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Autore: Lady Vibeke    07/04/2014    1 recensioni
– Non hai fatto in tempo a mettere piede qui dentro e già hai seminato scompiglio. –
Lucius rise.
Shin era apparso accanto lui dal nulla, silenzioso come suo solito.
– Non lo porto io, è lo scompiglio che segue me. –
L’altro arricciò appena le labbra.
– Questione di punti di vista, suppongo. Hai già visto Regan? –
La fronte di Lucius si increspò. La sua intenzione era stata di andare a cercarla immediatamente, ma quando era finalmente riuscito a trovare i ragazzi Edelberg, lei non c’era, quindi scosse la testa.
– È nervosa? – si informò poi.
L’amico lo scrutò di sottecchi, il nero della maschera e quello delle iridi a malapena distinguibili, non fosse stato per lo scintillio delle luci che si rifletteva negli occhi.
– Frustrata, più che altro. Ma c’era da aspettarselo. –
Lucius annuì.
Immaginò Regan costretta a infiocchettarsi come una bambola e a comportarsi da fanciulla docile e compita e si disse che avrebbe dovuto essere con lei in un momento simile.
– Alla mia cerbiattina non piace sentirsi in gabbia. –
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. VERITÁ E BUGIE

 

You believe, but what you see?

– Amaranth, Nightwish –

 

 

Ogni domenica, come ogni vedova che si rispettasse, Madame Carlyle si recava al cimitero appena fuori Medilana per onorare la memoria del defunto marito.

Portava sempre con sé un mazzo di fiori freschi e una moneta d’argento da consegnare al figlio del custode affinché si premurasse nella settimana successiva di tenere in ordine le aiuole che circondavano la cappella. Non possedeva il titolo di lady, poiché né nelle sue vene né in quelle del suo povero marito c’era mai stata una sola goccia di sangue nobile, ma si compiaceva ogni volta di vedere che non c’era tomba di famiglia nobile che reggesse il confronto con quella dei Carlyle.

Il capo coperto da un velo scuro, la donna girava la chiave nella serratura che chiudeva il piccolo cancello di ferro e si inginocchiava dinnanzi alla lapide del suo Hathol e lo compiangeva in silenzio, e tutti coloro che passavano di lì provavano ammirazione e compassione quella moglie così devota.

Era una triste storia, la sua, perché il suo amato consorte, ormai quarant’anni addietro, era stato incarcerato sotto accuse gravissime e, dopo un processo lampo, giustiziato di fronte a tutta la città.

Madame Carlyle aveva presenziato all’esecuzione e aveva ascoltato il marito professarsi innocente fino al suo ultimo istante di vita e mai per un solo istante lo aveva abbandonato. Mai lo aveva creduto colpevole.

Agli occhi di tutti era una donna forte, nobile, se non nel sangue, almeno nello spirito, e tutte le matrone di Medilana concordavano che era stato ammirevole da parte di una vedova ancora relativamente giovane, per di più così ricca e piacente, non cercarsi un nuovo marito.

Madame Carlyle, dal canto suo, sminuiva assiduamente tutte queste lodi e, anzi, cercava di spiegare che non era uno sforzo virtuoso, per lei, restare fedele al suo primo e unico sposo, bensì qualcosa che le imponeva il cuore.

Con un sospiro affranto, proprio mentre due anziane nobildonne passavano di lì, si portò le dita alle labbra e le posò sull’ovale di vetro in cui era stato impresso il volto di Hathol e si lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo.

– Povera creatura – sentì sussurrare una delle due vecchiette. – Un amore così saldo e genuino, niente figli che la consolino… –

– Se solo quella megera di mia nuora mostrasse la metà di questa devozione per il mio ragazzo… – borbottò l’altra, e a Madame Carlyle parve quasi di vederle scuotere tristemente la testa mentre la compativano.

Stava per mormorare, come di consueto, qualche parola di cordoglio, quando avvertì un’improvvisa sensazione di calore alla mano sinistra.

Ritrasse la mano di scatto e se la nascose al di sotto della cappa scura. Si alzò rapidamente, tanto da suscitare un’esclamazione di sorpresa nelle due signore che la osservavano da fuori.

