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Autore: Lady Vibeke    12/03/2014    4 recensioni
– Non hai fatto in tempo a mettere piede qui dentro e già hai seminato scompiglio. –
Lucius rise.
Shin era apparso accanto lui dal nulla, silenzioso come suo solito.
– Non lo porto io, è lo scompiglio che segue me. –
L’altro arricciò appena le labbra.
– Questione di punti di vista, suppongo. Hai già visto Regan? –
La fronte di Lucius si increspò. La sua intenzione era stata di andare a cercarla immediatamente, ma quando era finalmente riuscito a trovare i ragazzi Edelberg, lei non c’era, quindi scosse la testa.
– È nervosa? – si informò poi.
L’amico lo scrutò di sottecchi, il nero della maschera e quello delle iridi a malapena distinguibili, non fosse stato per lo scintillio delle luci che si rifletteva negli occhi.
– Frustrata, più che altro. Ma c’era da aspettarselo. –
Lucius annuì.
Immaginò Regan costretta a infiocchettarsi come una bambola e a comportarsi da fanciulla docile e compita e si disse che avrebbe dovuto essere con lei in un momento simile.
– Alla mia cerbiattina non piace sentirsi in gabbia. –
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. IN NOME DI UN RICORDO

 

When you’ve loved and you’ve lost someone close to you
You know what it feels like to lose

– Not Like The Other Girls, The Rasmus –

 

 

C’era il mare, lì a Falassar, pacifica cittadina agli estremi limiti meridionali della Terra di Astereis che sorgeva, in effetti, proprio in prossimità di una delle spiagge più belle di tutte le Sette Terre.

L’odore salmastro e lo spumeggiare delle onde arrivavano fin lì, in cima all’altura dove sorgeva, ben isolato, il palazzo imponente dei Dresden.

La giornata soleggiata illuminava generosamente la facciata di pietra bruna attraverso sprazzi di nuvole bianco latte che fluttuavano nel blu del cielo sospinte da un piacevole venticello tiepido. C’era tutto un altro clima, al Sud: mentre a Norden l’inverno ancora non aveva del tutto ceduto il passo alla primavera, lì sembrava già estate.

Lucius smontò da cavallo e si fermò davanti ai cancelli sbarrati. Dall’altra parte, una sentinella sorvegliava il passaggio, come se i residenti si aspettassero attacchi da parte di orde nemiche da un momento all’altro.

– Fatevi riconoscere! –

La guardia aveva usato un tono perentorio, e la sua mano era preventivamente accostata all’elsa della spada agganciata alla cinta. Indossava una livrea nera e gialla, i colori dei suoi signori.

Lucius rizzò il collo, cosicché la Stella che portava potesse brillare alla luce del sole, poi sorrise cortese:

– Lucius Henker di Kauneus. Presumo di essere atteso. –

La guardia attenuò subito l’atteggiamento ostile. Lo fece entrare, ma non disse niente.

Lucius attraversò il viale che conduceva all’ingresso rispolverando una a una le differenze con lo stile dei palazzi del Nord: i Dresden erano marchesi, o lo sarebbero stati se i titoli nobiliari fossero stati ancora ufficialmente in vigore, ma le tradizioni erano dure a morire e loro, come quasi tutti gli altri, ci tenevano a comportarsi e ad essere trattati come tali, e la loro dimora era un degno vessillo della loro condizione di privilegiati.

Le piogge erano scarse e lievi, da quelle parti, quindi i tetti erano semplici e lineari, privi delle pendenze aguzze e dei pinnacoli che ornavano quelli delle Terre settentrionali. La ricchezza, tuttavia, aveva trovato altre vie d’espressione: nei rivestimenti mosaicati dei tetti, ad esempio, e negli stucchi lavorati che facevano da decorazione alle ampie facciate, che al Nord sarebbero stati irrimediabilmente rovinati dalla prima gelata. L’uso dei ballatoi e delle terrazze, inoltre, era strettamente limitato ai piani inferiori, preferendo, in quelli superiori, finestre strette chiuse da scuri pesanti, che aiutassero a mantenere la frescura nei periodi più caldi.

C’era una fontana ad accogliere i visitatori nello spiazzo antistante le porte della casa, com’era in uso nelle aree più calde, un gesto di benvenuto nei confronti dei cavalli che conducevano fin lì gli ospiti lungo strade arse dal sole e spesso lontane da ogni risorsa d’acqua potabile.

Lucius diede una pacca incoraggiante a Freyr e lo legò a uno degli anelli di ferro che spuntavano dal bordo di marmo della vasca rotonda. Il cavallo nitrì riconoscente e subito tuffò il muso nella fresca acqua zampillante.

– Augurami buona fortuna, amico. –

Quando bussò al portone, gli venne aperto quasi subito. A dargli il benvenuto c’era una ragazzetta ossuta con il naso a punta e una folta massa di ricci scuri che si esibì in un inchino proverbiale.

– Milord, accomodatevi. I signori vi stavano aspettando. –

Lucius le sorrise:

– Non c’è bisogno di tutte queste cerimonie. Non sono un lord né lo sarò mai. –

Lei arrossì lievemente.

– Perdonatemi, signore, ma il vostro aspetto è quello di un principe, non di un popolano. –

Quello era vero. Si era messo in ghingheri perché, conoscendo Lord e Lady Dresden, sapeva che avrebbe dovuto puntare tutto sulla prima, fatidica impressione per riuscire ad ottenere da loro l’attenzione e la disponibilità necessarie a spiegare loro la complicata situazione. Già il fatto che avrebbe dovuto riferire che la loro preziosa unica figlia era morta lo rendeva nervoso: non avrebbe mai voluto essere nei propri panni.

Dopo avergli preso il mantello, la ragazza, che si presentò come Fanie, lo scortò personalmente verso il retro del palazzo, introducendolo in un ampio salotto luminosissimo che si affacciava direttamente sul mare.

­ – Milord, milady – Fanie fece una riverenza frettolosa e si tirò da parte per permettere a Lucius di farsi avanti. – Il vostro ospite è arrivato. –

Lord e Lady Dresden sedevano su due ricche poltrone davanti a un tavolino da the. Il primo era basso e tarchiato, con pochi capelli ispidi e grigi sulla testa e un’espressione tutt’altro che bendisposta sulla faccia larga da rospo; la seconda era pingue, ma conservava ancora qualcosa di quella che in giovinezza doveva essere stata un bellezza davvero incantevole, tuttora rintracciabile nei begli occhi blu e nella linea delicata del profilo. I due guardarono Lucius esattamente come avrebbero guardato una mosca che entrava per caso nella stanza.

