Capitolo
7
È
una mattina da inizio
estate, e non da fine, un giorno più primaverile che
autunnale. Elsa osserva il
cielo azzurro intenso attraverso le finestre piombate, tamburellando
l’indice
contro la coscia. A malapena lo avverte, attraverso il velluto pesante
del
vestito; con ogni tap, un singolo fiocco di neve
cade ai suoi piedi.
Nell’ incubo, Hans la sovrasta, e le rompe il naso.
Elsa
scuote la testa,
permettendo alla luce tiepida del sole di inondarla, e sospira,
attraverso il
naso, riservata. Si volta via dalla finestra, la città che
si sveglia, il
fiordo che luccica, e continua giù per il corridoio. La
porta della stanza di
Anna è ancora chiusa. Si ferma, appoggiando
l’orecchio alla porta. Sente un
russare soffocato e fa un sorriso, piccolo e luminoso. Poi va avanti.
Il
corridoio dei ritratti si
allunga infinito davanti a lei. Lo percorre nervosa, ignorando gli
occhi
accusatori, le bocche sottili, quasi afflosciandosi per il sollievo
quando
raggiunge la biblioteca, la porta bianca si apre, la porta bianca si
chiude.
Era presto, e i servitori non avevano ancora iniziato le proprie
faccende. La
finestra chiusa, il fuoco spento. Agita la mano, e un venticello gelido
apre
piano la finestra. Il tenue scampanare e le urla dei mercanti arrivano
fino a
lei.
Elsa
si avvia alla
scrivania. Ecco la missiva. Sembra stupido, non aprirla adesso, dopo
quello che
era riuscito a fare la scorsa notte. Si sistema sulla sedia a schienale
alto,
contro l’imbottitura sontuosa color porpora, e riesce a
immaginare suo padre,
seduto nella stessa posizione, che la guardava placido quando apriva la
porta,
e quando si aggiustava i guanti.
Elsa
prende la lettera a mani
nude, e spezza il sigillo.
A
Sua Altezza
Reale, Regina Elsa di Arendelle,
Non
esistono
precedenti di perdono per eventi gravi quanto le azioni di mio
fratello, ma
posso solo sperare che possiamo—e che lo faremo,
davvero—andare avanti. La
prego di accettare le mie più sentite scuse, e la prego di
accettare le gentili
richieste dei miei ambasciatori, Viktor e Tomas, due dei miei fratelli,
che
invio in mia vece per aiutarci a stabilire la pace dopo questo
terribile
evento. Sappia che è tutto quello che desidero.
Una
grossa firma, piena di
svolazzi, poi: Re Alfons delle Isole del Sud.
La
carta si ghiaccia attorno
ai polpastrelli. Elsa riesce solo a pensare no. Non
vuole intrattenere
altri fratelli. È contenta di continuare a vivere come se le
Isole del Sud non
esistessero, ed è abbastanza sicura che sua sorella sia
dello stesso parere.
Guarda fuori dalla finestra, il porto.
La
porta bianca si apre. La
porta bianca si chiude.
Si
sveglia congelata,
raggomitolata su un lato del letto. C’è una specie
di dolore persistente che le
parte dal petto e arriva alle spalle, un pulsare soffocato che inizia
più o
meno dalle parti del cuore. Geme. Ha la bocca che sa di fieno.
Urgh.
Schiocca
le labbra,
sedendosi e sbadigliando. Ha la pelle d’oca sulle braccia, e
controlla—però no,
la finestra è chiusa, e non c’è
ghiaccio sul pavimento, e non sta guardando
quel baldacchino di un blu orribile. Tutto è leggermente
disordinato e molto
molto suo. Il cuscino che Kristoff aveva usato giace ancora sul
pavimento.
