1. IN NOME DI UN
RICORDO
When you’ve loved and
you’ve lost someone close to you
You know what it feels
like to lose
– Not Like The Other
Girls, The Rasmus –
C’era
il mare, lì a Falassar,
pacifica cittadina agli estremi limiti meridionali della Terra di
Astereis che
sorgeva, in effetti, proprio in prossimità di una delle
spiagge più belle di
tutte le Sette Terre.
L’odore
salmastro e lo
spumeggiare delle onde arrivavano fin lì, in cima
all’altura dove sorgeva, ben
isolato, il palazzo imponente dei Dresden.
La
giornata soleggiata illuminava
generosamente la facciata di pietra bruna attraverso sprazzi di nuvole
bianco
latte che fluttuavano nel blu del cielo sospinte da un piacevole
venticello
tiepido. C’era tutto un altro clima, al Sud: mentre a Norden
l’inverno ancora
non aveva del tutto ceduto il passo alla primavera, lì
sembrava già estate.
Lucius
smontò da cavallo e si
fermò davanti ai cancelli sbarrati. Dall’altra
parte, una sentinella
sorvegliava il passaggio, come se i residenti si aspettassero attacchi
da parte
di orde nemiche da un momento all’altro.
–
Fatevi riconoscere! –
La
guardia aveva usato un tono
perentorio, e la sua mano era preventivamente accostata
all’elsa della spada
agganciata alla cinta. Indossava una livrea nera e gialla, i colori dei
suoi
signori.
Lucius
rizzò il collo, cosicché
la Stella che portava potesse brillare alla luce del sole, poi sorrise
cortese:
–
Lucius Henker di Kauneus.
Presumo di essere atteso. –
La
guardia attenuò subito
l’atteggiamento ostile. Lo fece entrare, ma non disse niente.
Lucius
attraversò il viale che
conduceva all’ingresso rispolverando una a una le differenze
con lo stile dei
palazzi del Nord: i Dresden erano marchesi, o lo sarebbero stati se i
titoli
nobiliari fossero stati ancora ufficialmente in vigore, ma le
tradizioni erano
dure a morire e loro, come quasi tutti gli altri, ci tenevano a
comportarsi e
ad essere trattati come tali, e la loro dimora era un degno vessillo
della loro
condizione di privilegiati.
Le
piogge erano scarse e lievi,
da quelle parti, quindi i tetti erano semplici e lineari, privi delle
pendenze
aguzze e dei pinnacoli che ornavano quelli delle Terre settentrionali.
La
ricchezza, tuttavia, aveva trovato altre vie d’espressione:
nei rivestimenti
mosaicati dei tetti, ad esempio, e negli stucchi lavorati che facevano
da
decorazione alle ampie facciate, che al Nord sarebbero stati
irrimediabilmente
rovinati dalla prima gelata. L’uso dei ballatoi e delle
terrazze, inoltre, era
strettamente limitato ai piani inferiori, preferendo, in quelli
superiori,
finestre strette chiuse da scuri pesanti, che aiutassero a mantenere la
frescura nei periodi più caldi.
C’era
una fontana ad accogliere i
visitatori nello spiazzo antistante le porte della casa,
com’era in uso nelle
aree più calde, un gesto di benvenuto nei confronti dei
cavalli che conducevano
fin lì gli ospiti lungo strade arse dal sole e spesso
lontane da ogni risorsa
d’acqua potabile.
Lucius
diede una pacca
incoraggiante a Freyr e lo legò a uno degli anelli di ferro
che spuntavano dal
bordo di marmo della vasca rotonda. Il cavallo nitrì
riconoscente e subito
tuffò il muso nella fresca acqua zampillante.
–
Augurami buona fortuna, amico.
–
Quando
bussò al portone, gli
venne aperto quasi subito. A dargli il benvenuto c’era una
ragazzetta ossuta con
il naso a punta e una folta massa di ricci scuri che si
esibì in un inchino
proverbiale.
–
Milord, accomodatevi. I signori
vi stavano aspettando. –
Lucius
le sorrise:
–
Non c’è bisogno di tutte queste
cerimonie. Non sono un lord né lo sarò mai.
–
Lei
arrossì lievemente.
–
Perdonatemi, signore, ma il
vostro aspetto è quello di un principe, non di un popolano.
–
Quello
era vero. Si era messo in
ghingheri perché, conoscendo Lord e Lady Dresden, sapeva che
avrebbe dovuto
puntare tutto sulla prima, fatidica impressione per riuscire ad
ottenere da
loro l’attenzione e la disponibilità necessarie a
spiegare loro la complicata
situazione. Già il fatto che avrebbe dovuto riferire che la
loro preziosa unica
figlia era morta lo rendeva nervoso: non avrebbe mai voluto essere nei
propri
panni.
Dopo
avergli preso il mantello, la
ragazza, che si presentò come Fanie, lo scortò
personalmente verso il retro del
palazzo, introducendolo in un ampio salotto luminosissimo che si
affacciava
direttamente sul mare.
– Milord, milady – Fanie fece
una riverenza frettolosa e si tirò da parte per permettere a
Lucius di farsi
avanti. – Il vostro ospite è arrivato. –
Lord
e Lady Dresden sedevano su
due ricche poltrone davanti a un tavolino da the. Il primo era basso e
tarchiato, con pochi capelli ispidi e grigi sulla testa e
un’espressione
tutt’altro che bendisposta sulla faccia larga da rospo; la
seconda era pingue,
ma conservava ancora qualcosa di quella che in giovinezza doveva essere
stata
un bellezza davvero incantevole, tuttora rintracciabile nei begli occhi
blu e
nella linea delicata del profilo. I due guardarono Lucius esattamente
come
avrebbero guardato una mosca che entrava per caso nella stanza.
–
Lord Herne, Lady Fabel – Lucius
accennò un inchino rispettoso del rivolgere loro il proprio
saluto. – Vi
ringrazio per avermi ricevuto. Il mio nome è Lucius Henker.
–
–
Sappiamo chi siete – bofonchiò
il vecchio Herne, burbero proprio come lo volevano i pettegolezzi.
– Venite al
dunque in fretta, e poi tornate da dove siete venuto. –
Lucius
non si scompose. Era
arrivato preparato a quell’ostilità e di certo non
sarebbe stata una tale
piccolezza a mettere in difficoltà le sue doti di mediatore.
–
Sono qui perché vorrei parlare
di vostra figlia Aranel. –
Si
era aspettato stupore, da
parte loro, ma non ce ne fu. Lady Fabel, invece, interruppe per un
secondo il
suo lavoro di ricamo e lo guardò con il gelo negli occhi:
–
Aranel è morta. Qualsiasi cosa
vogliate sapere di lei, non ha più alcuna importanza.