– Lord Herne, Lady Fabel – Lucius accennò un inchino rispettoso del rivolgere loro il proprio saluto. – Vi ringrazio per avermi ricevuto. Il mio nome è Lucius Henker. –

– Sappiamo chi siete – bofonchiò il vecchio Herne, burbero proprio come lo volevano i pettegolezzi. – Venite al dunque in fretta, e poi tornate da dove siete venuto. –

Lucius non si scompose. Era arrivato preparato a quell’ostilità e di certo non sarebbe stata una tale piccolezza a mettere in difficoltà le sue doti di mediatore.

– Sono qui perché vorrei parlare di vostra figlia Aranel. –

Si era aspettato stupore, da parte loro, ma non ce ne fu. Lady Fabel, invece, interruppe per un secondo il suo lavoro di ricamo e lo guardò con il gelo negli occhi:

– Aranel è morta. Qualsiasi cosa vogliate sapere di lei, non ha più alcuna importanza. –

Questo Lucius non lo aveva previsto. Non lasciò tuttavia intendere il suo stupore, sia perché non era da lui, sia perché in ogni caso il suo scopo era un altro, e se loro avessero saputo qualcosa di più, sicuramente la tomba di Aranel non sarebbe rimasta ad Aurin.

Fece un passo in avanti, il mento sollevato per mettere in chiaro che, nonostante il loro atteggiamento, lui era lì per discutere da pari a pari, e sarebbe stato meglio per loro ascoltare ciò che aveva da dire.

– A onor del vero, signori, non sono venuto per fare domande, ma per darvi delle risposte. –

 

 

Regan era alla finestra quando arrivò Shin.

Stava tentando – senza alcun successo – di terminare il ricamo di un fiore su una tela ormai tutta sgualcita, quando lo vide apparire a cavallo di fronte ai cancelli in un fluttuare di capelli argentei e falde nere di mantello.

Sorrise. Ogni volta che lo rivedeva le sembrava più alto e più magro, un giunco bianco accarezzato dal vento.

Mollò all’istante il lavoro di ricamo che Donna Melyor le aveva ingiunto di terminare entro la fine della settimana e si precipitò verso l’ingresso, mancando per poco di travolgere l’ignaro Tjeren, marito di Melyor, che stava barcamenando un carico di legna da buttare nelle stufe. Il sole faticava ancora a riscaldare il palazzo attraverso le spesse mura di solida pietra.

– Fa’ attenzione, perbacco! Sei peggio di quei due scavezzacollo messi insieme! – lo sentì borbottare, ma lei aveva già spalancato il portone, precipitandosi fuori di corsa. Mariek ed Ember, comunque, i due scavezzacollo in questione, avrebbero avuto da ridire su quell’affermazione.

Le pantofole leggere attraversarono incuranti le pozzanghere che costellavano il viale, residuo del temporale del giorno precedente. L’aria era fresca, profumata di verde, e con il sole a brillare nel cielo era più facile vedere la primavera nelle gemme timide sui rami degli alberi, nei fili d’erba che si rianimavano e colorivano nuovamente dopo i mesi trascorsi sotto alla spessa coltre di neve che ancora indugiava su Norden. Qua e là nei prati spuntavano mazzolini di elleboro nero – la rosa delle nevi, com’era tradizionalmente chiamata.

Shin non ebbe quasi il tempo di sorriderle: Regan gli gettò le braccia al collo con tale trasporto da fargli muovere un passo indietro per non perdere l’equilibrio. Era esattamente come lo ricordava: spigoloso e profumato di tranquillità.

Lui ricambiò gentilmente l’abbraccio, ridendo di quell’entusiasmo probabilmente inaspettato, ma lei aveva sentito molto la sua mancanza, in quelle settimane che era stato lontano, e adesso ritrovare il tepore dei suoi occhi neri stava lentamente sopendo quell’inquietudine sorda che dal giorno prima la stava logorando.

– Suppongo che a questo punto sia inutile domandarti se ti sono mancato. –

Regan lo lasciò andare e gli diede una gomitata nel fianco.

– Non si può dire che tu non ti sia fatto attendere, vero? –

La battuta si smarrì nel vuoto. Shin stava guardando in alto davanti a sé e improvvisamente si era fatto serio, quasi guardingo. Regan seguì il suo sguardo: dietro una delle finestre del secondo piano, i riflessi di luci e ombre sul vetro occultavano solo parzialmente i contorni immobili dello zio Tristan.

Regan sapeva che Shin non era benvisto dagli Edelberg a causa dei vantaggi che le sue innate doti straordinarie gli avevano sempre garantito, ma non le importava di quello che pensavano loro. Era un suo amico, e tanto bastava.

Incurante della severa incombenza dello zio, Regan gli prese il polso e lo trascinò verso il portone d’ingresso, ancora spalancato.

– Su, vieni dentro. Voglio sapere che cosa hai fatto in tutto questo tempo. –

– Regan, aspetta. –

Shin non si era mosso da dov’era, gli occhi ancora rivolti alla finestra a cui Tristan, però, non era più affacciato.

– Preferisco non entrare. Non sono stato invitato. –

– Non dire sciocchezze, ti ho appena invitato io! –

Ma lui scosse la testa.

– Non sta a te, è questo il punto – rimarcò. – Sarebbe una mancanza di rispetto verso il capofamiglia se io adesso varcassi quella porta. La casa è sua e senza un suo invito diretto sarebbe un affronto, e io ho già una pessima nomea, in questa casa. –

Non faceva freddo come in pieno inverno, benché e si sarebbero potuti sedere su una delle tante panchine del parco, o sotto qualche padiglione, ma a quel punto avrebbero dovuto sopportare qualche improvvisa ispirazione di giardinaggio da parte di Tjeren, o l’impellente necessità di Donna Melyor di mettersi a pulire proprio le finestre che davano su quella porzione di giardino.

A Regan venne la pelle d’oca a pensare a cosa ne avrebbero detto quei due se per caso la avessero vista abbracciare Shin in quel modo indecoroso e smaccatamente fraintendibile. Le ripercussioni, immaginò, avrebbero previsto una tirata d’orecchie memorabile e una reclusione casalinga a tempo indeterminato, per lei. Lui, invece, sarebbe stato semplicemente bandito a vita dalla proprietà.