– Ve ne andate presto, quest’oggi, cara – disse una delle due, evidentemente incapace di tenere qualsivoglia pensiero per sé.

Madame Carlyle le riconobbe entrambe: facevano parte della vecchia nobiltà terriera di Corterra e le aveva incontrate spesso in città. Due pettegole senza ritegno.

Sorrise cordialmente e chinò il capo mesta.

– Purtroppo impegni urgenti mi chiamano altrove. –

– Che genere di impegni? –

Il sorriso sulle labbra di Madame Carlyle si pietrificò mentre lei si sforzava di tenere a bada l’impazienza.

– Mi sono iscritta a un circolo del cucito – inventò su due piedi. – Sapete, per ingannare la solitudine… il mio Hathol mi manca terribilmente. –

Sui volti delle due apparve immantinente un’espressione solidale:

– Come vi capisco! Il mio Meldon è mancato da quasi mezzo secolo, ormai, e ancora non… –

– Vogliate perdonarmi, signore, ma ho una certa premura – tagliò corto lei e le due, benché piuttosto stranite, si affrettarono a congedarsi e allontanarsi parlottando sottovoce.

– Circolo del cucito? Sul serio? –

La donna si voltò nell’udire quella voce dalla cadenza insopportabilmente flemmatica e sfacciata e non si stupì affatto quando, nell’ombra tra la cappella e i cipressi che la contornavano, intravide una figura maschile appoggiata al muro a braccia conserte e due occhi verdi che scintillavano divertiti.

– Molto toccante la scenata della vedova affranta – proseguì lui, imperterrito. – Davvero, mi sono commosso. – Finse di asciugarsi una lacrima inesistente e lei, dopo essersi accertata che non ci fosse nessuno a guardare, gli sferrò un calcio sugli stinchi.

– Chiudi quella tua maledetta bocca e spiegami cosa diavolo ci fai tu qui! –

Lui sollevò le spalle. Considerò brevemente la distesa non esattamente ordinata di lapidi e croci alternata a strisce di prato verde che costituiva il cimitero

– Niente di che, mi divertivo a spiarti. È interessante vedere fino a che punto una donna riesca a fingere per un uomo di cui non le è mai importato nulla. –

Lei digrignò i denti, ma si costrinse a mantenere la calma. Avevano altro a cui pensare, per il momento.

– Dobbiamo sbrigarci. Siamo stati convocati – sbottò, assicurandosi con circospezione che nessuno fosse nelle vicinanze.

– Oh, sì – annuì lui e sollevò la mano sinistra per osservare con vago interesse l’anello d’oro che portava all’anulare. Lei ne aveva uno identico. – Me ne sono accorto. –

Si incamminarono verso l’uscita del cimitero, l’uno a una certa distanza dall’altra, come se non si conoscessero e non avessero alcunché a che vedere l’uno con l’altra. Lei aveva la sua carrozza ad attenderla, lui le passò accanto mentre saliva, diretto verso la periferia.

– A più tardi, Niamh. –

Lei lo maledisse interiormente, giurando a sé stessa che avrebbe trovato il modo di fargli passare quel suo atteggiamento insolente, poi diede segno al cocchiere che poteva partire.

E comunque Arith si sbagliava: non era vero che a lei non importava nulla del suo defunto marito. Gli era profondamente grata per essersi fatto giustiziare per un crimine che era stata lei a commettere.

 

 

L’infuso sapeva di erbe amare e il suo retrogusto acre bruciava giù per la gola in modo davvero sgradevole. Era un intruglio da bere a occhi chiusi, perché il solo aspetto denso ed eterogeneo del liquame che riempiva la tazza sarebbe bastato a ribaltare lo stomaco anche dell’animo più crudo.

Una smorfia nauseata storse la bocca coraggiosa che aveva appena bevuto.

– Assolutamente disgustoso. Vi ringrazio. –

Labbra rosse sorrisero di rimando con modestia.

– È un piacere, Lucius. –

Geira sembrava una bambina, accoccolata sulla poltrona a gambe incrociate, la veste bianca che sembrava tutt’uno con lei. I capelli sciolti le gocciolavano acqua sulle spalle, ma la temperatura era talmente mite non c’era alcun bisogno di preoccuparsene.

