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Autore: 1984    26/04/2014    1 recensioni
Nimue ha solo una chiave, una semplice ed innocua chiave, donatele da una strana vecchietta.
E grazie a quella chiave la sua vita cambierà per sempre.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dalek, Doctor - 10, Master - Simm, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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*
Corro a più non posso.
Poi mi fermo. Ho il fiatone, ma sento che non dovrei fermarmi; dovrei continuare a correre. Poi mi guardo intorno e a malincuore mi raccapezzo: non conosco questa strada, non conosco questa gente, non conosco questo maledettissimo posto. Sarei una stupida se continuassi a correre verso una meta imprecisata, se non verso casa.
La mia nuova casa. E spero definitiva. Mamma ha fatto di tutto per trasferirsi qui, un posto tranquillo, poco abitato e soprattutto silenzioso - il che conta non poco visto che l'ultima volta ci siamo trasferiti vicino a una stazione ferroviaria. Ho corso parecchio e ormai la casa della vecchia dista abbastanza da farmi sentire al sicuro.
Apro la mano sinistra chiusa a pugno di scatto, con un moto di repulsione. La chiave è ancora con me e mentre scappavo l'ho stretta a più non posso, come se mi stessi aggrappando a un oggetto amico. Ma questo oggetto proprio non mi piace. Emana un non so che di assolutamente normale e, al contrario, di sbagliato. Come se questo non fosse il suo posto, come se fosse stato rubato o sottratto ai veri proprietari.
Lo raccolgo. E' solo una stupidissima chiave di ferro, una di quelle che non danno mai nell'occhio, sembra quasi una di quelle chiavi che da piccola utilizzavo per chiudere diari segreti o salvadanai rosa confetto, solo più grossa e incrostata di ruggine. Sono tentata di gettarla lontana, verso il bosco, ma non lo faccio. La ficco in tasca mentre mi allontano, procedendo lentamente verso casa.
Trovo mamma ad aspettarmi sui gradini di casa, furiosa. «Non mi stupirei se i vicini ti avessero davvero uccisa», esclama sarcasticamente alzandosi.
«Scusa se ci ho messo tanto», dico.
«Beh, ti ho lasciato il pranzo in cucina, ora devo andare, ma con te faccio i conti dopo», dice allontanandosi. Non ho idea di quanto tempo ci abbia messo, ma per mamma il tempo è più importante di quanto si creda: ha orari e turni precisi da rispettare e mi capita spesso di mangiare da sola con papà, che al contrario lavora di notte. Sbuffo ed entro in casa. Trovo mio padre in cucina, intento a montare il tavolo. «Papà, devi proprio montarlo adesso?». Lui mi guarda di sbieco e si sistema gli occhiali con l'indice. «Certo. Ma... ora non ho tempo, Nimue. Mangia sul divano».
Ottimo, davvero ottimo. L'unica cosa che è riuscito a montare decentemente mio padre è il divano.
I letti li abbiamo montati io e mamma, un lavoraccio, ma ne è valsa la pena, altrimenti dovremmo dormire sul pavimento. Mi accoccolo sul divano e pranzo con piazza fredda e succo di frutta.

** «Oh, questo non è per niente da considerarsi un buon segno». «E si da il caso che sia mezz'ora che cerchi di dirtelo, mio prode cavaliere».
Sbuffo.
Odio quando il Dottore è troppo occupato ad ascoltare i suoi di pensieri, invece che le mie lamentele. Io non mi lamento mai senza un motivo, devo ricordargli anche questo?
«Cavi... è solo una questione di cavi, ne sono più che sicuro, deve essere per forza questo il problema», dice alzando le sopracciglia per poi riaggrottarle subito dopo. Alza un braccio, l'aggeggio luminescente che manda strani raggi blu.
«Aaah... togliti di lì», mi urla una frazione di secondo dopo. Abbasso la testa appena in tempo per evitare una specie di corda rossa partita da chi sa dove che si va a schiantare contro un groviglio scomposto di altre simili corde.
«Cavi che si staccano, questo è il problema!».
«Tu sì che sei un uomo capace di prevedere il futuro», esclamo infuriata. Odio quelle corde che lui chiama cavi. Spuntano dappertutto e mi circondano come sanguisughe. Alzo lo sguardo e lo osservo trafficare con leve e levette, senza concludere nulla che io possa constatare visivamente, poi si blocca, si gira verso di me e mi fissa in modo enigmatico.
«Ora ho capito. Sei tu il problema».
Alzo un sopracciglio. «Io?!».
«Sì, tu. In verità il problema non sei tu, ma ciò che hai in tasca».
«Non ricominciamo...», sospiro, spazientita.
«Cosa hai detto esattamente quando hai raccolto quel groviglio di ferraglia prima di scappare via inseguita da un intero esercito di uomini pronti a sgozzarti?», domanda. Colgo una punta di sarcasmo e ciò non mi piace affatto.
«Non ha alcuna importanza, ora. Devi riuscire a riportarmi a casa, me lo hai promesso e io non starò qui ad aspettare con le mani in mano mentre fai precipitare questa macchina infernale...».
«Il suo nome è TARDIS, non offendere ciò che ti ha salvato, mia cara maga da quattro soldi». Vorrei non dargliela vinta, ma alla fine cedo: «Ho già visto questa... cosa. Non so spiegarti né come, né dove. Ma... ecco, io l'ho già stretta tra le mani, l'ho già... trovata».
«E tutto questo non rappresenta un buon segno. Ah, se solo fosse stato un semplice problema di cavi... Ora dammela», il suo sguardo si è fatto improvvisamente serio e concentrato su di me, su ciò che nascondo. Mi sfilo un guanto e recupero la massa informe di ferraglia arrugginita dalla tasca foderata del mio abito e gliela porgo. Poi mi risiedo sullo scalino forellato e circondato di cavi. Lui tira fuori quella sua specie di torcia rimpicciolita e dalla strana luce blu ed esamina il pezzo arrugginito.
«Ah! Ma questo è molto più di ciò che mi ero immaginato! Lady Nimue, ora ho capito, ma... oh, cosa succede?».
Non lo seguo più, sono accasciata sullo scalino, la testa in fiamme.