– Benvenuto, Shin. –

La voce di zia Arista.

Era comparsa sull’uscio, le maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule identico a quelli delle domestiche a proteggerle l’abito verde scuro. Aveva le mani puntellate sui fianchi morbidi, ma sorrideva. Era così diversa da suo marito che Regan si era chiesta spesso come loro due potessero essere felicemente sposati da così tanto tempo.

Shin si affrettò a porgerle i propri ossequi.

– Lady Edelberg. –

In quello stesso istante sopraggiunse anche lo zio Tristan, alto e imponente e vagamente inquietante a causa delle due vistose cicatrici parallele che gli sfregiavano il viso di sbieco.

Gelido, quasi sulla difensiva, Shin si accostò il pugno destro al lato sinistro del petto e si inchinò anche per lui, alla maniera dei gentiluomini delle Sette Terre.

– Lord Edelberg. –

Lui e Tristan si studiarono a lungo l’un l’altro e per la prima volta Regan si accorse di quanto Shin, pur così esile e aggraziato, sapesse apparire imponente.

– Zio – mosse un passo in avanti, timida ma sicura. – Stavo per venire a domandarvi il permesso di invitare Shin a entrare. –

Se Tristan avesse saputo sorridere, quello sarebbe stato il momento giusto per farlo. Ma, da che lo conosceva, Regan non lo aveva mai visto sorridere una volta ed era ormai arrivata a pensare semplicemente ne fosse incapace. Solo Arista sembrò cogliere il tentativo di umorismo e assecondarlo:

– Non è proprio il caso di restarsene chiusi in casa con una giornata così bella. Potreste fare un giro in città, piuttosto. A cavallo, magari – aggiunse, rivolgendo al consorte un sorriso esortativo.

– Se Lord Edelberg non ha nulla in contrario, sarei lieto di provvedere personalmente alla sicurezza di vostra nipote – disse Shin.

Regan sogguardò lo zio, titubante. Andava spesso in città insieme ai suoi cugini e non c’era alcun pericolo: Kauneus era sicura, tanto frequentata quanto protetta, e se Shin da solo non fosse bastato come garanzia, ci sarebbero state guardie ovunque pronte a intervenire in un improbabile caso di attacco.

Tristan, tuttavia, non sembrava incline ad accordare il suo permesso e il modo in cui scrutava Shin parlava di una diffidenza che non voleva conoscere ravvedimenti. Ma poi Arista gli toccò il braccio, dolcemente, senza aggiungere altro che una lieve pressione delle dita, e qualcosa nello sguardo di lui si ammorbidì:

– Molto bene – si schiarì la voce, a disagio. – Intendevo aspettare che fossimo tutti presenti, ma visto che si presenta l’occasione… –

Regan corrugò la fronte, perplessa e curiosa al tempo stesso.

– Di cosa state parlando? –

 

 

Le scuderie di trovavano nella parte posteriore degli immensi giardini della tenuta. Ospitavano una dozzina di cavalli ed erano l’indiscusso luogo preferito di Regan: se avesse potuto, vi avrebbe trascorso ogni singolo momento delle sue giornate. Amava stare in compagnia degli animali, più sinceri e affidabili delle persone, e per i cavalli, in particolare, nutriva una vera e propria venerazione.

I suoi cugini, armati di buone speranze e tanta volontà, le avevano dato personalmente qualche lezione di autodifesa nei loro giorni liberi, e i risultati non erano stati poi tanto migliori dei vari tentativi precedenti a cui Regan si era dedicata: non c’era verso di insegnarle a usare i poteri magici che possedeva e la spada riusciva a malapena a maneggiarla, ma in compenso aveva un qualche mediocre talento con i pugnali, che se non altro erano abbastanza piccoli e leggeri da poter essere adoperati anche senza un vero e proprio stile. Un talento, però, aveva scoperto di possederlo, ed era quello per l’equitazione. Fin dalla prima volta che le era stato permesso di montare un cavallo da sola aveva dato prova di essere un’ottima amazzone e la gioia che aveva provato a galoppare alla velocità del vento nei prati innevati di Norden era stata inimmaginabile.

Ciascuno dei membri della famiglia Edelberg possedeva un destriero personale, oltre a quelli destinati alle due carrozze, e ogni volta che i suoi cugini la portavano fuori per una cavalcata, a Regan era permesso di prendere in prestito Nashira, la bella roana scura di zia Arista, con cui aveva stabilito un rapporto accettabile. Con il tempo aveva notato una cosa: il carattere di ciascuno di quei cavalli era simile a quello dei rispettivi padroni.

Quando entrarono, tutto era pulito e ordinato. Gli stallieri iniziavano a lavorare di prima mattina e si assicuravano che alle bestie non mancassero mai né cibo né acqua fresca.

Shin camminava in coda al gruppo, osservando con modesta curiosità gli ambienti.

– Non capisco – mormorò Regan, sempre più confusa, seguendo gli zii lungo il corridoio interno delle scuderie. Si sentivano i borbottii sommessi dei cavalli e qualche sbuffo di protesta per il disturbo inaspettato. Faceva sempre caldo, là dentro, e l’odore del fieno saturava l’aria.

Senza concederle risposta, Tristan continuò ad avanzare fino a che non ebbe raggiunto l’ultimo cubicolo, l’unico che era sempre rimasto vuoto. Tolse il gancio che teneva chiuso lo sportello e lo spalancò, facendo cenno a Regan di avvicinarsi a dare un’occhiata.

Lei guardò prima la zia, poi Shin, il quale sollevò le spalle come invitandola a farsi avanti. Regan obbedì, pervasa da una crescente sensazione di euforia. Non osava sperare, ma poteva esserci solo una cosa in quello scompartimento. Quando vide, le sue mani scattarono a coprire la bocca, soffocando un’esclamazione di puro stupore: il cavallo che aveva di fronte era quanto di più magnifico i suoi occhi avessero mai ammirato.

Muscoli vigorosi ed eleganti si scolpivano in linee nette sotto al manto di un nero corvino, lustro e corposo come l’inchiostro, che sotto certi raggi di luce acquisiva impalpabili sfumature di bronzo. Le bastò incontrare il suo sguardo fiero per un solo istante per capire che sarebbe stato impossibile stabilire chi avrebbe domato chi.