Per quanto giovane potesse essere, la Somma Sacerdotessa sosteneva a pieni meriti il suo ruolo e talvolta faceva anche più del dovuto. Come nel caso di Lucius, a cui di tanto in tanto preparava un filtro che lei stessa consacrava per aiutare il suo corpo a recuperare meglio le energie quando lui faceva ritorno da missioni particolarmente impegnative. Era un loro piccolo segreto e non era necessario che terzi ne venissero a conoscenza.

– Sei più provato del solito – osservò la sacerdotessa. – Forse è il caso che te ne prepari dell’altro – aggiunse, accennando al boccale vuoto.

Lui fece un gesto incurante.

– Non è il caso, mi sento già meglio. Il Coordinatore Blackthorne ci sta prendendo gusto a coinvolgere il sottoscritto per certe operazioni. –

Geira sembrava scettica.

– Blackthorne che chiede la tua collaborazione? Per che genere di operazione, se mi è concesso chiederlo? –

Oh, nulla di che… quel genere di operazioni in cui ne esci sfinito e malconcio, ma soddisfatto. Se ne esci. Lo pensò, ma evitò di esternarlo.

– Questioni leggere, tipo sterminare bande di sicari o penetrare in qualche covo di Ladri di Anime… nulla di che. – Si gettò un’occhiata alle braccia piene di contusioni e bruciature e scrollò allegramente le spalle. – Penso stia cercando di uccidere me, in realtà. –

Lo disse per scherzare, ma il guizzo che ebbero gli occhi di Geira gli comunicò che per lei la faccenda era molto più seria.

– Lady Soile è a conoscenza di questo particolare? –

Lucius si stiracchiò le braccia sopra la testa, sgranchì il collo e la spina dorsale, infine prese una sedia e vi prese posto al contrario, avvolgendo lo schienale con le braccia.

– Non è necessario. –

Sapeva che la sacerdotessa non si sarebbe lasciata ingannare dall’apparente leggerezza del suo tono. L’ultima cosa che lui voleva era che Soile scoprisse tutto e gli proibisse esplicitamente di partecipare alle operazioni organizzate da Blackthorne o, peggio ancora, che vietasse direttamente a Blackthorne di coinvolgerlo. Avrebbe senz’altro apprezzato che lei si preoccupasse per lui, ma non avrebbe mai potuto sopportare l’umiliazione.

– Come sta Regan? – gli domandò allora Geira. Si era portata le ginocchia al petto e lo scrutava attenta con i suoi occhioni verde scuro.

Lucius le era molto affezionato: l’aveva vista il giorno della sua investitura, una ragazzina sparuta ma dallo sguardo determinato, e l’aveva guardata crescere mentre lui stesso stava crescendo, da ragazzino a giovane uomo, e spesso aveva cercato il suo consiglio durante i suoi primi anni nella Lega, quando la sua vita di Ladro di Anime era ancora una ferita fresca sulla sua pelle e tutto ciò che lui voleva era pagare il suo debito verso colei che lo aveva sottratto alla pena di morte. Geira era stata il suo aiuto più prezioso in quei momenti, una confidente e consigliera che gli aveva permesso di raggiungere dei compromessi con sé stesso che lui temeva non avrebbe mai trovato.

Ricordava ancora le sue parole, ora come dieci anni prima, come se gli fossero state incise direttamente nel cuore.

– Non devi temere per i tuoi peccati, poiché senza peccato l’anima non ha modo di temprarsi e imparare ciò che è giusto e sbagliato. La vera forza non appartiene a chi non sbaglia mai, ma a chi, avendo sbagliato, sa riconoscerlo e porvi rimedio. –

Prese dal tavolo un bicchiere di liquore ai frutti di bosco per scacciare il cattivo sapore del filtro e se lo scolò mentre rifletteva su ciò che gli aveva chiesto Geira: non vedeva Regan da un po’, ma si era premurato di informarsi regolarmente su di lei e sapeva che, nel bene e nel male, stava imparando a costruirsi una sua quotidianità. Era molto affezionato a lei, anche se talvolta era lui il primo a stupirsene, e quella piccola impertinente gli mancava. Si era ripromesso che, non appena avesse avuto un briciolo di tempo, sarebbe passato a trovarla. Solo gli sarebbe piaciuto farlo senza troppi lividi addosso.

