Capitolo
2.
La piccola candela balugina triste, proiettando ombre sui muri. Fuori
il cielo
estivo è del colore delle prugne, e sarebbe riuscita a
distinguere le stelle,
se non fosse stato per la luce della luna che entrava dalle finestre.
Elsa si
ferma davanti a una di esse; c’è il lago, e ci
sono i boschi, e oltre, le
montagne, ancora baciate dalla neve. La mano che non tiene stretto il
candeliere di metallo ha uno spasmo involontario. Aveva avuto tanto a
che fare
con il freddo da bastarle una vita, ma stare lassù, non
l’aveva fatta sentire—
Confinata.
Elsa fa un passo indietro. Volta le spalle alle montagne, e al freddo.
Oltrepassa
la porta della propria stanza da letto. E’ chiusa, serrata.
Guarda dritto
avanti, e non può fare a meno di pensare che una camera da
letto non dovrebbe sembrare
una prigione nemmeno la metà di quanto lo sembra la sua.
Attraversa un’altra porta, e arriva in un altro corridoio,
quello che dà a
destra, e verso l’interno del palazzo; quello che contiene
file di volti. Non
ci sono finestre, lì, solo oscurità; il tappeto
di moquette rossa, pannelli ai
muri, carta da parati blu; ritratti incorniciati d’oro, che
la fissano con aria
accusatoria. Elsa si ferma, la schiena rivolta alla luce della luna. La
candela
trema per la brezza gelida; il respiro forma una nuvoletta di vapore.
Scuote la testa, in fretta, e arriva in fondo al corridoio, ma, come
ogni
volta—quella sera, e quella mattina, e ieri, e ieri
l’altro, e tutti i giorni
da quando era stata incoronata—deve fermarsi. Voltarsi.
Alzare gli occhi.
Quel ritratto, nel corridoio dei precedenti re e regine, non era
così enorme
come quello appeso a parecchie stanze di distanza; era una copia
perfetta,
comunque, dal pervinca del vestito della regina alla
lunghezza dei capelli del re. Sta ancora
imparando a provare sentimenti, e questo sa di—vuoto. Sposta
la candela, verso
lo spazio vuoto che un giorno avrebbe ospitato il suo ritratto. In quel
momento,
non era altro che un muro spoglio.
Elsa fa un respiro profondo, sentendo il ghiaccio insinuarsi nelle
vene. Si
volta. Respira. Conta. Ecco, vedi. Respira. Conta. Ecco. Si concentra
sulla
calda luce arancione della sua piccola candela e volta le spalle.
Dovrebbe
seguire il proprio consiglio- addormentata. Da qualche parte, se non in
camera
sua, invece di vagare—
Spera che Anna sia andata a letto.
Il dipinto che si trova direttamente di fronte è scolorito,
e vecchio,
nonostante l’assenza di luce diretta. Elsa riesce a guardarlo
con occhio
critico, perché non conosce i volti di persona, non li ha
visti piegati sopra
di lei, a sussurrarle ninnenanne spaventate all’orecchio.
Sono piuttosto
scoloriti; e lo stile dell’epoca aveva dettato
l’uso di ampie, grasse
pennellate. C’è un sentore di viola e bianchi,
eleganza—un uomo dal naso a
punta e sua moglie, più delicata. La regina Hanna e il re
Rolf, i primi sovrani
di Arendelle. Elsa ricorda la piccola figura nel libro di storia, gli
alberi
geneaologici—e lui sposò lei, e lei
generò lui, e—
La pittura ha una crepa nell’angolo sinistro, in basso;
c’è qualcosa di bianco
che splende da sotto lo sfondo blu scuro. Elsa si avvicina, la candela
che
oscilla pericolosamente, ma almeno non lo sente
più—il ghiaccio, che minaccia
di consumarla. Avvicina un’unghia alla superficie, e,
piuttosto furtiva,
controlla il corridoio. È sola, e non sa perché
si sia presa la briga di farlo,
perché se lo aspettava, eppure, mentre avvicina
l’unghia alla vernice, le
sembra quasi di commettere un sacrilegio. (La stessa sensazione che le
aveva
dato giocare a fare le tempeste di neve con la sua sorellina alle due
del
mattino.) Gratta una volta, due—una scorticatura breve,
piccola, non se ne
sarebbero accorti—
In effetti c’era qualcosa; solo che Elsa non
riusciva a capire bene cosa.