–
Questo
Lucius non lo aveva
previsto. Non lasciò tuttavia intendere il suo stupore, sia
perché non era da
lui, sia perché in ogni caso il suo scopo era un altro, e se
loro avessero
saputo qualcosa di più, sicuramente la tomba di Aranel non
sarebbe rimasta ad
Aurin.
Fece
un passo in avanti, il mento
sollevato per mettere in chiaro che, nonostante il loro atteggiamento,
lui era
lì per discutere da pari a pari, e sarebbe stato meglio per
loro ascoltare ciò
che aveva da dire.
–
A onor del vero, signori, non
sono venuto per fare domande, ma per darvi delle risposte. –
Regan
era alla finestra quando arrivò
Shin.
Stava
tentando – senza alcun
successo – di terminare il ricamo di un fiore su una tela
ormai tutta
sgualcita, quando lo vide apparire a cavallo di fronte ai cancelli in
un
fluttuare di capelli argentei e falde nere di mantello.
Sorrise.
Ogni volta che lo
rivedeva le sembrava più alto e più magro, un
giunco bianco accarezzato dal
vento.
Mollò
all’istante il lavoro di
ricamo che Donna Melyor le aveva ingiunto di terminare entro la fine
della settimana
e si precipitò verso l’ingresso, mancando per poco
di travolgere l’ignaro
Tjeren, marito di Melyor, che stava barcamenando un carico di legna da
buttare
nelle stufe. Il sole faticava ancora a riscaldare il palazzo attraverso
le
spesse mura di solida pietra.
–
Fa’ attenzione, perbacco! Sei
peggio di quei due scavezzacollo messi insieme! – lo
sentì borbottare, ma lei
aveva già spalancato il portone, precipitandosi fuori di
corsa. Mariek ed
Ember, comunque, i due scavezzacollo in questione, avrebbero avuto da
ridire su
quell’affermazione.
Le
pantofole leggere
attraversarono incuranti le pozzanghere che costellavano il viale,
residuo del
temporale del giorno precedente. L’aria era fresca, profumata
di verde, e con
il sole a brillare nel cielo era più facile vedere la
primavera nelle gemme
timide sui rami degli alberi, nei fili d’erba che si
rianimavano e colorivano
nuovamente dopo i mesi trascorsi sotto alla spessa coltre di neve che
ancora
indugiava su Norden. Qua e là nei prati spuntavano mazzolini
di elleboro nero –
la rosa delle nevi, com’era tradizionalmente chiamata.
Shin
non ebbe quasi il tempo di
sorriderle: Regan gli gettò le braccia al collo con tale
trasporto da fargli
muovere un passo indietro per non perdere l’equilibrio. Era
esattamente come lo
ricordava: spigoloso e profumato di tranquillità.
Lui
ricambiò gentilmente
l’abbraccio, ridendo di quell’entusiasmo
probabilmente inaspettato, ma lei
aveva sentito molto la sua mancanza, in quelle settimane che era stato
lontano,
e adesso ritrovare il tepore dei suoi occhi neri stava lentamente
sopendo
quell’inquietudine sorda che dal giorno prima la stava
logorando.
–
Suppongo che a questo punto sia
inutile domandarti se ti sono mancato. –
Regan
lo lasciò andare e gli
diede una gomitata nel fianco.
–
Non si può dire che tu non ti
sia fatto attendere, vero? –
La
battuta si smarrì nel vuoto.
Shin stava guardando in alto davanti a sé e improvvisamente
si era fatto serio,
quasi guardingo. Regan seguì il suo sguardo: dietro una
delle finestre del
secondo piano, i riflessi di luci e ombre sul vetro occultavano solo
parzialmente i contorni immobili dello zio Tristan.
Regan
sapeva che Shin non era
benvisto dagli Edelberg a causa dei vantaggi che le sue innate doti
straordinarie gli avevano sempre garantito, ma non le importava di
quello che
pensavano loro. Era un suo amico, e tanto bastava.
Incurante
della severa incombenza
dello zio, Regan gli prese il polso e lo trascinò verso il
portone d’ingresso,
ancora spalancato.
–
Su, vieni dentro. Voglio sapere
che cosa hai fatto in tutto questo tempo. –
–
Regan, aspetta. –
Shin
non si era mosso da dov’era,
gli occhi ancora rivolti alla finestra a cui Tristan, però,
non era più
affacciato.
–
Preferisco non entrare. Non
sono stato invitato. –
–
Non dire sciocchezze, ti ho appena
invitato io! –
Ma
lui scosse la testa.
–
Non sta a te, è questo il punto
– rimarcò. – Sarebbe una mancanza di
rispetto verso il capofamiglia se io
adesso varcassi quella porta. La casa è sua e senza un suo
invito diretto
sarebbe un affronto, e io ho già una pessima nomea, in
questa casa. –
Non
faceva freddo come in pieno
inverno, benché e si sarebbero potuti sedere su una delle
tante panchine del
parco, o sotto qualche padiglione, ma a quel punto avrebbero dovuto
sopportare
qualche improvvisa ispirazione di giardinaggio da parte di Tjeren, o
l’impellente necessità di Donna Melyor di mettersi
a pulire proprio le finestre
che davano su quella porzione di giardino.
A
Regan venne la pelle d’oca a
pensare a cosa ne avrebbero detto quei due se per caso la avessero
vista
abbracciare Shin in quel modo indecoroso e smaccatamente
fraintendibile. Le
ripercussioni, immaginò, avrebbero previsto una tirata
d’orecchie memorabile e
una reclusione casalinga a tempo indeterminato, per lei. Lui, invece,
sarebbe
stato semplicemente bandito a vita dalla proprietà.
–
Benvenuto, Shin. –
La
voce di zia Arista.
Era
comparsa sull’uscio, le
maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule identico a quelli
delle
domestiche a proteggerle l’abito verde scuro. Aveva le mani
puntellate sui
fianchi morbidi, ma sorrideva. Era così diversa da suo
marito che Regan si era
chiesta spesso come loro due potessero essere felicemente sposati da
così tanto
tempo.
Shin
si affrettò a porgerle i
propri ossequi.
–
Lady Edelberg. –
In
quello stesso istante
sopraggiunse anche lo zio Tristan, alto e imponente e vagamente
inquietante a
causa delle due vistose cicatrici parallele che gli sfregiavano il viso
di
sbieco.
Gelido,
quasi sulla difensiva,
Shin si accostò il pugno destro al lato sinistro del petto e
si inchinò anche
per lui, alla maniera dei gentiluomini delle Sette Terre.