– Regan sta bene, suppongo. –

La giacca di Lucius era abbandonata su una sedia, le maniche della camicia che indossava arrotolate fino ai gomiti.

Sarebbe stato divertente spiegare la situazione, se qualcuno fosse per caso entrato proprio in quel momento: non c’era niente di più sconveniente di un uomo dalla reputazione ambigua infiltrato di nascosto nelle stanze di una sacerdotessa vergine. A una qualsiasi delle consorelle di Geira sarebbe venuto un colpo, a vederli così, lei un veste da camera, lui decisamente a suo agio, e avrebbe sicuramente gridato alla scandalo, facendosi sentire fino al villaggio più vicino. Gli alloggi delle sacerdotesse ordinarie e delle novizie, per fortuna, si trovavano in un edificio separato da quello della Somma Sacerdotessa e sebbene alcune di esse dimorassero nel piccolo palazzo di Geira, nessuna si sarebbe sognata di salire fino ai piani superiori a disturbare il sacro riposo della loro superiora.

Non era stata Geira a scegliersi quella vita e Lucius aveva spesso l’impressione che adempiesse ai propri doveri con una sorta di pesantezza nel cuore, perché c’era una vita, al di fuori del Tempio della Luna, che non le era concesso vivere. Se nei reami degli umani le forme di potere politico avevano indotto la gente a crearsi divinità su misura per le proprie necessità – déi che si potessero pregare, che dessero conforto e guidassero, che si potessero comprare con sacrifici e voti di qualsivoglia tipo – il Mondo Occulto restava un territorio di isolata consapevolezza che non c’era preghiera che potesse mutare il corso degli eventi se non la forza di volontà personale. Il libero arbitrio era un dono e una condanna e non lasciava capri espiatori a cui addossare le colpe dei mali del mondo, se non i singoli individui.

Talvolta, tuttavia, la Madre stessa sceglieva di intervenire per aiutare il suo creato a non soccombere nei suoi stessi errori. C’erano segni e avvertimenti che inviava nei più svariati modi, moniti che bisognava saper leggere e accogliere, come i marchi naturali con cui venivano elette le guide spirituali, segni impressi nella loro pelle che comparivano inaspettatamente quando la Madre stessa riteneva giunto il momento e che li designavano come legittimi eredi dei Sommi Sacredoti che li avevano preceduti.

Il marchio di Geira – una voglia simile a una luna crescente dietro all’orecchio sinistro – era apparso quando lei era ancora giovanissima. Poco più che bambina, era stata portata alle Vergini della Luna affinché venisse istruita e preparata a diventare quel che la Madre aveva scelto per lei.

Ora e era vincolata al suo voto, e lo sarebbe stata fino a che una nuova prescelta non avesse ricevuto il marchio ed era pressoché impossibile prevedere quando ciò sarebbe successo. C’erano state Somme Sacerdotesse la cui carica era durata per tutta la vita, altre, invece, che avevano ricoperto il ruolo solo per pochi anni.

Geira aveva dato gran parte dei suoi anni migliori alla Madre e Lucius iniziava a domandarsi se mai la Madre le avrebbe dato qualcosa in cambio.

– Desidererei parlare con lei – disse Geira, d’un tratto pensosa, lo sguardo perso fuori dalla finestra, dove la notte era chiara e la luna alta nel cielo. – Indagare nel suo profondo, capire se c’è qualcosa che possiamo fare. –

La prima volta che Geira e Regan si erano incontrate era stato pochi mesi prima, in circostanze tutt’altro che liete. Era stato quando, dopo un attacco che li aveva messi tutti in pericolo, avevano scoperto qual era il segreto legato a Regan e alla gente mascherata che le dava la caccia, il motivo per cui Lord Desmond la aveva tenuta segregata in segreto nella sua dimora per tanti anni.

Il nucleo di Male che lei custodiva.

L’aria che entrava dalla finestra era mite e piacevole da sentirsi sulla pelle, ma un brivido formicolò lungo la schiena di Lucius.