La candela si avvicina alla base di metallo, la cera
si accumula sul fondo; aveva delle cose di
cui occuparsi. Avrebbe dovuto tornarci al mattino.
"Che razza di sorella sarei," sbadiglia, con un passo indietro,
"se non seguissi i miei consigli?"
Anna era a letto, addormentata; avrebbe dovuto esserlo anche lei.
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Anna per sbaglio gli pianta un gomito nel fianco mentre lotta per
tirarsi su a
sedere.
"Woah, woah, woah, furia scatenata," rantola, cercando di recuperare
il fiato; aumenta la presa sulle sue braccia, "devi rimanere
immobile."
C’è una pausa. Il piccolo raggio di luce che
filtra da sopra, attraverso
l’apertura del crepaccio, non basta nemmeno lontanamente per
vederci, e tutto
quello che riesce a distinguere è il bagliore rossastro dei
suoi capelli. La
tiene del tutto ferma; sono praticamente petto contro petto, gambe
contro
gambe; lui manda giù un groppo alla gola. Lei dice, "Ti
rendi conto che
per me è quasi fisicamente impossibile farlo?"
"Hai messo assieme una frase, positivo."
"Perché? Perché positivo?"
"Hai battuto la testa mentre cadevi."
Anna lo guarda in modo malizioso, coprendo la distanza in una maniera
che lo fa
sentire incredibilmente a disagio e incredibilmente—beh, a
suo agio—allo stesso
tempo. Riesce a distinguere la curva netta del naso. "Come fai a sapere
che ho battuto la testa?"
"L’ho sentita."
Mette il broncio.
"No, sul serio, sembrava una roccia che colpisce una—beh,
roccia più
piccola."
"Stai paragonando la mia testa a una grossa roccia?"
"…forse?"
Lo colpisce sul petto, ma senza molta forza, e Kristoff pensa che forse
stia
sorridendo; gli piacerebbe vedere. Anna prova a muoversi di nuovo.
"No," dice, e giura a sé stesso che è per il bene di lei, e non
perché vuole chiederle di
nuovo se può baciarla, "potresti avere una commozione."
"Una checcos’è?"
"Ma ti hanno insegnato qualcosa in quel palazzo?"
"Francese."
Alza gli occhi al cielo, anche se lei non può vederlo. Apre
la bocca per dire
qualcosa, ma lei lo fa prima. "Sto bene Kristopher," e ha iniziato a
chiamarlo così, quando vuole attirare la sua attenzione, o
dargli fastidio, o
qualunque cosa, sul serio. Il suo volto è vicino.
Così vicino. Sussurra,
"Bene."
"Bene," fa eco lei; e poi piuttosto all’improvviso rimbalza
all’indietro, piantandogli un altro gomito nello stomaco.
"Voglio dire,
sarei io a doverti chiedere come stai! Stai bene? Da
quant’è che sei quaggiù?
Perché sei venuto quaggiù? Vediamo se riusciamo a
trovare la torcia, hai
qualcosa di rotto—"
Non avrebbe dovuto muoversi; una volta, Kristoff era scivolato e caduto
sul
ghiaccio, spaccandosi la testa, e si era sentito bene per
un’ora o giù di lì,
finchè erano arrivati i capogiri e il vomito- e Papi aveva
dovuto dargli un
qualche antidoto puzzolente per fargli diminuire il gonfiore alla
testa—ma,
certo, Anna aveva fatto già metà della strada per
dove credeva fosse la torcia.
Non era altro che un’ombra più scura
nell’oscurità. Esclama, "Ho visto del
ghiaccio."
"Sei caduto quaggiù per del ghiaccio? Kristoff,
c’è una montagna intera
lassù."
"No, questo era diverso," sospira, osservando la feritoia in alto.
"Vorrei—vorrei che lo avessi visto,
come—era—beh, la cosa che ci si
avvicinava di più," si ferma, "era al castello di tua
sorella."