–
Lord Edelberg. –
Lui
e Tristan si studiarono a
lungo l’un l’altro e per la prima volta Regan si
accorse di quanto Shin, pur
così esile e aggraziato, sapesse apparire imponente.
–
Zio – mosse un passo in avanti,
timida ma sicura. – Stavo per venire a domandarvi il permesso
di invitare Shin
a entrare. –
Se
Tristan avesse saputo
sorridere, quello sarebbe stato il momento giusto per farlo. Ma, da che
lo
conosceva, Regan non lo aveva mai visto sorridere una volta ed era
ormai
arrivata a pensare semplicemente ne fosse incapace. Solo Arista
sembrò cogliere
il tentativo di umorismo e assecondarlo:
–
Non è proprio il caso di
restarsene chiusi in casa con una giornata così bella.
Potreste fare un giro in
città, piuttosto. A cavallo, magari – aggiunse,
rivolgendo al consorte un
sorriso esortativo.
–
Se Lord Edelberg non ha nulla
in contrario, sarei lieto di provvedere personalmente alla sicurezza di
vostra
nipote – disse Shin.
Regan
sogguardò lo zio,
titubante. Andava spesso in città insieme ai suoi cugini e
non c’era alcun
pericolo: Kauneus era sicura, tanto frequentata quanto protetta, e se
Shin da
solo non fosse bastato come garanzia, ci sarebbero state guardie
ovunque pronte
a intervenire in un improbabile caso di attacco.
Tristan,
tuttavia, non sembrava
incline ad accordare il suo permesso e il modo in cui scrutava Shin
parlava di
una diffidenza che non voleva conoscere ravvedimenti. Ma poi Arista gli
toccò
il braccio, dolcemente, senza aggiungere altro che una lieve pressione
delle
dita, e qualcosa nello sguardo di lui si ammorbidì:
–
Molto bene – si schiarì la
voce, a disagio. – Intendevo aspettare che fossimo tutti
presenti, ma visto che
si presenta l’occasione… –
Regan
corrugò la fronte,
perplessa e curiosa al tempo stesso.
–
Di cosa state parlando? –
Le
scuderie di trovavano nella
parte posteriore degli immensi giardini della tenuta. Ospitavano una
dozzina di
cavalli ed erano l’indiscusso luogo preferito di Regan: se
avesse potuto, vi avrebbe
trascorso ogni singolo momento delle sue giornate. Amava stare in
compagnia
degli animali, più sinceri e affidabili delle persone, e per
i cavalli, in
particolare, nutriva una vera e propria venerazione.
I
suoi cugini, armati di buone
speranze e tanta volontà, le avevano dato personalmente
qualche lezione di
autodifesa nei loro giorni liberi, e i risultati non erano stati poi
tanto
migliori dei vari tentativi precedenti a cui Regan si era dedicata: non
c’era
verso di insegnarle a usare i poteri magici che possedeva e la spada
riusciva a
malapena a maneggiarla, ma in compenso aveva un qualche mediocre
talento con i
pugnali, che se non altro erano abbastanza piccoli e leggeri da poter
essere adoperati
anche senza un vero e proprio stile. Un talento, però, aveva
scoperto di
possederlo, ed era quello per l’equitazione. Fin dalla prima
volta che le era
stato permesso di montare un cavallo da sola aveva dato prova di essere
un’ottima amazzone e la gioia che aveva provato a galoppare
alla velocità del
vento nei prati innevati di Norden era stata inimmaginabile.
Ciascuno
dei membri della
famiglia Edelberg possedeva un destriero personale, oltre a quelli
destinati
alle due carrozze, e ogni volta che i suoi cugini la portavano fuori
per una
cavalcata, a Regan era permesso di prendere in prestito Nashira, la
bella roana
scura di zia Arista, con cui aveva stabilito un rapporto accettabile.
Con il
tempo aveva notato una cosa: il carattere di ciascuno di quei cavalli
era
simile a quello dei rispettivi padroni.
Quando
entrarono, tutto era
pulito e ordinato. Gli stallieri iniziavano a lavorare di prima mattina
e si
assicuravano che alle bestie non mancassero mai né cibo
né acqua fresca.
Shin
camminava in coda al gruppo,
osservando con modesta curiosità gli ambienti.
–
Non capisco – mormorò Regan,
sempre più confusa, seguendo gli zii lungo il corridoio
interno delle scuderie.
Si sentivano i borbottii sommessi dei cavalli e qualche sbuffo di
protesta per
il disturbo inaspettato. Faceva sempre caldo, là dentro, e
l’odore del fieno
saturava l’aria.
Senza
concederle risposta,
Tristan continuò ad avanzare fino a che non ebbe raggiunto
l’ultimo cubicolo,
l’unico che era sempre rimasto vuoto. Tolse il gancio che
teneva chiuso lo
sportello e lo spalancò, facendo cenno a Regan di
avvicinarsi a dare
un’occhiata.
Lei
guardò prima la zia, poi
Shin, il quale sollevò le spalle come invitandola a farsi
avanti. Regan obbedì,
pervasa da una crescente sensazione di euforia. Non osava sperare, ma
poteva
esserci solo una cosa in quello scompartimento. Quando vide,
le sue mani scattarono a coprire la bocca, soffocando
un’esclamazione di puro stupore: il cavallo che aveva di
fronte era quanto di
più magnifico i suoi occhi avessero mai ammirato.
Muscoli
vigorosi ed eleganti si
scolpivano in linee nette sotto al manto di un nero corvino, lustro e
corposo
come l’inchiostro, che sotto certi raggi di luce acquisiva
impalpabili
sfumature di bronzo. Le bastò incontrare il suo sguardo
fiero per un solo
istante per capire che sarebbe stato impossibile stabilire chi avrebbe
domato
chi.
–
Non è splendida? – esordì
Tristan, compiaciuto. – Arriva direttamente da Brenner. Per
te, da parte mia e
di Persefone. –
Regan
riusciva a malapena a
respirare. Zia Persefone, sorella minore di Tristan, era il
Coordinatore della
Terra di Brenner e possedeva quindi un vasto palazzo dotato di
altrettanto
vaste scuderie in cui venivano allevati i destrieri delle
più alte cariche
politiche e militari.
–
È… è mia?
– balbettò, disorientata dalla bellezza
dell’animale. Aveva
sognato così a lungo un momento come quello che adesso le
riusciva quasi
impossibile crederci.
Lo
zio Tristan, che si era sempre
comportato affettuosamente con lei, ma sempre con un certo distacco,
per la
prima volta, ora, arrivò quasi a sorriderle:
–
Ci tenevamo a farti un regalo
che tu desiderassi davvero, e dato che non c’è
oggetto che sembri riscuotere il
tuo interesse, i ragazzi hanno pensato che questa fosse
l’idea migliore. –
Regan
gli saltò al collo
d’impulso, soverchiandolo con una raffica di ringraziamenti
sconclusionati.