– Il testo parla chiaramente – disse, accennando al tomo che troneggiava al centro del tavolo, e trovò le sue stesse parole insopportabili. – L’Incarnazione deve morire affinché il male che custodisce possa essere estirpato. È rinchiuso all’interno della sua anima, non c’è altro modo. –

Era una magia antica di secoli e fino ad ora, nonostante gli sforzi, non erano riusciti a venire a capo di una soluzione che non prevedesse la morte dello scrigno vivente che custodiva la pericolosa essenza di male puro, ossia Regan, nel caso del secolo corrente.

– Permettetemi comunque di avere qualche colloquio con lei, se lo consentirà. Forse c’è altro che potrei capire. –

Se suo zio lo consentirà, corresse mentalmente lui.

– Gliene parlerò, ma non adesso. Non voglio turbarla più di quanto già non lo sia. La sua vita è fin troppo frenetica, al momento. –

Un mondo da conoscere, comportamenti da imparare, una storia da ricostruire… decisamente non aveva bisogno di altri grilli per la testa. Una volto sciolto qualche nodo, si sarebbero occupati del resto.

Un grosso gatto rosso balzò in grembo a Geira, spuntando da chissà dove. La ragazza lo accolse con un piccolo sobbalzo di stupore. Le sue dita si immersero nella morbidezza della pelliccia e subito il felino iniziò a fare le fusa, offrendo il muso alle sue carezze. Quando lei tornò a guardare Lucius, sorrideva.

– È molto nobile da parte tua preoccuparti tanto per lei. –

Lui, che non riusciva a ricordare una sola cosa che in vita sua avesse fatto per puro spirito di nobiltà, non riuscì a trattenere una piccola risata.

– La gente è troppo abituata ad attribuirmi virtù che non mi appartengono, Venerabile Geira. –

– O forse, Lucius, sei tu a non volerne portare il peso. –

Le vide un’insinuazione nello sguardo, qualcosa di simile a una beffa amichevole, ma non priva di una nota di rimprovero.

– Mi biasimereste, per questo? – La tranquillità in cui lui costrinse quella risposta era venata da un rivolo di angoscia. – Conoscete la mia storia, e siete una dei pochi. Sapete quanto siano ricurve le spalle della mia anima. –

Un alito di vento passò ad accarezzare le molte candele che ardevano ovunque nella stanza. Le loro fiamme oscillarono dolcemente, spingendo le ombre a fare lo stesso. L’aria sapeva di erba umida e incenso.

– Abbiamo tutti le nostre colpe. Solo chi non ha coscienza non risente del loro peso. –

Lucius tacque. Non sapeva come spiegarle che non erano le colpe in sé ad angustiarlo, bensì l’immagine che esse potessero dare di lui. Infinite volte si era chiesto se Soile si fosse mai pentita di aver risparmiato la vita a un assassino come lui – perché, anche se non aveva ucciso che anime corrotte, sempre un assassino restava – e che cosa potesse mai vedere, lei, quando lo guardava.

Forse lo stesso assassino di un tempo, passato da un lato all’altro degli schieramenti, forse un pentito che si dedicava anima e corpo a scontare le sue pene.

Il fatto era che non c’era alcuna azione di cui Lucius si fosse mai pentito. Se adesso era lì, a dare la caccia a quelli che una volta erano stati i suoi compagni, era solo perché qualcuno, senza un apparente motivo se non la personale pietà, aveva voluto concedergli una possibilità.

Gettò uno sguardo al libro sul tavolo – Ontologia del Male – e sospirò.

– Che cosa ne devo fare di questo? –

– Serbalo – rispose Geira senza alcuna esitazione. – Nel luogo più sicuro che conosci. Distruggerlo non servirebbe a niente. Solo uno sciocco distruggerebbe un simbolo privo di essenza nel tentativo di eliminare l’essenza stessa. Forse c’è ancora qualcosa che possiamo imparare da queste pagine. –

Le sue dita magre si allungarono verso le pagine gialle del tomo come se avessero voluto sfiorarle, ma non lo fecero.