Non
sa. Non sa un sacco
di cose e parte di lei dice, sicuro, vai avanti, prosegui, e parte di
lei dice,
wooooh, ricordi quello che è successo l’ultima
volta, vero, con la porta e
l’idiota e il Non vedi? L’ho
già fatto, te lo ricordi, vero? Potrebbe
succedere di nuovo! E le due parti di lei se la risolvono a pugni, ma
sono
tutte e due, cioè, davvero brave a lottare, quindi
non—non è che—
E
metti anche il fatto che a
lei, beh, piace stargli attorno—un
sacco—
Anna
dondola i piedi da un
lato del letto e li pianta a terra, rabbrividendo tutta. Il dolore
è diminuito,
ora; abbastanza da mantenersi al margine e permetterle di ignorarlo
quasi
completamente. Va verso l’armadio e indossa maniche lunghe, e
gonna pesante,
domando i capelli in qualcosa di quasi accettabile. Fuori il corridoio
è vuoto,
il sole che lo inonda e il cielo azzurro del mattino oltre le finestre
piombate. Anna pattina coi calzini, scivolando nel corridoio dei
dipinti, corre
fino alle porte della biblioteca. Le apre, aspettandosi di trovare sua
sorella
appollaiata dietro la grande scrivania di mogano con
un’espressione fredda,
come quello che suo padre aveva sempre, ma invece è vuota.
Aggrotta le
sopracciglia.
Kristoff
non era Hans,
e non sarebbe mai stato Hans, e la più grossa parte del suo
cervello che lo
sapeva, lo sapeva davvero, ma c’era
anche quella parte di lei che non
voleva essere messa in imbarazzo, o presa in giro; che
all’improvviso non aveva
idea, di cosa fosse l’amore, nonostante l’avesse
visto tutti quegli anni—beh,
almeno nei dipinti, no?
Scivola
via da dove è
venuta, lasciando le porte bianche che oscillano aperte-chiuse dietro
di sé,
fiondandosi nel corridoio dei ritratti. Perde l’equilibrio e
inciampa perché va
di fretta, spiaccicandosi con un oof e un ohi
sul pavimento duro.
Si alza, massaggiandosi la testa con un sussulto, ed eccolo
lì.
I
suoi genitori sembrano
sereni.
Si
erano amati, vero?
All’improvviso
era davvero
incredibilmente importantissimo che lo sapesse—
Si
lancia nel corridoio
esterno, spalancando la porta della stanza di Elsa appena è
lì, ma è vuota,
l’armadio ancora spezzato e smantellato. Passa oltre,
giù per le scale, ed
ecco—"Gerda! Gerda, hai visto Elsa?"
"No,
io—"
"
'kay, grazie,
ciao!" si catapulta oltre, saltando sul corrimano della scala curva
come
aveva fatto altre cento volte prima. Giù, scivola. Era
importante che lo sapesse.
"Kai!"
"Vostra
altezza?"
l’uomo sobbalza, stropicciando la pergamena che ha tra le
mani e mandando via
alcuni dei servi riunitisi, mentre si preparavano per i compiti della
giornata.
Anna veleggia giù per le scale finendo dritta dritta
nell’armatura più vicina.
Si ridà un contegno. "Hai visto Elsa?"
Si
acciglia, allacciando le
mani dietro la schiena. "Ora che ci penso, no."
Anna
geme frustrata, perché
doveva saperlo e basta, e forse
voleva anche qualche consiglio su
Kristoff, su come si doveva sentire, perché come
faceva lei a—
"La
regina?" C’è
una guardia accanto alla porta. Non lo riconosce. Probabilmente uno del
nuovo
gruppo, cortesia dei cancelli aperti. "Si è diretta al porto
con un
piccolo contingente."
"Il
porto?" Anna
aggrotta le ciglia. "Huh. Che strano."
"è
urgente, Principessa?"
Kai domanda, arrotolando la pergamena. "Posso dare ordini
affinché la
accompagnino—"
"No.
Grazie,
comunque," sorride, afferrandosi la mano sinistra con la destra. "No,
allora—vado—le stalle."
E
questa volta, non corre.
"Regina
Elsa!"
qualcuno grida.