Alla fine Tristan la allontanò da sé,
imbarazzato, ma visibilmente soddisfatto
che lei avesse gradito tanto il dono.
–
Posso prenderla per fare un
giro? – supplicò lei, gli occhi sgranati e
scintillanti mentre le mani
continuavano ad accarezzare il muso della bestia, adoranti.
–
Suppongo che sarebbe una gita
gradita ad entrambe – disse Arista. La giumenta, infatti,
aveva preso a
raschiare il pavimento con gli zoccoli anteriori, smaniosa di muoversi.
Regan
adocchiò una sella e delle
briglie appoggiate in un angolo della cella, nuove di zecca e finemente
lavorate, e dimenticò definitivamente di preoccuparsi per
l’incontro che Lucius
aveva con i Dresden quella mattina.
–
Dovrai trovarle un nome – osservò
lo zio, mentre ritornavano verso il palazzo.
Regan
ci rifletté su mentre si
cambiava, aiutata da Donna Melyor. I vecchi vestiti da equitazione di
Anneli
non le erano mai calzati proprio a pennello, ma almeno sarebbe stata
comoda.
Quando fu pronta, si guardò allo specchio orgogliosa:
treccia, giacca e
pantaloni di pesante velluto nero, stivali e una morbida sciarpa bianca
a
proteggerle il collo. Sembrava molto più matura,
così. Più donna.
Scendendo,
trovò Shin ad aspettarla
nell’ingresso, da solo.
–
Come sto? – gli chiese,
compiendo una giravolta su sé stessa nel scendere
l’ultimo scalino.
–
Molto a tuo agio, si direbbe –
approvò lui, ma lei non lo stette quasi a sentire.
–
Su, avanti, sbrighiamoci! –
Lo
spinse fuori impaziente,
mentre dal piano di sopra la voce isterica di Donna Melyor strillava:
–
E vedi di comportarti da
signora, una buona volta! –
La
porta sbatté sull’ultima metà
della frase.
Gli
sembrava quasi di essere
tornato là dove da ragazzino si era sentito in trappola. Il
cielo che sembrava
non conoscere nuvole, le terre riarse dal sole, i venti caldi e deboli
che
spiravano dai deserti di Asante: l’estremo sud di Astereis
era fin troppo
simile alle zone meridionali di Sonnerg, e a Kemaras, il suo villaggio
di
origine.
L’ultimo
luogo al mondo in cui
avrebbe voluto tornare.
–
Come sapete che è morta? –
Le
mani inanellate di Lady Fabel
Dresden si contrassero l’una sull’altra, sintomo
della schiettezza forse
eccessiva della domanda. Il pallore conferiva alla carnagione olivastra
della
donna un colorito malsano, quasi malato, ma forse era quello il
legittimo
aspetto di qualcuno che si trovava a parlare della morte della propria
figlia.
–
Quando nasce un nuovo membro nella
nostra famiglia viene accesa una candela nella nostra cappella, ed essa
arde
fintanto che arde la vita di chi essa rappresenta – rispose
Lord Herne, senza
un accenno di inflessione. – Quella di Aranel si spense un
paio d’anni dopo che
fu rapita. –
Lucius
si accigliò.
–
Rapita? –
Il
silenzio all’interno della
casa era quasi fastidioso. Tutt’intorno, oro e colori caldi
dominavano
l’ambiente, pesanti tendaggi bianchi a filtrare la luce che
bussava alle grandi
finestre affacciate sul mare. C’era una tetra ironia nel
discorrere di morte in
una giornata piena di vita come quella.
–
Fu quel maledetto ragazzo
Edelberg – esordì Lady Fabel, la voce inibita da
un groppo alla gola. – Era
ancora una bambina… –
Lucius
serrò le labbra suo
malgrado. Preferiva non disquisire su quel punto. Non ancora, almeno.
Sarebbe
tornato sull’argomento al momento giusto, quando le barriere
di odio dei Dresden
si fossero allentate a sufficienza da poterli far ragionare. In anni e
anni
trascorsi a stretto contatto con i più grandi maestri
dell’inganno e della
persuasione, aveva imparato a giocare le parole come carte in una mano
vincente, e per questa partita avrebbe dovuto usare tutta la
delicatezza e tutta
l’astuzia di cui era capace. Puntò sulla
diplomazia:
–
Vi direi che mi dispiace per la
vostra perdita, se non sapessi che la vostra risposta sarebbe che non
posso
capire ciò che si prova. –
La
mancanza di una risposta
immediata denotò una discreta sorpresa da parte dei suoi
ospiti.
–
Voi… voi sapete cosa successe
ad Aranel? – balbettò Fabel, sempre più
terrea.
–
Un incidente – rispose
immediatamente Lucius, attenendosi alla versione concordata come
ufficiale. –
Un incidente che si portò via anche il giovane Ardal
Edelberg. –
La
notizia che anche Ardal fosse
morto parve in qualche modo rasserenare almeno in parte
l’animo della coppia.
–
Venite al dunque, giovanotto. –
Lo sguardo sgarbato di Lord Herne lo colpì, ma senza
scalfirlo. Ci voleva ben
altro per disturbare l’animo impermeabile di Lucius Henker.
–
Poche settimane fa mi trovavo a
Cittanuova assieme a una ragazza che tempo fa salvai dalle rovine della
Corte –
spiegò, e l’uomo annuì.
–
La ragazza dai capelli di
sangue. Abbiamo sentito parlare di lei. –
–
Al mercato abbiamo incrociato
per caso una vostra anziana serva che faceva acquisti per voi assieme
al nipote.
–
–
Bethil e Brennan – intervenne
Lady Fabel, con un accenno di impazienza. – Non vedo come
questo possa… –
–
Quando ha visto la ragazza – la
interruppe Lucius con tutta l’educazione che gli fu
possibile. – La donna si è
rivolta a lei chiamandola Aranel. –
–
Bethil era molto affezionata ad
Aranel, era la sua balia. Non è più stata la
stessa, da che lei scomparve –
affermò Lord Herne, asciutto.
–
Per lei è come se fosse ancora
qui – soggiunse la moglie in un sussurro – Le
prepara sempre un posto a tavola,
fa prendere aria alla sua stanza ogni mattina, rassetta i suoi
vestiti… –
La
voce le si spezzò sull’incrinarsi
dei primi accenni di commozione.
Lucius
lasciò alla coppia qualche
istante per smaltire la tensione accumulata. Dalla rigidità
di entrambi
comprese che si sentivano a disagio per il momentaneo cedimento emotivo
e, per
rispetto, prese ad ammirare il mobilio con improvviso, vividissimo
interesse.