– Lo posso affidare a voi? Le terre del Tempio sono consacrate. Non c’è mano empia che possa violare questo luogo. –

Lei soppesò la proposta e Lucius si chiese se non fosse stato inopportuno da parte suggerire qualcosa del genere. Il Tempio della Luna, dopotutto, era un luogo sacro, che onorava e celebrava la Madre e i suoi prodigi, e quel manoscritto immondo era quanto di più dissacrante si potesse immaginare. La decisione della sacerdotessa, tuttavia, lo stupì:

– Lo conserverò nelle mie stanze personali. Lascerò a te la chiave del suo scrigno. –

– A me? – fece lui, spiazzato.

– Le mie consorelle non devono nemmeno immaginare cosa c’è custodito in questo libro. La virtù non è che un mero ideale: forte nelle parole e debole nella carne. Non voglio esporre nessuno a inutili tentazioni. Nemmeno me stessa. –

Lucius la ammirò per l’umiltà che ancora una volta dimostrava. Conosceva dozzine di persone meno influenti di lei che non avrebbero avuto la stessa disinvoltura nel confessarsi timorosi di qualche debolezza.

­– Certo, lo comprendo. Vi ringrazio. –

Un’ombra comparve sul davanzale della finestra, così nera che sembrava essersi generata direttamente dall’oscurità del cielo. Rok, il corvo di Lucius, piegò la testa di lato, un topo esanime stretto tra gli artigli. Il gatto tra le braccia di Geira lo considerò con scarso interesse.

– Il tuo Guardiano è tornato dalla caccia, vedo. –

– Il che mi ricorda che si è fatto veramente tardi ed è ora che io vi lasci riposare – Lucius si alzò e iniziò a srotolarsi le maniche lungo le braccia. – Avrete ancora molto da organizzare per le celebrazioni dell’Equinozio. –

C’erano quattro festività maggiori osservate nelle Sette Terre e corrispondevano alle quattro stagioni di cui la Madre si vestiva durante l’anno. Per tradizione, l’Equinozio di Primavera veniva festeggiato di giorno, con grandi banchetti, giochi e danze all’aperto, e nelle campagne sacerdoti e sacerdotesse consacravano i campi e i corsi d’acqua che li avrebbero irrigati.

Per il Solstizio d’Estate, le feste duravano tutta la notte e le famiglie usavano recarsi al tempio con due monete: una da far benedire simbolicamente affinché la prosperità dei mesi più caldi si prolungasse anche in quelli più freddi, l’altra da offrire in elemosina per chi di monete non ne aveva affatto.

L’Equinozio d’Autunno era dedicato alla vendemmia e alla raccolta delle provviste per il periodo invernale e veniva festeggiato in modo più rilassato rispetto alle altre ricorrenze: la gente si incontrava nelle piazze e nelle taverne e brindava alla salute dei propri cari con fiumi di vino e sidro e da tutti i focolari le castagne arrostite spargevano il loro profumo per le città.

Infine, il Solstizio d’Inverno era forse la data più importante e più attesa dell’anno: durante la Vigilia le famiglie si riunivano per tradizione sotto al tetto del capostipite più anziano e dopo la cena tutti si scambiavano doni in segno di buon augurio per il nuovo anno che presto sarebbe giunto; il mattino seguente era di rito la visita al tempio per onorare la Madre e affidarle i propri desideri per il nuovo anno.

C’era un desiderio, in particolare, che Lucius aveva covato negli ultimi anni, ma non aveva mai osato portarlo fino ai piedi dell’altare di un tempio, poiché sapeva bene che c’erano desideri che, semplicemente, non avrebbero mai potuto incontrare la realtà.

­– Porterai da me la piccola Regan? – gli disse Geira quando, infilata la giacca, fu pronto ad andarsene. Rok gli volò sulla spalla e lui si avvicinò alla porta.

– Appena mi sarà possibile, lo prometto – aggiunse poi.

Fuori i corridoi erano bui, perché nessuno si aspettava che qualcuno potesse aggirarvisi nella notte inoltrata in cui avevano finora chiacchierato. Le lampade spente, le porte chiuse, il silenzio disteso come una morbida coperta ovunque l’orecchio riuscisse a tendersi: per fortuna lì le pareti non erano d’acqua come quelle del Tempio.