– Non è splendida? – esordì Tristan, compiaciuto. – Arriva direttamente da Brenner. Per te, da parte mia e di Persefone. –

Regan riusciva a malapena a respirare. Zia Persefone, sorella minore di Tristan, era il Coordinatore della Terra di Brenner e possedeva quindi un vasto palazzo dotato di altrettanto vaste scuderie in cui venivano allevati i destrieri delle più alte cariche politiche e militari.

– È… è mia? – balbettò, disorientata dalla bellezza dell’animale. Aveva sognato così a lungo un momento come quello che adesso le riusciva quasi impossibile crederci.

Lo zio Tristan, che si era sempre comportato affettuosamente con lei, ma sempre con un certo distacco, per la prima volta, ora, arrivò quasi a sorriderle:

– Ci tenevamo a farti un regalo che tu desiderassi davvero, e dato che non c’è oggetto che sembri riscuotere il tuo interesse, i ragazzi hanno pensato che questa fosse l’idea migliore. –

Regan gli saltò al collo d’impulso, soverchiandolo con una raffica di ringraziamenti sconclusionati. Alla fine Tristan la allontanò da sé, imbarazzato, ma visibilmente soddisfatto che lei avesse gradito tanto il dono.

– Posso prenderla per fare un giro? – supplicò lei, gli occhi sgranati e scintillanti mentre le mani continuavano ad accarezzare il muso della bestia, adoranti.

– Suppongo che sarebbe una gita gradita ad entrambe – disse Arista. La giumenta, infatti, aveva preso a raschiare il pavimento con gli zoccoli anteriori, smaniosa di muoversi.

Regan adocchiò una sella e delle briglie appoggiate in un angolo della cella, nuove di zecca e finemente lavorate, e dimenticò definitivamente di preoccuparsi per l’incontro che Lucius aveva con i Dresden quella mattina.

– Dovrai trovarle un nome – osservò lo zio, mentre ritornavano verso il palazzo.

Regan ci rifletté su mentre si cambiava, aiutata da Donna Melyor. I vecchi vestiti da equitazione di Anneli non le erano mai calzati proprio a pennello, ma almeno sarebbe stata comoda. Quando fu pronta, si guardò allo specchio orgogliosa: treccia, giacca e pantaloni di pesante velluto nero, stivali e una morbida sciarpa bianca a proteggerle il collo. Sembrava molto più matura, così. Più donna.

Scendendo, trovò Shin ad aspettarla nell’ingresso, da solo.

– Come sto? – gli chiese, compiendo una giravolta su sé stessa nel scendere l’ultimo scalino.

– Molto a tuo agio, si direbbe – approvò lui, ma lei non lo stette quasi a sentire.

– Su, avanti, sbrighiamoci! –

Lo spinse fuori impaziente, mentre dal piano di sopra la voce isterica di Donna Melyor strillava:

– E vedi di comportarti da signora, una buona volta! –

La porta sbatté sull’ultima metà della frase.

 

 

Gli sembrava quasi di essere tornato là dove da ragazzino si era sentito in trappola. Il cielo che sembrava non conoscere nuvole, le terre riarse dal sole, i venti caldi e deboli che spiravano dai deserti di Asante: l’estremo sud di Astereis era fin troppo simile alle zone meridionali di Sonnerg, e a Kemaras, il suo villaggio di origine.

L’ultimo luogo al mondo in cui avrebbe voluto tornare.

– Come sapete che è morta? –

Le mani inanellate di Lady Fabel Dresden si contrassero l’una sull’altra, sintomo della schiettezza forse eccessiva della domanda. Il pallore conferiva alla carnagione olivastra della donna un colorito malsano, quasi malato, ma forse era quello il legittimo aspetto di qualcuno che si trovava a parlare della morte della propria figlia.

– Quando nasce un nuovo membro nella nostra famiglia viene accesa una candela nella nostra cappella, ed essa arde fintanto che arde la vita di chi essa rappresenta – rispose Lord Herne, senza un accenno di inflessione. – Quella di Aranel si spense un paio d’anni dopo che fu rapita. –

Lucius si accigliò.

– Rapita? –

Il silenzio all’interno della casa era quasi fastidioso. Tutt’intorno, oro e colori caldi dominavano l’ambiente, pesanti tendaggi bianchi a filtrare la luce che bussava alle grandi finestre affacciate sul mare. C’era una tetra ironia nel discorrere di morte in una giornata piena di vita come quella.

– Fu quel maledetto ragazzo Edelberg – esordì Lady Fabel, la voce inibita da un groppo alla gola. – Era ancora una bambina… –

Lucius serrò le labbra suo malgrado. Preferiva non disquisire su quel punto. Non ancora, almeno. Sarebbe tornato sull’argomento al momento giusto, quando le barriere di odio dei Dresden si fossero allentate a sufficienza da poterli far ragionare. In anni e anni trascorsi a stretto contatto con i più grandi maestri dell’inganno e della persuasione, aveva imparato a giocare le parole come carte in una mano vincente, e per questa partita avrebbe dovuto usare tutta la delicatezza e tutta l’astuzia di cui era capace. Puntò sulla diplomazia:

– Vi direi che mi dispiace per la vostra perdita, se non sapessi che la vostra risposta sarebbe che non posso capire ciò che si prova. –

La mancanza di una risposta immediata denotò una discreta sorpresa da parte dei suoi ospiti.

– Voi… voi sapete cosa successe ad Aranel? – balbettò Fabel, sempre più terrea.

– Un incidente – rispose immediatamente Lucius, attenendosi alla versione concordata come ufficiale. – Un incidente che si portò via anche il giovane Ardal Edelberg. –

La notizia che anche Ardal fosse morto parve in qualche modo rasserenare almeno in parte l’animo della coppia.

– Venite al dunque, giovanotto. – Lo sguardo sgarbato di Lord Herne lo colpì, ma senza scalfirlo. Ci voleva ben altro per disturbare l’animo impermeabile di Lucius Henker.

– Poche settimane fa mi trovavo a Cittanuova assieme a una ragazza che tempo fa salvai dalle rovine della Corte – spiegò, e l’uomo annuì.

– La ragazza dai capelli di sangue. Abbiamo sentito parlare di lei. –

– Al mercato abbiamo incrociato per caso una vostra anziana serva che faceva acquisti per voi assieme al nipote. –

– Bethil e Brennan – intervenne Lady Fabel, con un accenno di impazienza. – Non vedo come questo possa… –

– Quando ha visto la ragazza – la interruppe Lucius con tutta l’educazione che gli fu possibile. – La donna si è rivolta a lei chiamandola Aranel. –

– Bethil era molto affezionata ad Aranel, era la sua balia. Non è più stata la stessa, da che lei scomparve – affermò Lord Herne, asciutto.