"Vostra
maestà,"
un uomo con spesse sopracciglia e l’aria da fabbro si inchina
al suo passaggio.
Fa un sorriso riservato. Un cenno col capo a qualcun altro. Un piccolo,
quasi-saluto con la mano.
"E’
la Regina!" le
arriva un’altra voce, da dietro, forse—non
può esserne sicura. La lettera sta
scavando una buca nella sua tasca, e le mani nude muoiono dalla voglia
di
essere coperte. Ci sono troppi occhi, troppe cose che potrebbero andare
storte.
Un venticello gelido agita la gonna, all’altezza dei piedi,
ma sembra che le
due guardie—una per ogni lato, e dietro a breve
distanza—non l’abbiano notato.
C’era
una libertà
inebriante, qui; una che le ricordava la cima delle montagne.
Attraversano
la piazzetta
fino al porto con le banchine di legno, dove le enormi navi dondolano
placidamente cullate dal vento sulle acque al largo, calme. Non una
nuvola in
vista. Osserva di sottecchi alcune bandiere—un sole, fregiato
su uno sfondo
viola; una croce allungata, tricolore; il bianco di un mercante
neutrale—ma
nessuna con il simbolo della famiglia reale delle Isole del Sud.
"Vostra
maestà!"
proclama una voce roca, segnata dalle intemperie. "Quale sorpresa!"
Si
volta. In cammino verso
di lei c’è un uomo magro come un palo, pelle scura
e bruciata dal sole, occhi
vividi e acuti, che indossa un cappotto lungo fregiato di oro e blu e
un
cappello a tricorno con una piuma elegante. Si ferma, rispettoso, a
parecchi
passi di distanza, questo capitano che aveva sorvegliato e gestito il
porto fin
da quando regnava suo padre. È consapevole della folla che
si riunisce nella
piazza alle sue spalle, che indicano, che fissano—la
regina, la regina—
Il
vento si alza.
"Mastro
Olin,"
dice, consapevole di avere sul volto l’onnipresente sorriso,
piccolo ed
educato. "Mi spiace per la visita inaspettata—"
"Vostra
maestà è sempre
la benvenuta al porto," urla allargando le braccia, indicando le navi.
"Ora, in cosa posso servirvi?"
"Sto
cercando la nave
del Principe Albert."
"Ah,
le Isole del Sud,
sì." Olin fa un passo avanti, poi due. Le guardie si
irrigidiscono. Il
capitano di porto abbassa la voce e dice, quasi in tono cospiratorio,
"Abbiamo messo la nave sotto stretta sorveglianza, dopo…gli
eventi
precedenti. Sta subendo grosse riparazioni." Indica una nave
più lontana,
ancorata al molo, dove degli uomini sciamano sul ponte e sulle funi.
Uno degli
alberi è crollato di lato. Le si stringe lo stomaco.
"Quanto
tempo ci vuole,
perché possa mettersi in mare?" chiede.
"Una
settimana, magari?"
Il capitano di porto sospira, grattandosi il mento.
Elsa
fa cenno di sì col
capo, la stima le fa precipitare lo stomaco nelle budella. Non ce
l’aveva, una
settimana, non se voleva intercettare la visita di questi—ambasciatori.
Cosa che voleva fare, con tutto il cuore. "Grazie, Mastro Olin." Sta
quasi per continuare lungo il molo, verso la nave in questione, ma si
ferma,
proprio prima di fare il primo passo. "E tutto il resto come
procede?" chiede lentamente.
"Bene,
vostra
maestà," Olin risponde con un sorriso deciso. "Grazie per
averlo
chiesto."
Annuisce,
come fa sempre, le
labbra increspate da un quasi-sorrisetto, prima di stringere le mani
avanti a
sé e a proseguire sul molo. Tiene la schiena completamente
rigida. Ci sono
troppe persone e troppi modi in cui tutto potrebbe andare
storto—è poi è spinta
all’improvviso di nuovo nel presente, con il ricordo del
fatto che tutto quello
che poteva andare storto già l’aveva fatto, e che
tutto ciò che volevano queste
persone era solo una Regina. Alza gli occhi, alle fondamenta della
città, ed
eccoli lì riuniti—giovani, vecchi, alti, bassi.