Anna rimane in silenzio per un battito, due. Poi: "Ma quello era
ghiaccio
magico; non avrebbe potuto essercene qua sotto."
"So cosa ho visto," semplicemente dice. Ha imparato a fidarsi dei
suoi sensi, anni di arrampicate in ambienti selvaggi, e cene di
famiglia coi
troll. C’era una caverna, e le pareti erano di ghiaccio
perfetto—adesso non
riusciva nemmeno a distinguerle. La sente sospirare a due, tre metri di
distanza. "Non riesco a trovarla."
Si tira su a sedere, Prova a stare in piedi sulla gamba, e
all’improvviso si
ricorda perché non si era mosso. Sibila di dolore.
"Kristoff?" Sente Anna andare a tastoni al buio. "Che
c’è?"
Sospira, afflosciandosi all’indietro. "Niente."
"E’ ovvio che non è niente."
Non ci è abituato. Aiuto. Si sfrega gli occhi col dorso
delle mani coperte dai
guanti. Della neve gli si accumula sul naso. "La gamba. Ha preso il
peggio
della caduta." La sente incespicare in avanti al buio, solo che lei non
riesce a vedere e—"Ahi. Quella gamba, sì."
"Oops."
Sente le sue mani che gli scorrono piano su per la coscia.
"Che—che stai
facendo, perché lo stai facendo, ch—"
Si bloccano sul suo viso. "Eccoti qui." Si sistema vicino a lui.
C’è
un lungo silenzio. Poi, "Mi dispiace. Per prima. Non voglio mica,
soffocarti, o così, non è
che—è solo che mi piace passare tempo con te.
Tutto
qui. Voglio dire solo questo, intendo, hai un bel naso. Aspetta, che?"
Non sa come sentirsi. Problemino da sistemare era la definizione giusta. Allunga le
mani verso
dove crede sia la sua faccia, e i guanti le strofinano la guancia. Dice
molto
in fretta, "Anche a me piace passare tempo con te." Le parole avevano
un sapore strano. Poi lascia cadere la mano. Sobbalza quando lei parla
di
nuovo, lentamente. Riesce a sentire la pressione delle dita attraverso
i
guanti.
"Solo che, sai," sta sorridendo, lo sa, "non sul fondo di
un burrone pieno di ghiaccio perfetto."
"Non sono pazzo."
"Ceeeeeeeeeerto." Tossisce. "Dio, che mal di testa."
Una stretta allo stomaco. "Anna?"
"Che c’è?"
Non sa cosa fare. Sa che Sven sicuramente è andato a cercare
aiuto, ma nel
frattempo erano soli, e lui con una gamba fuori gioco. La mente corre,
ma la
bocca è aperta, e non fuoriescono suoni.
"Oh," Anna fa all’improvviso. La sente allontanarsi
frettolosa di un
paio di metri, e poi eccola in preda ai conati, nella neve. Si siede.
"Anna!"
"A cena, ho bevuto—il vino. Un paio di giorni fa. Tutto qui.
Sto bene, sto
bene. Almeno non ti ho vomitato addosso."
"Torna qui," fa lui, la voce tesa. La riesce a sentire che si muove a
fatica nella neve fresca, che è intatta, e piuttosto spessa.
Lei
risponde, "Voglio solo stendermi."
"Non credo sia una buona—idea, ok, certo, stenditi
lì, va bene."
Si è accoccolata contro di lui, con la faccia nella neve.
Non sa, al buio, se
ha gli occhi chiusi. La stringe più dolcemente che
può; la gamba inizia a
pulsargli. La neve riusciva ad alleviare il dolore solo pochissimo. La
sistema
contro il suo petto. "Sei—è—stai comoda?"
Non risponde.
"Anna, stai comoda?"
"Mmm."
"Sven tornerà presto, porterà delle guardie,
forse, o gli altri venditori
di ghiaccio—" Kristoff inizia a parlare, perché
non sa che altro fare, e
questa era davvero, sul serio, tutta colpa sua, perché
voleva vedere quel
ghiaccio, e perché se ne voleva andare, e prendere la
slitta, ma lei era una
principessa, la ragazza che tremava tra le sue braccia era una
principessa e
lui era—era—
Beh. Era Kristoff.