– Per lei è come se fosse ancora qui – soggiunse la moglie in un sussurro – Le prepara sempre un posto a tavola, fa prendere aria alla sua stanza ogni mattina, rassetta i suoi vestiti… –

La voce le si spezzò sull’incrinarsi dei primi accenni di commozione.

Lucius lasciò alla coppia qualche istante per smaltire la tensione accumulata. Dalla rigidità di entrambi comprese che si sentivano a disagio per il momentaneo cedimento emotivo e, per rispetto, prese ad ammirare il mobilio con improvviso, vividissimo interesse. Si azzardò a guardarli di nuovo in faccia e riprendere la conversazione solo quando fu sicuro che si fossero ricomposti.

– Questa volta la situazione potrebbe essere diversa. –

– Spiegatevi. – La voce del vecchio Herne suonò leggermente più rauca del normale. Qualcosa si accese nel suo sguardo, trattenuto da reti di orgoglio e ostinazione.

Lui non batté ciglio. Sapeva che a questo punto una sola parola sbagliata avrebbe compromesso il buon esito dell’incontro e l’indole schiva e sospettosa dei Dresden non era da sottovalutare, men che meno in un frangente come quello. Inspirò ed espirò, pensando agli occhioni di Regan sgranati dall’ansia. Chissà se Shin era riuscito a distrarla.

– So che è una notizia difficile da apprendere, ma… la ragazza in questione è vostra nipote. –

Lucius non aveva figli e dubitava ne avrebbe mai avuti, ma pensò che, trovandosi al posto dei Dresden, la sua reazione sarebbe stata esattamente identica alla loro: sconcerto, dapprima, e poi, naturalmente, incontenibile collera.

– Come osate? – Lady Fabel balzò in piedi con insospettabile agilità, molto rossa in viso, gli occhi fiammeggianti, una mano premuta sul petto. – Con quale cuore osate venire a prendervi gioco di una madre consumata dal dolore? –

Dalla porta in fondo alla stanza si affacciò una domestica, richiamata dalla voce acuta della padrona, ma un cenno rapido di Lord Dresden la rispedì immediatamente da dove era venuta. Sicuramente sarebbe rimasta ad origliare di nascosto.

Lucius avrebbe preferito evitare di parlare se c’erano orecchie indiscrete all’ascolto, ma suggerire ai padroni di casa come tenere a bada la propria servitù sarebbe stato scortese.

– Mi rendo conto che sia traumatico, per voi, milady, ma vi prego di non dubitare della mia buona fede. – Si alzò in piedi a sua volta e sostenne con fermezza lo suo sguardo accusatorio della nobildonna. – Ho fatto delle indagini e questo è quanto ho scoperto. Ritenevo giusto che ne foste informati. –

Incontrò gli occhi congelati di Herne, il quale, muovendosi appena, prese la mano della moglie nella propria e la invitò a risedersi.

– Mia cara, ti prego. –

Lei obbedì, ma l’ira bruciava ancora sulle sue guance, nelle iridi lucide. Quando ebbe ripreso il proprio posto, il marito continuò a tenerle la mano; la sua attenzione, tuttavia, non aveva mai lasciato Lucius:

– State insinuando che questa fanciulla sarebbe il frutto delle violenze subite da Aranel? –

La durezza nel suo tono non riuscì a mascherare un tremito di emozione repressa che rese il compito di Lucius ancora più delicato.

– No, milord. Il frutto dell’amore che lei condivideva con un giovane che non le era nemmeno permesso di incontrare. –

Lady Fabel fremette, sempre più oltraggiata:

– Questo è un insulto alla memoria di mia figlia! Aranel sapeva bene a che tipo di gente apparteneva quel ragazzo, non gli avrebbe mai nemmeno rivolto la parola! –

Quante volte Lucius era stato testimone di scene come quella: dolore che rubava obiettività, covato per anni e lasciato a logorare l’anima in silenzio, cancellando progetti, bruciando speranze. Non c’era niente di analizzabile nella devastazione interiore lasciata da un lutto.

– Nemmeno a un ballo mascherato in cui le sarebbe stato impossibile indovinare chi lui fosse? –

– Questa ragazza di cui parlate – balbettò la donna, deglutendo a fatica dietro alle lacrime. – Qual è il suo nome? –

– Regan, milady. –

Lady Fabel serrò gli occhi come se un pugnale le avesse appena trafitto il cuore. Anche suo marito chiuse gli occhi, in una manifestazione di dolore più contegnosa, ma non meno intensa.

– Aranel aveva chiamato così tutte le sue bambole, da bambina. –

Tra le sua braccia, la sua consorte era sbiancata. Tremava, orfana di tutto il nobile contegno finora ostentato, e tracce lucide lungo il viso tradirono la caduta di due lacrime silenziose.

– Dov’è, ora? Possiamo vederla? – domandò, accorata.

Era la domanda più spinosa della situazione.

– Si trova a Kauneus, adesso. Presso la famiglia Edelberg, prima che lo chiediate. –

Un odio intimo e viscerale insorse nelle pupille ridotte a spilli di Lord Herne, andandosi a mescolare con l’odio ancestrale maturato dalla sua stirpe in secoli di rivalità con gli Edelberg.

– Gli Edelberg mi hanno già privato di una figlia. Non lascerò che si prendano anche nostra nipote! – esclamò Lady Fabel, ma il marito la zittì con un cenno brusco.

– Per tutti Aranel è morta il giorno della sua scomparsa. L’ultima cosa che voglio è uno scandalo sulla nostra famiglia. –

Terrea, Fabel chinò il capo con occhi lucidi, ma mormorò:

– Vorrei solo conoscerla, vederla almeno una volta... –

Era quasi possibile sentire la mortificazione della donna corrodere lentamente l’impeto rabbioso di Lord Dresden, fino ad appianarlo quasi del tutto. Doveva amarla molto, nonostante tutto.

– E sia. Incontreremo questa fanciulla. Il resto si deciderà poi. –

Lucius non sapeva come prendere quella dichiarazione. Gli suonava strano che un Dresden si tirasse indietro di fronte alla possibilità di sottrarre qualcosa a un Edelberg, ma decise di stare al gioco.