Si azzardò a guardarli di nuovo in faccia e riprendere la
conversazione solo
quando fu sicuro che si fossero ricomposti.
–
Questa volta la situazione
potrebbe essere diversa. –
–
Spiegatevi. – La voce del
vecchio Herne suonò leggermente più rauca del
normale. Qualcosa si accese nel
suo sguardo, trattenuto da reti di orgoglio e ostinazione.
Lui
non batté ciglio. Sapeva che
a questo punto una sola parola sbagliata avrebbe compromesso il buon
esito
dell’incontro e l’indole schiva e sospettosa dei
Dresden non era da
sottovalutare, men che meno in un frangente come quello.
Inspirò ed espirò,
pensando agli occhioni di Regan sgranati dall’ansia.
Chissà se Shin era
riuscito a distrarla.
–
So che è una notizia difficile
da apprendere, ma… la ragazza in questione è
vostra nipote. –
Lucius
non aveva figli e dubitava
ne avrebbe mai avuti, ma pensò che, trovandosi al posto dei
Dresden, la sua
reazione sarebbe stata esattamente identica alla loro: sconcerto,
dapprima, e
poi, naturalmente, incontenibile collera.
–
Come osate? – Lady Fabel balzò
in piedi con insospettabile agilità, molto rossa in viso,
gli occhi
fiammeggianti, una mano premuta sul petto. – Con quale cuore
osate venire a
prendervi gioco di una madre consumata dal dolore? –
Dalla
porta in fondo alla stanza
si affacciò una domestica, richiamata dalla voce acuta della
padrona, ma un
cenno rapido di Lord Dresden la rispedì immediatamente da
dove era venuta.
Sicuramente sarebbe rimasta ad origliare di nascosto.
Lucius
avrebbe preferito evitare
di parlare se c’erano orecchie indiscrete
all’ascolto, ma suggerire ai padroni
di casa come tenere a bada la propria servitù sarebbe stato
scortese.
–
Mi rendo conto che sia
traumatico, per voi, milady, ma vi prego di non dubitare della mia
buona fede. –
Si alzò in piedi a sua volta e sostenne con fermezza lo suo
sguardo accusatorio
della nobildonna. – Ho fatto delle indagini e questo
è quanto ho scoperto.
Ritenevo giusto che ne foste informati. –
Incontrò
gli occhi congelati di
Herne, il quale, muovendosi appena, prese la mano della moglie nella
propria e
la invitò a risedersi.
–
Mia cara, ti prego. –
Lei
obbedì, ma l’ira bruciava
ancora sulle sue guance, nelle iridi lucide. Quando ebbe ripreso il
proprio
posto, il marito continuò a tenerle la mano; la sua
attenzione, tuttavia, non
aveva mai lasciato Lucius:
–
State insinuando che questa
fanciulla sarebbe il frutto delle violenze subite da Aranel? –
La
durezza nel suo tono non
riuscì a mascherare un tremito di emozione repressa che rese
il compito di
Lucius ancora più delicato.
–
No, milord. Il frutto
dell’amore che lei condivideva con un giovane che non le era
nemmeno permesso
di incontrare. –
Lady
Fabel fremette, sempre più
oltraggiata:
–
Questo è un insulto alla
memoria di mia figlia! Aranel sapeva bene a che tipo di gente
apparteneva quel
ragazzo, non gli avrebbe mai nemmeno rivolto la parola! –
Quante
volte Lucius era stato
testimone di scene come quella: dolore che rubava
obiettività, covato per anni
e lasciato a logorare l’anima in silenzio, cancellando
progetti, bruciando
speranze. Non c’era niente di analizzabile nella devastazione
interiore
lasciata da un lutto.
–
Nemmeno a un ballo mascherato
in cui le sarebbe stato impossibile indovinare chi lui fosse?
–
–
Questa ragazza di cui parlate –
balbettò la donna, deglutendo a fatica dietro alle lacrime.
– Qual è il suo
nome? –
–
Regan, milady. –
Lady
Fabel serrò gli occhi come
se un pugnale le avesse appena trafitto il cuore. Anche suo marito
chiuse gli
occhi, in una manifestazione di dolore più contegnosa, ma
non meno intensa.
–
Aranel aveva chiamato così
tutte le sue bambole, da bambina. –
Tra
le sua braccia, la sua
consorte era sbiancata. Tremava, orfana di tutto il nobile contegno
finora
ostentato, e tracce lucide lungo il viso tradirono la caduta di due
lacrime
silenziose.
–
Dov’è, ora? Possiamo vederla? –
domandò, accorata.
Era
la domanda più spinosa della
situazione.
–
Si trova a Kauneus, adesso.
Presso la famiglia Edelberg, prima che lo chiediate. –
Un
odio intimo e viscerale
insorse nelle pupille ridotte a spilli di Lord Herne, andandosi a
mescolare con
l’odio ancestrale maturato dalla sua stirpe in secoli di
rivalità con gli
Edelberg.
–
Gli Edelberg mi hanno già
privato di una figlia. Non lascerò che si prendano anche
nostra nipote! –
esclamò Lady Fabel, ma il marito la zittì con un
cenno brusco.
–
Per tutti Aranel è morta il
giorno della sua scomparsa. L’ultima cosa che voglio
è uno scandalo sulla
nostra famiglia. –
Terrea,
Fabel chinò il capo con
occhi lucidi, ma mormorò:
–
Vorrei solo conoscerla, vederla
almeno una volta... –
Era
quasi possibile sentire la
mortificazione della donna corrodere lentamente l’impeto
rabbioso di Lord
Dresden, fino ad appianarlo quasi del tutto. Doveva amarla molto,
nonostante
tutto.
–
E sia. Incontreremo questa
fanciulla. Il resto si deciderà poi. –
Lucius
non sapeva come prendere
quella dichiarazione. Gli suonava strano che un Dresden si tirasse
indietro di
fronte alla possibilità di sottrarre qualcosa a un Edelberg,
ma decise di stare
al gioco.
–
Vi prego solo di concedermi un
po’ di tempo per preparare Regan a questo incontro.
–
Non
specificò quanto tempo.
Mantenere le promesse era alla base dei principi di un uomo
d’onore e lui non
prometteva mai niente, se non era più che certo di poterlo
ottenere, e quando
c’era Regan di mezzo niente era mai prevedibile.