Gli occhi mi hanno sempre affascinata. Ce ne sono di vari tipi di forme, dalle ciglia lunghe e folte, ma anche sottili e rade.
Una volta, da bambina, mi capitò di incontrare uno straniero arrivato da chi sa dove nel nostro villaggio. Quando si girò a guardare quella bambina vestita di stracci e dai capelli arruffati che ero stata un tempo mi accorsi che aveva gli occhi più strani che avessi mai visto: di un nero così profondo inespugnabile che mi fece molta più paura di ciò che mia madre raccontava nelle sue fiabe per tenermi buona la sera.
Ora, mentre spalanco pian piano gli occhi - occhi, i miei, di un azzurro indefinito che ho sempre disprezzato – non posso fare a meno di provare quella stessa paura infantile che mi travolse quell'unica volta in cui incontrai lo sguardo di quello straniero. Perché io ho già visto gli occhi che ora mi guardano sorridenti e sereni, ma al tempo stesso profondi e... infiniti.
«Quell'uomo, quell'uomo eri tu!», urlo disperata.
Il Dottore scoppia a ridere. «Oh, lady Nimue, ci sono cose di me che non immagini neanche. O dovrei chiamarti piccola Nimue un po' cresciuta?».
Il suo arrivo al villaggio in cui abitavo con mio padre e mia madre era stato seguito da distruzioni e macerie e ciò non doveva essere certo una coincidenza. «Perché ridi? La mia intera esistenza è cambiata da quando la mia famiglia e la mia casa vennero distrutte da quelli esseri... inumani».
«Quelli esseri, come tu li definisci, non erano altro che Dalek, e i Dalek non sono degni nemmeno di essere chiamati inumani», dice alzandosi. «Vedi, a volte si devono fare delle scelte... scelte che possono portare all'estinzione o un intera specie o... un piccolo villaggio. La morte dei tuoi genitori e di tutte le altre persone, animali, insetti e vegetali di quel piccolo tratto di terra portò la Terra stessa a non scomparire. Lady Nimue, ricordi cosa ti salvò dalla morte quella volta di tanti anni fa?», chiede con un pizzico di dolcezza, appoggiandosi alla ringhiera. Lo guardo disperata.
«Quella ferraglia una volta non era... è stata quella chiave a salvarmi. Lo ricordo perfettamente. Me la diede il vecchio del villaggio, lui sapeva, tu... tu gli avevi detto ogni cosa e gli avevi dato una speranza di salvezza. E lui preferì salvare una piccola bambina vestita di stracci e spaventata invece che... Oh», la voce mi si spezza e scoppio a piangere. Rivedo mia madre, i suoi occhi vividi e limpidi, intenta a mostrare solo a me la sua spilla d'oro, unico ricordo di quella che un tempo fu la sua casata; e poi mio padre, mani sporche di terra e animo velato di tristezza, colui che aveva amato mia madre più di quanto avrebbe mai dovuto fare... «Io non sono una lady, ti prego di non chiamarmi mai più così, ma Dottore, cosa succede?», domando.
Sono spaventata, i suoi occhi profondi ora brillano di una strana luce sinistra, le sopracciglia sono aggrottate. Mi sorride debolmente.
«Vedi, Nimue, io non ho mai dato al vecchio del tuo villaggio questa chiave, non gli ho mai raccontato del destino che vi avrebbe colpito. Ora, Nimue, devi fidarti assolutamente di me, anche se tutto ciò che vedrai non avrà senso. E ciò che vedrai non avrà alcun senso, te lo garantisco. Fidati di me e ti prometto che riuscirai a tornare sana e salva a casa».
Mi aggrappo alla mano che mi porge e non posso non fidarmi dei suoi occhi, così come non posso non fidarmi di lui.
   
 
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