Fece per uscire e i suoi passi non produssero alcun rumore. All’occorrenza, se qualcuno per sbaglio fosse uscito da qualche stanza, sarebbe anche stato in grado di celarsi nelle ombre e fondersi con esse fino all’invisibilità, ma sapeva che non sarebbe stato necessario.

– Stai ancora cercando la terza copia e le parti mancanti di quel manoscritto? –

Lucius si bloccò con la mano sulla maniglia. La prima copia, incompleta, la aveva ottenuta attraverso canali non esattamente leciti e non aveva mai avuto modo di scoprire da dove fosse stata recuperata; la seconda, invece, era arrivata da nientemeno che il covo della sua amica Angina, un tempo rifugio dei Veglianti, la setta che aveva reso Regan ciò che era. Chiunque possedesse il resto era un potenziale nemico.

– Sono più che convinto che Lord Desmond sia in possesso dell’una o dell’altra cosa. Resta da capire dove si trovi il resto. –

– Possibilità che sia in possesso della Lega? –

– Nessuna. In un modo o nell’altro sarei riuscito a scoprirlo. –

– E sono sicura che hai già avuto modo di fare le tue ricerche negli Archivi di Restrizione di Medilana, dico bene? –

Lui si limitò ad arricciare furbamente le labbra.

– Hai pensato di cercare al Tempio del Sole? –

– Il Tempio del Sole? –

– È lì che all’epoca della Monarchia venivano raccolti i testi proibiti requisiti alle sette. –

Lucius aggrottò le sopracciglia, arretrò di un passo e accostò la porta.

– Credevo venissero bruciati. –

– Ufficialmente. Ma non penserai davvero che la Corona possa aver fatto incenerire le armi più potenti che avesse contro i suoi nemici, vero? È un’arrogante ingenuità che ci si potrebbe aspettare dal Coordinatore Generale Reis, ma non certo dai Leljen. Negli archivi sono conservati ancora tutti i registri delle confische e delle persone indagate. –

C’erano scarse probabilità che riuscisse a trovare qualcosa: le radici dell’Ordine dei Veglianti risalivano a più di un millennio prima ed erano state così ben insabbiate che nemmeno i più autorevoli storici della Lega e della Domus Aurea ne avevano mai sentito parlare, ma poteva esserci qualche indizio, da qualche parte, che a un occhio ignaro sarebbero facilmente sfuggiti.

– Come posso avere accesso a quei volumi? –

– Non puoi – replicò ovviamente Geira nel più neutrale dei toni. – Nessuno può: il Sommo Sacerdote custodisce la sola chiave che apre le segrete e ha la severa consegna di non consentire a nessuno di accedervi. – Il suo sguardo, però, si accese di una luce misteriosamente sorniona. – Ma forse sarà disposto a scendere a compromessi… –

 

 

Sprofondato nella poltrona più comoda e lussuosa su cui avesse mai avuto il piacere di sedere, Arith si rigirava il suo pugnale tra le dita, annoiato, e ascoltava i passi nervosi che il Priore Genesis disseminava lungo tutta la discreta lunghezza della sala.

Pensò che non c’era da sorprendersi se Niamh fosse una tale spina nel fianco: abituata a quella casa principesca e alla sua bella vita comoda, doveva essere una bella seccatura, per lei, scontrarsi con gente che non era disposta ad assecondarla in qualunque cosa.

Si riunivano quasi sempre lì, ormai, dato che la loro base nelle catacombe di Medilana era stata ormai scoperta. Bisognava ammetterlo: Luciferus – o Lucius, come preferiva farsi chiamare adesso – poteva sembrare uno sprovveduto, ma lui e soci erano più in gamba di quel che i Veglianti avessero stimato. Arith, naturalmente, si chiamava fuori da quel giudizio affrettato. Era un Ladro di Anime da metà della sua vita e su di lui ne aveva sentite tante, di storie, e una cosa in comune la avevano tutte: lo dipingevano come il più scaltro dei furfanti, abilissimo su molti piani, ma in particolare a fare il proprio interesse.

No, decisamente Arith non aveva mai commesso l’errore di sottovalutare Luciferus.