– Vi prego solo di concedermi un po’ di tempo per preparare Regan a questo incontro. –

Non specificò quanto tempo. Mantenere le promesse era alla base dei principi di un uomo d’onore e lui non prometteva mai niente, se non era più che certo di poterlo ottenere, e quando c’era Regan di mezzo niente era mai prevedibile.

 

 

Uno degli infiniti motivi per cui Shin amava Norden era che lì, nonostante tutto, riusciva quasi a passare inosservato: di ragazzi alti, biondi e con la pelle nivea ce n’erano tanti e difficilmente qualcuno badava a lui, vedendolo passare, a meno che non lo riconoscesse esplicitamente. Non gli importava granché dell’opinione della gente, ma era a conoscenza delle chiacchiere che circolavano su di lui e sul nome che portava, e non gli erano gradite. La sua casata, i Montress, era stata una delle più vicine alla Corona, godendo di lustro e rispetto, ma con il tempo gli sperperi e l’indolenza delle varie generazioni avevano consumato il vasto patrimonio che gli antenati si erano guadagnati con onore al servizio dei re e oggi tutto ciò che rimaneva di queste antiche glorie era un castello lasciato cadere in rovina e un lord in delicato stallo tra la lucidità e la follia, inaridito dall’inclemenza del fato.

Shin si sentì tra le labbra il sapore amaro che accompagnava sempre le riflessioni sulla sua famiglia. In sella a Vento, il suo fidato destriero, chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì davanti a lui non c’era altro che la strada costeggiata da alberi, e Regan che spronava la sua puledra ad aumentare la velocità. Shin riusciva a sentire ogni goccia della sua euforia, la stessa che le aveva illuminato il volto quando lo zio le aveva spalancato di fronte il cubicolo nelle scuderie.

Immaginò che era così che sarebbe stata, che sarebbe stata quella l’esatta espressione che avrebbe avuto la Regan bambina nel vedersi regalare una bambola a lungo desiderata. Un pezzetto di quell’infanzia che le era stata negata, se non altro, lo stava vivendo adesso.

– Muovetevi, o la mia polvere arriverà in città prima di voi! – urlò Regan, voltandosi indietro.

Lui scosse la testa e rise fra sé, poi sfidò Vento a fare onore al suo nome.

Kauneus era un giglio in piena fioritura sotto al sole tiepido di marzo. Le strade ampie e gli edifici bianchi sembravano un prolungamento delle montagne dell’estrema area settentrionale della Terra, dove le nevi erano perenni e d’inverno il sole incontrava i ghiacci dando vita agli straordinari spettacoli naturali noti come Luci del Nord.

– Dovremmo cercare un posto in cui fermarci a pranzare. La cavalcata mi ha messo appetito. – Regan era appena smontata da cavallo e stava guidando la puledra, ancora senza nome, verso una delle tante fontane che popolavano le vie trafficate. Shin la imitò, ma non accolse la proposta con grande entusiasmo.

– Potremmo comprare qualcosa in Via del Mercato e mangiare per strada – suggerì invece.

Lei, accaldata, si scostò una nuvola di ciuffi rossi disordinati dalle guance accese di un rosa intenso.

– Che stai dicendo? Voglio sedermi comodamente a un tavolo e godermi le pietanze con calma! Andiamo alla Quercia d’Argento, ormai dovrebbero avere allestito i tavoli in giardino. Sarà bellissimo! –

Shin non ne dubitava, ma aveva comunque le sue riserve in merito. Non c’era niente di sconveniente in un ragazzo e una ragazza che pranzavano insieme e lui non aveva scuse credibili da accampare.

– Non so se sia il caso… –

– Perché no? – brontolò lei.

Una guardia decorata con gli stemmi della Lega e della Terra di Norden passò loro accanto e rivolse a Shin un cenno distratto. Era un soldato semplice, più anziano di Shin di diversi anni, ma i cavalieri ai comandi di Soile, a differenza di quelli delle altre Terre, non osavano mai mancargli di rispetto, ben consapevoli di quanto lui fosse vicino alla loro signora. Ironico che fosse proprio quella la ragione principale per cui tutti sembravano disprezzarlo tanto.

– Agli occhi della maggior parte dei cittadini di Kauneus sono un raccomandato buono a nulla… finirebbero per guardare male anche te. –

A Regan tuttavia di rado importava qualcosa di quel che il resto del mondo pensava di lei o di chiunque altro: faceva ciò che voleva, entro i limiti dell’accettabile, e a volte anche oltre, e difficilmente si soffermava a pensare alle conseguenze. La sua espressione, infatti, non avrebbe potuto essere più indifferente mentre, afferrandolo per una manica, scrollava le spalle e lo trascinava verso la Quercia d’Argento.

– Che guardino. Io ho fame e voglio mangiare come si deve. –

 

 

– Per un paio di settimane sono stato nella Terra di Asante. Il Coordinatore Foyer stava indagando su una banda di ladruncoli che ha saccheggiato le miniere di Cristallo Eterno, lasciandosi dietro solo due testimoni ridotti a poco più che vegetali. Si sono presi le loro anime. I Liberatori aspettavano me per… –

Lasciò cadere la frase a metà. Aveva recuperato i vaghi ricordi nelle menti apatiche di quei due poveretti con i pianti strazianti delle loro mogli in sottofondo e gli era stato più difficile di quanto avesse immaginato, poi, riuscire a comunicare al Coordinatore Foyer i pochi elementi utili che i due erano riusciti a notare. Se n’era andato prima che i Liberatori potessero purificare completamente il corpo dei due malcapitati, perché quello che sarebbe successo dopo non lo avrebbe potuto sopportare. Del resto non c’era molta scelta, quando un’anima veniva trafugata: o si lasciava la vittima a sé stessa, permettendole così di trasformarsi in un mostro affamato di anime altrui, oppure si stroncava quel che restava della sua misera esistenza e si concedeva alla Madre di riprendersi ciò che di diritto le spettava.

– Li hanno presi, poi, i ladri? – gli chiese Regan in tono assolutamente casuale, tanto che sarebbe stato difficile per chiunque sospettare che lo avesse fatto di proposito, per risparmiargli quella parte che non aveva nessuna voglia di raccontare. Ma Shin non era chiunque.

– Li hanno presi, sì. Ma il bottino era già sparito e non sapevano nemmeno loro per conto di chi avessero lavorato. Hanno preso i soldi e basta. –

Vide la curiosità scintillare repressa negli occhi di lei, le sue labbra dischiuse come in procinto di fare altre domande, che però non vennero.