Uno
degli infiniti motivi per cui
Shin amava Norden era che lì, nonostante tutto, riusciva
quasi a passare
inosservato: di ragazzi alti, biondi e con la pelle nivea ce
n’erano tanti e
difficilmente qualcuno badava a lui, vedendolo passare, a meno che non
lo
riconoscesse esplicitamente. Non gli importava granché
dell’opinione della
gente, ma era a conoscenza delle chiacchiere che circolavano su di lui
e sul
nome che portava, e non gli erano gradite. La sua casata, i Montress,
era stata
una delle più vicine alla Corona, godendo di lustro e
rispetto, ma con il tempo
gli sperperi e l’indolenza delle varie generazioni avevano
consumato il vasto
patrimonio che gli antenati si erano guadagnati con onore al servizio
dei re e
oggi tutto ciò che rimaneva di queste antiche glorie era un
castello lasciato
cadere in rovina e un lord in delicato stallo tra la
lucidità e la follia, inaridito
dall’inclemenza del fato.
Shin
si sentì tra le labbra il
sapore amaro che accompagnava sempre le riflessioni sulla sua famiglia.
In
sella a Vento, il suo fidato destriero, chiuse gli occhi per un attimo
e quando
li riaprì davanti a lui non c’era altro che la
strada costeggiata da alberi, e
Regan che spronava la sua puledra ad aumentare la velocità.
Shin riusciva a
sentire ogni goccia della sua euforia, la stessa che le aveva
illuminato il
volto quando lo zio le aveva spalancato di fronte il cubicolo nelle
scuderie.
Immaginò
che era così che sarebbe
stata, che sarebbe stata quella l’esatta espressione che
avrebbe avuto la Regan
bambina nel vedersi regalare una bambola a lungo desiderata. Un
pezzetto di
quell’infanzia che le era stata negata, se non altro, lo
stava vivendo adesso.
–
Muovetevi, o la mia polvere
arriverà in città prima di voi! –
urlò Regan, voltandosi indietro.
Lui
scosse la testa e rise fra
sé, poi sfidò Vento a fare onore al suo nome.
Kauneus
era un giglio in piena
fioritura sotto al sole tiepido di marzo. Le strade ampie e gli edifici
bianchi
sembravano un prolungamento delle montagne dell’estrema area
settentrionale
della Terra, dove le nevi erano perenni e d’inverno il sole
incontrava i
ghiacci dando vita agli straordinari spettacoli naturali noti come Luci
del
Nord.
–
Dovremmo cercare un posto in
cui fermarci a pranzare. La cavalcata mi ha messo appetito. –
Regan era appena
smontata da cavallo e stava guidando la puledra, ancora senza nome,
verso una
delle tante fontane che popolavano le vie trafficate. Shin la
imitò, ma non
accolse la proposta con grande entusiasmo.
–
Potremmo comprare qualcosa in
Via del Mercato e mangiare per strada – suggerì
invece.
Lei,
accaldata, si scostò una
nuvola di ciuffi rossi disordinati dalle guance accese di un rosa
intenso.
–
Che stai dicendo? Voglio
sedermi comodamente a un tavolo e godermi le pietanze con calma!
Andiamo alla Quercia d’Argento,
ormai dovrebbero
avere allestito i tavoli in giardino. Sarà bellissimo!
–
Shin
non ne dubitava, ma aveva
comunque le sue riserve in merito. Non c’era niente di
sconveniente in un ragazzo
e una ragazza che pranzavano insieme e lui non aveva scuse credibili da
accampare.
–
Non so se sia il caso… –
–
Perché no? – brontolò lei.
Una
guardia decorata con gli
stemmi della Lega e della Terra di Norden passò loro accanto
e rivolse a Shin
un cenno distratto. Era un soldato semplice, più anziano di
Shin di diversi
anni, ma i cavalieri ai comandi di Soile, a differenza di quelli delle
altre
Terre, non osavano mai mancargli di rispetto, ben consapevoli di quanto
lui
fosse vicino alla loro signora. Ironico che fosse proprio quella la
ragione
principale per cui tutti sembravano disprezzarlo tanto.
–
Agli occhi della maggior parte
dei cittadini di Kauneus sono un raccomandato buono a nulla…
finirebbero per
guardare male anche te. –
A
Regan tuttavia di rado
importava qualcosa di quel che il resto del mondo pensava di lei o di
chiunque
altro: faceva ciò che voleva, entro i limiti
dell’accettabile, e a volte anche
oltre, e difficilmente si soffermava a pensare alle conseguenze. La sua
espressione, infatti, non avrebbe potuto essere più
indifferente mentre,
afferrandolo per una manica, scrollava le spalle e lo trascinava verso
la Quercia d’Argento.
–
Che guardino. Io ho fame e
voglio mangiare come si deve. –
–
Per un paio di settimane sono
stato nella Terra di Asante. Il Coordinatore Foyer stava indagando su
una banda
di ladruncoli che ha saccheggiato le miniere di Cristallo Eterno,
lasciandosi
dietro solo due testimoni ridotti a poco più che vegetali.
Si sono presi le
loro anime. I Liberatori aspettavano me per… –
Lasciò
cadere la frase a metà.
Aveva recuperato i vaghi ricordi nelle menti apatiche di quei due
poveretti con
i pianti strazianti delle loro mogli in sottofondo e gli era stato
più
difficile di quanto avesse immaginato, poi, riuscire a comunicare al
Coordinatore Foyer i pochi elementi utili che i due erano riusciti a
notare. Se
n’era andato prima che i Liberatori potessero purificare
completamente il corpo
dei due malcapitati, perché quello che sarebbe successo dopo
non lo avrebbe
potuto sopportare. Del resto non c’era molta scelta, quando
un’anima veniva
trafugata: o si lasciava la vittima a sé stessa,
permettendole così di
trasformarsi in un mostro affamato di anime altrui, oppure si stroncava
quel
che restava della sua misera esistenza e si concedeva alla Madre di
riprendersi
ciò che di diritto le spettava.
–
Li hanno presi, poi, i ladri? –
gli chiese Regan in tono assolutamente casuale, tanto che sarebbe stato
difficile per chiunque sospettare che lo avesse fatto di proposito, per
risparmiargli quella parte che non aveva nessuna voglia di raccontare.
Ma Shin
non era chiunque.
–
Li hanno presi, sì. Ma il
bottino era già sparito e non sapevano nemmeno loro per
conto di chi avessero
lavorato. Hanno preso i soldi e basta. –
Vide
la curiosità scintillare
repressa negli occhi di lei, le sue labbra dischiuse come in procinto
di fare
altre domande, che però non vennero.
–
Poi mi hanno convocato a
Medilana – riprese allora lui. – In
realtà è stato per una sciocchezza, ma tra
una cosa e l’altra sono passate altre due settimane.