La proprietà di Niamh era immersa in una macchia di vegetazione a due passi dalla capitale di Corterra, isolata quando bastava per accogliere una manciata di ospiti di eterogenea estrazione che in una zona densamente abitata avrebbero sicuramente dato nell’occhio.

La casa, al momento, sembrava deserta. La servitù era stata congedata per l’intera giornata e la strada era troppo lontana perché qualche rumore potesse giungere fin lì. C’era solo il silenzio, e il ticchettio metallico di una pendola nella stanza attigua.

– Alla luce delle peculiari condizioni in cui ci troviamo a dover operare – stava dicendo Genesis, e dalla tensione delle sue parole si riusciva a intuire quella dei suoi nervi. – È necessario elaborare una strategia diversa da quelle adottate dai nostri confratelli nei secoli che ci hanno preceduto. –

Frustrazione e rabbia. Comprensibilmente, pensò Arith, dato che non era mai accaduto prima di allora che qualcuno interferisse con l’operato del loro Ordine. Avevano ormai la certezza che Lord Ganus Desmond avesse messo le mani su informazioni abbastanza rilevanti da aver compreso che cosa fosse la ragazzina dai capelli rossi. Ne sapeva abbastanza, anzi, da essere riuscito ad appropriarsi di lei appena prima che potessero farlo loro stessi.

I quattro compagni di Arith davano la colpa a Sharlit e al suo tradimento se avevano fallito nel loro compito di eliminare la bambina, e forse era anche così, ma Arith aveva la netta sensazione che Desmond sarebbe comunque riuscito ad appropriarsi di lei, in un modo o nell’altro.

Già il fatto che non l’avesse semplicemente uccisa per impossessarsi del potere che lei serbava la diceva lunga su quanto lui effettivamente sapesse.

– Perché ci stiamo dando tanta pena per una ragazzina? –

– Perché, Arith, in caso non te ne fossi ancora reso conto è un pericolo per il mondo intero – berciò Niamh con il suo solito fare superiore.

Arith non ne fu affatto impressionato.

– Che male ha fatto? Ha distrutto la Corte, d’accordo. Anziché ucciderla, dovremmo darle una medaglia. –

– Deve essere distrutta, prima che sia lei a distruggere noi! –

– Mi chiedo se valga veramente la pena… –

Alioth sollevò lo sguardo dal suo calice di vino e l’occhio destro, l’unico che gli restava, saettò verso il ragazzo.

– Se non lo facessimo, il Male dominerebbe il mondo e sarebbe il caos. –

– E come lo sappiamo, se da mille anni nessuno ha mai provato a fare diversamente? –

Il pugno di Genesis si abbatté con violenza sul tavolo, facendo sobbalzare tutto ciò che vi era posato sopra.

– Stai esagerando, ragazzo! – sibilò in faccia ad Arith. – Non dimenticare che cosa hai giurato quando ti abbiamo scelto! –

Dimenticare…

Arith avrebbe riso, se solo la situazione non fosse stata così tesa. Aveva barattato la sua vita per pura arroganza: per un’occasione di approfondire le sue conoscenze, per poter aver accesso a fonti di cultura che la sua povertà non gli aveva mai concesso, e non c’era stato un singolo momento in cui se ne fosse pentito.

– Perdonate l’interruzione, sapete che sono un polemico. –

– Non c’è alcunché da polemizzare: il destino di tutti è nelle nostre mani e non c’è prezzo che non valga la pena di essere pagato. –

Arith non ne era del tutto sicuro, ma decise che la cosa non lo riguardava. Era curioso per natura e fin da piccolo aveva sempre messo in discussione qualsiasi cosa. Non era uno di quelli che si accontentavano di una spiegazione nero su bianco: lui voleva vedere le sfumature di grigio, tutte le sfumature di grigio, ed era abbastanza testardo da non mollare finché non le aveva scovate tutte.

Per stavolta, però, accantonò la questione e non ne fece più parola, in nome della pace comune e del suo stesso benestare.

Non aveva importanza, comunque: uccideva persone da tutta la vita e una in più o una in meno non avrebbe fatto alcuna differenza.

   
 
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