sanguinate che stava provando
a celare dietro il suo solito menefreghismo. Fa tanto il duro, ma è fragile come un cristallo – e lei lo sapeva
bene, fin troppo.
Attese una risposta che tardò ad arrivare,
probabilmente perché lui stava ancora tentando di lenire il dolore che lei
aveva riesumato, portato a galla, dove anche lui poteva vederlo e sentirlo
chiaramente.
«Non c’è niente da dire, è così e basta» le disse,
sforzandosi di sorridere, chinandosi poi a lasciarle un bacio sulla fronte. «E
adesso vado, altrimenti faccio tardi…» tagliò corto,
scappando per l’ennesima volta dalle sue emozioni.
Le luci al neon del locale gli davano alla testa,
esattamente quanto i pantaloni troppo aderenti che Étienne aveva deciso di indossare quella sera. Si era ripetuto più volte che,
continuando a fissargli il sedere e le gambe fasciate nei jeans, non avrebbe
assolutamente risolto nulla, e tanto meno avrebbe conservato una parvenza
d’integrità mentale. Ma era come una calamita e lo sguardo continuava a cadere
involontariamente lì.
Avevano trascorso parte della serata a parlare, o meglio, a tentare di chiacchierare sopra la musica troppo alta, fino a quando Étienne non gli aveva proposto di ballare, offerta che lui aveva rifiutato senza nemmeno pensarci sopra due volte. Mi ha fatto vedere qualche passo, ma non è il mio genere e basta, si era detto mentre lo osservava raggiungere il DJ che metteva i dischi quella sera. Questione di qualche minuto, il tempo che altri tre ragazzi sgombrassero la pista, e poi la musica partì con due finte. *
La
maniera in cui il suo corpo si muoveva, ogni volta, lo lasciava senza fiato,
come se tutta l’aria sparisse, risucchiata dai gesti delle sue mani, dei suoi
fianchi, del suo fisico che si spostava nello spazio, a ritmo con le note di
quella canzone. Era come una tempesta che arrivava e cancellava tutto,
distruggendo le sue autoconvinzioni, radendo al suolo ogni suo “no”, ogni
pensiero razionale che si imponeva. C’era solo Étienne, solo lui e la musica. Niente aveva più
senso o importanza, e mentre lo guardava ballare, mentre il suo corpo si
muoveva parlando, sussurrandogli cose che fino ad ora si era sentito dire solo
nella sua immaginazione, la consapevolezza lo assalì di colpo.
Prima che questo ballo sia finito, si disse, penso che
mi sarò innamorato di te.
E poi la musica finì, riportando l’ossigeno ai
suoi polmoni, trascinandosi via il pensiero che forse non aveva capito nulla di
quel ragazzo biondo che continuava a fargli saltare i nervi, a mandargli in
tilt il sistema nervoso.
Lo guardò tornare da lui con il sorriso stampato
sulle labbra, lo stesso che lo aveva fatto impazzire durante l’ora di pranzo –
quello che lo distruggeva ogni volta, che lo aveva rapito dal primo istante in
cui l’aveva visto.
Perché era un sorriso fantastico e solare,
contagioso, e ogni volta che lo osservava mentre arricciava le labbra non
poteva fare a meno di ricambiare, senza forzarsi. Non lo sapeva se era stato
quello a farlo innamorare, se era stato l’ultimo ballo che aveva fatto, oppure
se era una cosa che andava avanti da tempo, da quando si era conosciuti. Non lo
sapeva e non voleva saperlo, perché Étienne per lui
era come un intricato rompicapo da cui non riusciva a venire fuori – a cui non
voleva trovare una soluzione.
L’aria fresca della notte gli accarezzò il viso,
facendolo rabbrividire. Si era sforzato di fingere che non fosse successo
nulla, che quello che provava era solo una piccola ferita che si era già
rimarginata, lasciando il posto ad una cicatrice che si sarebbe sbiadita con il
tempo. Era questo il problema che aveva sempre avuto: essere omosessuale lo
frenava in tutto, soprattutto quando si trattava di ragazzi.