E non era molto.
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"Aprila e basta," intima a sé stessa. "Veloce.
Dai—spezza il
sigillo. Poi puoi andare a letto. Aprila e basta."
Elsa continua a fissare quella cosa davanti a lei. L’unica
sulla scrivania, e
non era stata spostata fin da quando l’attendente
l’aveva portata. La
sorprendeva il fatto che ancora non avesse lasciato un buco sul tavolo.
Il
fuoco, che ondeggia dietro di lei, scoppietta e scrocchia nel focolare;
è
ancora estate, e le serve tanto per la luce quanto per il calore. Non
ha mai
troppo caldo, o troppo freddo. È difficile sentire.
Sente qualcosa per questa lettera, comunque—odio. E non
brucia potente, caldo e
rosso come aveva letto nei libri—no, è
freddo, e lento, il morso del gelo
che sorprende i mercanti in inverno e porta con sé arti
interi.
Il sigillo è rosso sangue, con l’emblema della
famiglia reale e dietro di esso
una fenice che si alza in volo. Il simbolo delle Isole del Sud.
Doveva aprirla.
Doveva aprirla ora.
Doveva—
La porta della libreria viene spalancata di botto, e si spaventa. Un
fiotto di
ghiaccio esce fuori dalla mano tesa, e copre il soffitto di una piccola
tempesta.
"Vostra Altezza!"
"Sì, mi dispiace, stavo solo—" ha le vertigini, si
chiede cosa dire,
se la guardia le sarà ostile—è un altro
nuovo del gruppo che è arrivato, col
naso a punta e capelli biondi e occhi neri come il carbone, ma no,
benedetto
lui, rimane in silenzio—
"C’è una—renna, nel cortile. La
bardatura—sembra quella dell’… amico
della
Principessa Anna," termina, come se non fosse sicuro di come definire
Kristoff, ed Elsa, ancora cercando di recuperare il respiro, non
può fare a
meno di pensare che è proprio quello il nocciolo di tutta la
questione—
"Una renna?"
"Sola, sì."
Si acciglia. "Mostratemela."
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"Hai freddo?"
Kristoff aveva appena finito di raccontare una lunga, complicata storia
sulla
volta in cui i troll avevano provato a insegnargli a ballare, e come
aveva
finito, invece, col dare fuoco a mezza foresta. Anna pensa che le
sarebbe
piaciuta di più, se non le avesse fatto tanto male la testa,
o se non le fosse
venuto da vomitare. Non voleva vomitare addosso a Kristoff. Sarebbe
stato
scortese. Qual era la domanda?
"Hai freddo?" Kristoff ripete. Lo sente scuoterla, solo un pochino.
Il suo viso è accoccolato tra il collo e la spalla di lui.
Il suo braccio, che
la avvolgeva protettivo, e la stringeva a lui, doveva aver perso la
sensibilità. Come è romantico, pensa, piuttosto
sfocatamente, sarebbe stato
tutto così romantico, se non avesse avuto la nausea.
"No," fa piano. È come parlare con la bocca piena di miele.
Deve
faticare per raggiungere i pensieri, e tutto sembra come, cioè, scivolare
fuori.
"No, mi sento—al caldo. Non—non stavo al caldo da
un po’."
"Quanto tempo è un po’?"
"Oh," sbadiglia, "almeno una settimana."
"Resta sveglia, Anna."
"Sono sveglia."
"Settimana?"
"Sì, la sento la mano."
"No, che vuoi dire, che è una settimana che non stai al
caldo?"
Sente il bisogno di sussurrare, così lo fa, vicino al suo
orecchio, e lo guarda
tremare, "Non devi dirlo a Elsa."
"Non lo farò."
"Fin da quando mi ha congelata, ho avuto—freddo." Sbadiglia
di nuovo.
"Ma adesso no."
"Ridicolo. Siamo sottoterra, coperti di neve, come fai a—"
"Shh, stupido," sospira, e le si chiudono gli occhi. "Sto al
caldo."
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"