Intendevo scriverti,
davvero, ma non mi sembrava di avere niente di interessante da
raccontare,
quindi… –
Regan
sbuffò e il suo respiro
divenne una nuvoletta evanescente. Il clima era ancora freddo, anche se
non
come in pieno inverno, e il cortile della Quercia
d’Argento era stato disseminato di alti bacili
pieni di tizzoni ardenti che
fiammeggiavano vivacemente per riscaldare i temerari che sceglievano di
mangiare all’aperto.
–
Un giorno ti nomineranno
Coordinatore Generale e io lo verrò a sapere per caso, e tu
mi verrai a dire
che non ti sembrava una cosa interessante da raccontarmi. –
Shin
rise e riempì di birra i due
boccali che aveva davanti.
Il
giardino della taverna era
piccolo, quadrato, circondato da un muretto in pietra alto poco
più di una
persona su cui l’edera proliferava libera e che tratteneva
all’interno dello
spiazzo che circoscriveva una vivace sinfonia di chiacchiere e
stoviglie in
movimento. C’era una grande quercia al centro del giardino,
solida e
rigogliosa, che con le sue fronde ombreggiava la dozzina di tavoli
sparsi
tutt’intorno. Nessuno sapeva esattamente quanto fosse
vecchia, ma era già lì
quando, ancora all’epoca dei Monarchi, era stata costruita la
prima taverna, e
tutti sostenevano che il suo tronco rugoso fosse sempre stato di quello
strano
colore slavato, un grigio quasi argenteo, in onore del quale la locanda
era
stata battezzata. E c’era anche una gabbia, costruita proprio
attorno a uno dei
rami più bassi dell’albero, in cui si agitavano
degli uccellini piccoli e tondi
come mele selvatiche, di colori che variavano dal bruno a un bianco
azzurrino.
Il loro canto era meraviglioso, ma terribilmente malinconico.
–
Usignoli di Almaris – spiegò
Shin, notando che Regan li fissava. – Una specie che non
esiste più, allo stato
selvatico. –
Regan
non distolse lo sguardo.
Sembrava improvvisamente triste, dimentica del piatto colmo di
leccornie che
aveva davanti. Non occorse domandarsi il perché.
–
Non abbiamo mai avuto modo di
parlare di quello che è stato di te durante la tua clausura
alla Corte, io e
te. –
Regan
smise di rimestare la sua
zuppa, i suoi muscoli si irrigidirono.
–
Lucius non ti ha detto niente?
–
–
Le cose hanno un valore
diverso, recepite tramite intermediari. –
Non
glielo stava chiedendo per
curiosità. Sapeva già tutto quello che
c’era da sapere. Voleva solo che fosse
lei a raccontarglielo, perché era giusto così e
voleva sentire la storia così
come la aveva vissuta lei.
–
Non c’è granché da raccontare.
Non ero tanto diversa dagli oggetti che c’erano con me in
quella stanza: me ne
stavo lì ad aspettare che il tempo passasse e…
non so, prima dell’arrivo di
Derian non ho nemmeno dei ricordi precisi. –
Un’alzata di spalle accompagnò la
ripresa dei movimenti circolari del cucchiaio nella ciotola mezza
piena. – Tutti
i giorni erano uguali, le stesse solite tre facce: Isabel che mi
portava da
mangiare, Desmond che passava a controllare se per caso da un giorno
all’altro
io non dessi segno di possedere qualche potere, e quel ragazzo dagli
occhi
spietati… Samael. Lui si fermava sempre sulla porta con aria
annoiata,
aspettava che Desmond si accertasse che io fossi ancora del tutto
inutile e poi
se ne andava con lui senza dire una parola. –
Shin
rimase impressionato da come
lei gli parlò di quelle persone: due di loro non erano che
un nome; l’altro,
invece, doveva averle lasciata impressa una sensazione più
profonda, anche da
lontano, senza alcun contatto diretto.
“Quel ragazzo dagli occhi
spietati.”
–
Non so perché Desmond non abbia
mai tentato di sottrarmi il potere che c’è
racchiuso in me, se era davvero per
quello che mi teneva prigioniera. A volte era così frustrato
che temevo mi
avrebbe fatta sgozzare pur di non perdere altro tempo con me.
–
Shin
non era sicuro che
l’incuranza con cui Regan parlava del suo potere
fosse un fattore positivo. La conosceva bene, ormai, e non lo
rassicurava
vedere con quanta leggerezza citava quella che a tutti gli effetti era
un’essenza di male puro incastonata dentro di lei, confinata
dalla sua
innocenza.
Non
sarebbe rimasta tale ancora a
lungo, purtroppo.
–
A volte mi sarebbe piaciuto.
Essere sgozzata, intendo, o morire in qualunque altro modo. Non per
disperazione, dato che non conoscevo altra vita al di fuori di quella,
ma solo
per… sai, solo per non dover vedere un altro giorno uguale a
tutti gli altri.
Ma poi… – L’accenno di un sorriso
nostalgico le stiracchiò le labbra. – Poi
è
arrivato Derian, e tutto è diventato più
sopportabile. –
Anche
di lui Shin sapeva tutto:
il suo sangue era stato immune ai veleni e per questo il suo stesso
padre, a
corto di denaro, lo aveva venduto a Desmond in cambio di una cospicua
somma, e
infine, dopo anni di reclusione e sevizie, era stato ucciso per motivi
ancora
oscuri, morendo tra le braccia impotenti di Regan, che assieme al suo
ultimo
respiro aveva raccolto anche il suo dono
dell’immunità ai veleni.
–
Anche nella sua vita libera,
Derian non aveva visto molto del mondo. I suoi orizzonti erano molto
ristretti:
suo padre gli stava insegnando a fare il mercante. A lui non piaceva,
ma lo
faceva comunque, perché la sua famiglia aveva bisogno di
soldi. E l’hanno
ringraziato svendendolo come una partita di lana al miglior offerente.
–
Shin
deglutì un sorso di birra.
–
Ti rincresce per lui più che
per te stessa. –
Non
era una domanda e quindi non
necessitava di una risposta.
Regan
spinse via la sua zuppa
senza finirla e si appoggiò con il viso ai palmi,
sconsolata. Donna Melyor le
avrebbe urlato dietro per ore se solo la avesse vista con i gomiti
appoggiati
alla tavola.
–
Non so perché… –
Shin
sorrise. Anche il suo piatto
non era ancora rimasto vuoto.
–
Lo so io. Per quanto misera, la
sua vita al di fuori della Corte aveva un suo scopo, le sue piccole
gioie. Tu,
invece, eri proprio come quelle povere bestiole – fece un
cenno con il capo
verso la gabbia degli Usignoli. – Non avevi mai conosciuto
altro che la
cattività, le tue quattro pareti. Non avresti mai saputo
cosa ti stavi
perdendo. –
Erano
parole strane da ascoltare.