Aveva dato dell’idiota a Brice
perché non sapeva se Étienne fosse o meno dell’altra sponda,
ed ora lui aveva fatto lo stesso, se non di peggio – perché mi devo sempre mettere in queste situazioni del cazzo?
Socchiuse gli occhi lasciando che la brezza leggera gli sfiorasse la pelle del
volto, riempiendogli le narici, portando l’ossigeno ai suoi muscoli stanchi,
fiacchi per via delle lezioni che era costretto a sopportare tutti i giorni.
Riusciva a vedere con la coda dell’occhio Étienne, in piedi sul muretto che costeggiava il lungo
mare, mentre come un equilibrista camminava sul cemento con un piede davanti
all’altro. Sapeva che faceva parkour, che era uno di quelli che si divertiva a
fracassarsi le ossa saltando da un palazzo all’altro, quindi per lui non era
difficile fare una cosa del genere, no? Ma non riuscì nemmeno a concludere il
cerchio del pensiero che, dal nulla, il ragazzo perse l’equilibrio mettendo un
piede in fallo e lui, istintivamente, gli afferrò il braccio, riportandolo
saldamente con i piedi sul terreno.
Successe tutto nella frazione di qualche secondo,
tempo che la sua mano gli circondasse il bicipite e lo tirasse verso di sé,
lontano dal muretto. Il tempo di uno sguardo, di un respiro che per un attimo
gli sembrò tanto vicino da mischiarsi con il suo. Il tempo di un «grazie»
mormorato con quello che gli sembrava imbarazzo, e poi sentì l’improvviso
impulso di poggiare le labbra sulle sue, di baciarlo senza un perché, senza
sapere se questo avrebbe mandato in frantumi tutto quanto, o se avesse messo le
basi per la risoluzione di quel rebus che da un mese tentava di risolvere. E lo
fece senza pensarci, lo fece e basta, stringendoselo contro quel tanto che
bastava, senza costringerlo troppo. Lo fece per una frazione di secondo, mentre
il battito del cuore gli rimbombava forte nelle orecchie, a tempo con una delle
canzoni troppo alte che arrivava da uno dei locali.
Lo fece, e quando le loro labbra si separarono,
quando lo sguardo celeste di Étienne incrociò il suo
facendolo vibrare appena per quella che forse era paura, o forse semplice e
irrefrenabile necessità di averne ancora, di averne di più, si sentì morire. Che cazzo ho fatto?
«Scus―» fu l’unica cosa che riuscì a biasciare, prima
che Étienne lo zittisse con un bacio, accontentando
quella sua tacita richiesta, radendo al suolo ogni suo “no”, ogni
pensiero razionale che si imponeva.
«Danzare è come parlare in silenzio.
È dire molte cose, senza dire una parola.»
–Yuri
Buenaventura–
WE
LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Vi chiediamo scusa per il leggero ritardo,
ma siamo soggette al cosiddetto “Blocco da quinto capitolo” – soprattutto se è
un capitolo come questo. Chiediamo anche perdono per l’introspezione pesante e
la quasi completa assenza di dialoghi, ma volevamo che entraste nella testa di Rain, che capiste fino in fondo il tutto, però con i suoi
occhi, non con quelli di Étienne.
Per il resto non credo ci sia molto da dire, loro
si conoscono da un mese, quindi era anche ora che Rain
si decidesse a fare qualcosa, a mio parere. E nulla, si vedrà. Non vi
anticipiamo niente, ovviamente.
Speriamo come sempre che abbiate trovate il link
del ballo dentro al testo, e ci teniamo a farvi sapere che noi consideriamo Étienne il tipo con le scarpe
rosse: cercatelo, e lo troverete!
Per quanto riguarda la dieta dei ballerini, vi
giuriamo che in un capitolo prossimo approfondiremo la cosa per bene, spiegando
tutto. Fidatevi di noi, insomma.
Nulla… speriamo come sempre che sia tutto chiaro, e che questa
storia continui a piacervi.
Volevamo lasciarvi il gruppo che gestiamo su Facebook con altre admin, dove si
spammano le storie e si parla un po’. A panda piace fare le
bolle d’Assenzio. Se volete unirvi a noi. ~
Al prossimo capitolo. ~
papavero radioattivo.