– Poi mi hanno convocato a Medilana – riprese allora lui. – In realtà è stato per una sciocchezza, ma tra una cosa e l’altra sono passate altre due settimane. Intendevo scriverti, davvero, ma non mi sembrava di avere niente di interessante da raccontare, quindi… –

Regan sbuffò e il suo respiro divenne una nuvoletta evanescente. Il clima era ancora freddo, anche se non come in pieno inverno, e il cortile della Quercia d’Argento era stato disseminato di alti bacili pieni di tizzoni ardenti che fiammeggiavano vivacemente per riscaldare i temerari che sceglievano di mangiare all’aperto.

– Un giorno ti nomineranno Coordinatore Generale e io lo verrò a sapere per caso, e tu mi verrai a dire che non ti sembrava una cosa interessante da raccontarmi. –

Shin rise e riempì di birra i due boccali che aveva davanti.

Il giardino della taverna era piccolo, quadrato, circondato da un muretto in pietra alto poco più di una persona su cui l’edera proliferava libera e che tratteneva all’interno dello spiazzo che circoscriveva una vivace sinfonia di chiacchiere e stoviglie in movimento. C’era una grande quercia al centro del giardino, solida e rigogliosa, che con le sue fronde ombreggiava la dozzina di tavoli sparsi tutt’intorno. Nessuno sapeva esattamente quanto fosse vecchia, ma era già lì quando, ancora all’epoca dei Monarchi, era stata costruita la prima taverna, e tutti sostenevano che il suo tronco rugoso fosse sempre stato di quello strano colore slavato, un grigio quasi argenteo, in onore del quale la locanda era stata battezzata. E c’era anche una gabbia, costruita proprio attorno a uno dei rami più bassi dell’albero, in cui si agitavano degli uccellini piccoli e tondi come mele selvatiche, di colori che variavano dal bruno a un bianco azzurrino. Il loro canto era meraviglioso, ma terribilmente malinconico.

– Usignoli di Almaris – spiegò Shin, notando che Regan li fissava. – Una specie che non esiste più, allo stato selvatico. –

Regan non distolse lo sguardo. Sembrava improvvisamente triste, dimentica del piatto colmo di leccornie che aveva davanti. Non occorse domandarsi il perché.

– Non abbiamo mai avuto modo di parlare di quello che è stato di te durante la tua clausura alla Corte, io e te. –

Regan smise di rimestare la sua zuppa, i suoi muscoli si irrigidirono.

– Lucius non ti ha detto niente? –

– Le cose hanno un valore diverso, recepite tramite intermediari. –

Non glielo stava chiedendo per curiosità. Sapeva già tutto quello che c’era da sapere. Voleva solo che fosse lei a raccontarglielo, perché era giusto così e voleva sentire la storia così come la aveva vissuta lei.

– Non c’è granché da raccontare. Non ero tanto diversa dagli oggetti che c’erano con me in quella stanza: me ne stavo lì ad aspettare che il tempo passasse e… non so, prima dell’arrivo di Derian non ho nemmeno dei ricordi precisi. – Un’alzata di spalle accompagnò la ripresa dei movimenti circolari del cucchiaio nella ciotola mezza piena. – Tutti i giorni erano uguali, le stesse solite tre facce: Isabel che mi portava da mangiare, Desmond che passava a controllare se per caso da un giorno all’altro io non dessi segno di possedere qualche potere, e quel ragazzo dagli occhi spietati… Samael. Lui si fermava sempre sulla porta con aria annoiata, aspettava che Desmond si accertasse che io fossi ancora del tutto inutile e poi se ne andava con lui senza dire una parola. –

Shin rimase impressionato da come lei gli parlò di quelle persone: due di loro non erano che un nome; l’altro, invece, doveva averle lasciata impressa una sensazione più profonda, anche da lontano, senza alcun contatto diretto.

“Quel ragazzo dagli occhi spietati.”

– Non so perché Desmond non abbia mai tentato di sottrarmi il potere che c’è racchiuso in me, se era davvero per quello che mi teneva prigioniera. A volte era così frustrato che temevo mi avrebbe fatta sgozzare pur di non perdere altro tempo con me. –

Shin non era sicuro che l’incuranza con cui Regan parlava del suo potere fosse un fattore positivo. La conosceva bene, ormai, e non lo rassicurava vedere con quanta leggerezza citava quella che a tutti gli effetti era un’essenza di male puro incastonata dentro di lei, confinata dalla sua innocenza.

Non sarebbe rimasta tale ancora a lungo, purtroppo.

– A volte mi sarebbe piaciuto. Essere sgozzata, intendo, o morire in qualunque altro modo. Non per disperazione, dato che non conoscevo altra vita al di fuori di quella, ma solo per… sai, solo per non dover vedere un altro giorno uguale a tutti gli altri. Ma poi… – L’accenno di un sorriso nostalgico le stiracchiò le labbra. – Poi è arrivato Derian, e tutto è diventato più sopportabile. –

Anche di lui Shin sapeva tutto: il suo sangue era stato immune ai veleni e per questo il suo stesso padre, a corto di denaro, lo aveva venduto a Desmond in cambio di una cospicua somma, e infine, dopo anni di reclusione e sevizie, era stato ucciso per motivi ancora oscuri, morendo tra le braccia impotenti di Regan, che assieme al suo ultimo respiro aveva raccolto anche il suo dono dell’immunità ai veleni.

– Anche nella sua vita libera, Derian non aveva visto molto del mondo. I suoi orizzonti erano molto ristretti: suo padre gli stava insegnando a fare il mercante. A lui non piaceva, ma lo faceva comunque, perché la sua famiglia aveva bisogno di soldi. E l’hanno ringraziato svendendolo come una partita di lana al miglior offerente. –

Shin deglutì un sorso di birra.

– Ti rincresce per lui più che per te stessa. –

 

 

Non era una domanda e quindi non necessitava di una risposta.

Regan spinse via la sua zuppa senza finirla e si appoggiò con il viso ai palmi, sconsolata. Donna Melyor le avrebbe urlato dietro per ore se solo la avesse vista con i gomiti appoggiati alla tavola.

– Non so perché… –

Shin sorrise. Anche il suo piatto non era ancora rimasto vuoto.