Dette da un altro, le sarebbero parse brutali, forse addirittura
crudeli, quasi
chi le aveva pronunciate trovasse irrisorio il fatto che lei avesse
trascorso
gran parte della sua vita segregata in una stanza. Eppure sulla voce
pulita di
Shin avevano un suono meno amaro.
–
Il mondo che ho conosciuto
attraverso i ricordi di Derian ha reso la prigionia più
amara, ma almeno
qualcosa ha acquisito un senso. Non ero niente prima che arrivasse lui,
capisci? – Sollevò lo sguardo e nei suoi occhi
neri trovò un bagliore di
comprensione. – Non sapevo niente di quel che c’era
là fuori, non potevo sviluppare
delle mie idee, delle opinioni… accettavo tutto
così com’era, perché non sapevo
che ci potesse essere una vita diversa da quella. –
Le
venne un groppo alla gola e
ricordare quanto vuoti e sterili fossero stati quei giorni. Quegli anni. Era stata una bambina, eppure non
ne aveva memoria. Non ricordava come ci si sentisse ad essere piccoli,
come
fosse l’infanzia. Dopotutto non poteva nemmeno dire di averne
avuta una.
–
È ironico che io mi sia resa
conto di quanto sola fossi sempre stata solo quando ho avuto qualcuno
al mio
fianco, vero? – sospirò.
–
Come ho detto prima: non può
mancarti qualcosa di cui ignori l’esistenza. –
Regan
non era del tutto convinta
che fosse vero, ma non disse niente. Non aveva voglia di discorsi
così
impegnativi.
–
Come credi che stia andando il
colloquio di Lucius con i Dresden? –
Nonostante
Shin fosse un maestro
dell’impassibilità, avvertì comunque in
lui un accenno di disagio.
–
I Dresden non sono famosi per
la loro ragionevolezza – ammise. – Puoi star certa
che dal momento in cui
sapranno della tua esistenza il loro scopo sarà averti con
sé. Probabilmente le
cose sarebbero più semplici, se tuo padre non fosse stato un
Edelberg. –
Regan
gli fu grata per la
schiettezza, per averle risparmiato delle rassicuranti bugie che non le
sarebbero
state di alcun aiuto. Era una cosa che aveva imparato presto ad
apprezzare, in lui:
diversamente da Lucius, che cercava sempre di proteggerla da qualunque
cosa, Shin
le concedeva la possibilità di affrontare la
realtà e imparare a sostenerla da
sola.
–
Non possono decidere al mio
posto, vero? Voglio dire, ho compiuto la maggiore età, sono
formalmente adulta.
–
Qualcosa
di simile alla paura le
tremava nelle mani. Strapparla a Norden avrebbe significato portarla
via a
luoghi che aveva imparato a conoscere e amare, alle amicizie che vi
aveva
trovato. Sarebbe stata lontana da tutto ciò che amava.
Da Lucius…
–
Ufficialmente fino al
matrimonio sarai sotto la tutela della tua famiglia –
puntualizzò Shin. – Senza
contare che ti fai chiamare Edelberg, adesso, ma
c’è anche sangue Dresden nelle
tue vene e i tuoi nonni probabilmente si batteranno perché
tu porti il loro
cognome. –
Dresden.
Gente del Sud. Regan si
sforzò di immaginarsi a passeggiare su una spiaggia
assolata, la sabbia rovente
e le onde tiepide del mare ad accarezzarle i piedi, ma non ci
riuscì.
–
Possono davvero portarmi via da
qui? –
Più
che una domanda, suonò come
una preghiera. Shin, tuttavia, non le mentì, anche se la
risposta non era
quella che lei avrebbe voluto sentire.
–
In mancanza di prove concrete
di un legame matrimoniale tra i tuoi genitori, sì.
Passeresti sotto la loro
tutela fino al giorno in cui ti sposerai. –
–
Non voglio lasciare Norden. Non
possono costringermi! –
Si
alzò. La gabbia degli Usignoli
era vicina al loro tavolo; la raggiunse in pochi passi, portando con
sé un
pezzo di pane che iniziò a sbriciolare per gettarlo oltre le
fessure tra una
sbarra di metallo lavorato e l’altra. Subito gli uccellini
accorsero a
contendersi il pasto inaspettato e lei li compianse esattamente come
una volta
compiangeva sé stessa. La gabbia era davvero splendida,
riccioli di metallo e
spirali che si intrecciavano e dividevano segnando un invalicabile
confine tra
il ristretto spazio che custodivano e la libertà.
C’era solo un minuscolo
chiavistello a sigillare quel sottile confine. Lo sfiorò con
le dita, meditando
su chi si fosse assunto il pretenzioso diritto di decidere che quelle
creature
dovessero stare lì dentro.
Shin
soggiunse alle sue spalle,
silenzioso come un felino. Non lo vedeva, ma poteva avvertire la sua
presenza,
la sua ombra sulla schiena.
–
Non è il caso di preoccuparsi
adesso. Lucius saprà gestire la situazione, e comunque non
dipende solo da lui,
né dai Dresden – la rassicurò.
Regan
gettò le ultime briciole agli
uccellini, ascoltando i loro cinguettii entusiasti, poi finalmente si
decise a
seguire Shin verso l’uscita. Pagarono tre corone a testa
all’oste dietro al
bancone nella sala interna e furono salutati con ossequi degni di re,
infine
abbandonarono i profumi speziati della locanda per ritornare
all’aria aperta. I
loro cavalli erano legati alla rastrelliera all’ingresso, a
riposare pacifici
all’ombra del tetto di paglia.
Quando
Regan slegò la puledra,
questa si ribellò, strattonando le briglie fin quasi a
fargliele sfuggire di mano.
Shin rise mentre lei la rimproverava.
–
Avete lo stesso carattere. –
Regan
lo fulminò con un’occhiataccia.
–
Cosa staresti insinuando,
esattamente? –
Shin
ebbe il buonsenso di montare
in sella senza rispondere. Lei fece lo stesso.
–
Sai, stavo pensando di
chiamarla Morrien. –
–
Come la prima stella della
sera? Sì, le dona. –
–
Morrien – si ripeté Regan,
accarezzando il collo caldo dell’animale. La puledra
accennò un’impennata prima
di incamminarsi al seguito di Shin e del suo Vento. –
Sì, direi che le piace. –
Si avviarono a passo
tranquillo verso il
mercato sotto a un cielo turchino e un sole tanto luminoso da ferire
gli occhi.
Alle
loro spalle, nel giardino
sul retro della locanda, una folata di vento spalancò lo
sportello della gabbia
degli Usignoli di Almaris che qualcuno, accidentalmente, aveva
dimenticato
aperta.