– Lo so io. Per quanto misera, la sua vita al di fuori della Corte aveva un suo scopo, le sue piccole gioie. Tu, invece, eri proprio come quelle povere bestiole – fece un cenno con il capo verso la gabbia degli Usignoli. – Non avevi mai conosciuto altro che la cattività, le tue quattro pareti. Non avresti mai saputo cosa ti stavi perdendo. –

Erano parole strane da ascoltare. Dette da un altro, le sarebbero parse brutali, forse addirittura crudeli, quasi chi le aveva pronunciate trovasse irrisorio il fatto che lei avesse trascorso gran parte della sua vita segregata in una stanza. Eppure sulla voce pulita di Shin avevano un suono meno amaro.

– Il mondo che ho conosciuto attraverso i ricordi di Derian ha reso la prigionia più amara, ma almeno qualcosa ha acquisito un senso. Non ero niente prima che arrivasse lui, capisci? – Sollevò lo sguardo e nei suoi occhi neri trovò un bagliore di comprensione. – Non sapevo niente di quel che c’era là fuori, non potevo sviluppare delle mie idee, delle opinioni… accettavo tutto così com’era, perché non sapevo che ci potesse essere una vita diversa da quella. –

Le venne un groppo alla gola e ricordare quanto vuoti e sterili fossero stati quei giorni. Quegli anni. Era stata una bambina, eppure non ne aveva memoria. Non ricordava come ci si sentisse ad essere piccoli, come fosse l’infanzia. Dopotutto non poteva nemmeno dire di averne avuta una.

– È ironico che io mi sia resa conto di quanto sola fossi sempre stata solo quando ho avuto qualcuno al mio fianco, vero? – sospirò.

– Come ho detto prima: non può mancarti qualcosa di cui ignori l’esistenza. –

Regan non era del tutto convinta che fosse vero, ma non disse niente. Non aveva voglia di discorsi così impegnativi.

– Come credi che stia andando il colloquio di Lucius con i Dresden? –

Nonostante Shin fosse un maestro dell’impassibilità, avvertì comunque in lui un accenno di disagio.

– I Dresden non sono famosi per la loro ragionevolezza – ammise. – Puoi star certa che dal momento in cui sapranno della tua esistenza il loro scopo sarà averti con sé. Probabilmente le cose sarebbero più semplici, se tuo padre non fosse stato un Edelberg. –

Regan gli fu grata per la schiettezza, per averle risparmiato delle rassicuranti bugie che non le sarebbero state di alcun aiuto. Era una cosa che aveva imparato presto ad apprezzare, in lui: diversamente da Lucius, che cercava sempre di proteggerla da qualunque cosa, Shin le concedeva la possibilità di affrontare la realtà e imparare a sostenerla da sola.

– Non possono decidere al mio posto, vero? Voglio dire, ho compiuto la maggiore età, sono formalmente adulta. –

Qualcosa di simile alla paura le tremava nelle mani. Strapparla a Norden avrebbe significato portarla via a luoghi che aveva imparato a conoscere e amare, alle amicizie che vi aveva trovato. Sarebbe stata lontana da tutto ciò che amava.

Da Lucius

– Ufficialmente fino al matrimonio sarai sotto la tutela della tua famiglia – puntualizzò Shin. – Senza contare che ti fai chiamare Edelberg, adesso, ma c’è anche sangue Dresden nelle tue vene e i tuoi nonni probabilmente si batteranno perché tu porti il loro cognome. –

Dresden. Gente del Sud. Regan si sforzò di immaginarsi a passeggiare su una spiaggia assolata, la sabbia rovente e le onde tiepide del mare ad accarezzarle i piedi, ma non ci riuscì.

– Possono davvero portarmi via da qui? –

Più che una domanda, suonò come una preghiera. Shin, tuttavia, non le mentì, anche se la risposta non era quella che lei avrebbe voluto sentire.

– In mancanza di prove concrete di un legame matrimoniale tra i tuoi genitori, sì. Passeresti sotto la loro tutela fino al giorno in cui ti sposerai. –

– Non voglio lasciare Norden. Non possono costringermi! –

Si alzò. La gabbia degli Usignoli era vicina al loro tavolo; la raggiunse in pochi passi, portando con sé un pezzo di pane che iniziò a sbriciolare per gettarlo oltre le fessure tra una sbarra di metallo lavorato e l’altra. Subito gli uccellini accorsero a contendersi il pasto inaspettato e lei li compianse esattamente come una volta compiangeva sé stessa. La gabbia era davvero splendida, riccioli di metallo e spirali che si intrecciavano e dividevano segnando un invalicabile confine tra il ristretto spazio che custodivano e la libertà. C’era solo un minuscolo chiavistello a sigillare quel sottile confine. Lo sfiorò con le dita, meditando su chi si fosse assunto il pretenzioso diritto di decidere che quelle creature dovessero stare lì dentro.

Shin soggiunse alle sue spalle, silenzioso come un felino. Non lo vedeva, ma poteva avvertire la sua presenza, la sua ombra sulla schiena.

– Non è il caso di preoccuparsi adesso. Lucius saprà gestire la situazione, e comunque non dipende solo da lui, né dai Dresden – la rassicurò.

Regan gettò le ultime briciole agli uccellini, ascoltando i loro cinguettii entusiasti, poi finalmente si decise a seguire Shin verso l’uscita. Pagarono tre corone a testa all’oste dietro al bancone nella sala interna e furono salutati con ossequi degni di re, infine abbandonarono i profumi speziati della locanda per ritornare all’aria aperta. I loro cavalli erano legati alla rastrelliera all’ingresso, a riposare pacifici all’ombra del tetto di paglia.

Quando Regan slegò la puledra, questa si ribellò, strattonando le briglie fin quasi a fargliele sfuggire di mano. Shin rise mentre lei la rimproverava.

– Avete lo stesso carattere. –

Regan lo fulminò con un’occhiataccia.

– Cosa staresti insinuando, esattamente? –

Shin ebbe il buonsenso di montare in sella senza rispondere. Lei fece lo stesso.

– Sai, stavo pensando di chiamarla Morrien. –

– Come la prima stella della sera? Sì, le dona. –

– Morrien ­– si ripeté Regan, accarezzando il collo caldo dell’animale. La puledra accennò un’impennata prima di incamminarsi al seguito di Shin e del suo Vento. – Sì, direi che le piace. –

 Si avviarono a passo tranquillo verso il mercato sotto a un cielo turchino e un sole tanto luminoso da ferire gli occhi.

Alle loro spalle, nel giardino sul retro della locanda, una folata di vento spalancò lo sportello della gabbia degli Usignoli di Almaris che qualcuno, accidentalmente, aveva dimenticato aperta.

   
 
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