Saluta con la mano, e fanno un
largo sorriso.
"La
regina mi ha appena
fatto ciao con la mano!" strilla uno dei ragazzi più piccoli.
Posso
farcela,
Elsa dice tra sé e sé, voltandosi di nuovo. La
nave
si avvicina. Sono la regina, pensa, anche se lo
stomaco sobbalza e le fa
male, con un’ansia tremenda. Oltre gli sguardi avidi,
bramosi, del suo popolo,
c’erano quelle navi, alte, silenziose. Non riusciva ad
affrontare le navi,
proprio come non riusciva ad affrontare il ritratto al castello, nel
corridoio
dei dipinti. Due settimane, le avevano detto.
È
abbastanza vicina da
distinguere i volti, ora, degli uomini che vanno avanti e indietro sul
ponte,
su per le funi, sull’albero. Erano impetuosi, usurati dalle
intemperie tanto
quanto Olin, con occhi acuti, scaltri. I marinai erano
un’altra razza, un tipo
di persone con cui raramente aveva avuto a che fare, un tipo di persone
che non
capiva. Il genere di persone che, sembra, non si facevano impressionare
da un
titolo nobiliare. Alza una mano. "Aspettate qui, per favore," ordina
alle guardie.
"Ma
vostra
maestà—"
"Ho
detto, aspettate
qui."
Si
fermano, ma lei non lo
fa, le scarpe che battono un ritmo nervoso, irregolare sul legno che
calpesta. La
nave è smisurata, sia per grandezza che per forma; ne
è intimidita. Due
settimane. Allunga il collo, restia a mettere piede sulla passerella.
C’è del
gelo che si fa strada dalle sue scarpette fino all’acqua che
sciaborda contro
la nave. "Mi scusi?" chiama.
L’uomo
più vicino a lei, sul
ponte, sobbalza. Guarda alla propria destra, poi a sinistra. Poi alla
fine
guarda in basso. Subito la scorge, ed Elsa se ne accorge, dal modo in
cui la
grossa bocca si piega impertinente di lato, dalle sopracciglia
incredule, dal
naso grosso—sta per dire qualcosa di cui si sarebbe pentito.
L’unica cosa che
lo salva è una fugace seconda occhiata—i capelli
quasi bianchi, pensa; forse la
corona. In ogni modo chiude subito la bocca, e si raddrizza, da che era
appoggiato alla balaustra, facendo un inchino brusco. "Vostra
maestà."
"Il
Principe Albert è a
bordo?" Non voleva salire su quella nave, non sarebbe salita su quella
nave.
"No,
vostra maestà. È
sceso in città più o meno n’ora fa."
"Grazie,"
annuisce
rigida. Clack, clack, clack, protestano le sue
scarpette, per tutta la
strada fino al molo, il ghiaccio che la segue severo, come una scia,
toccando
appena le acque vicino agli scafi delle navi, il vento vortica, la
temperatura
diminuisce.
Due
settimane.
Non
è nelle stalle. È nel
cortile, che carica la slitta su un carro, e controlla i finimenti di
Sven.
Anna si morde il labbro, afferrandosi la mano destra con la sinistra e
decidendo che no, avrebbe dovuto fare—cose da principessa,
tipo trovare sua
sorella, forse, o dare istruzioni ai paggi, o a imbandire la tavola, o
solo—qualcosa—
"Oh,
ehi, eccoti
qui."
"Eccomi
qui," ride
colpevole, fermandosi mentre si stava girando per andarsene e
ri-voltandosi
indietro. Oltre i cancelli aperti riesce a intravedere il mercato, gli
spigoli
del banco dei fiori; riesce a sentire lo sciacquio dell’acqua
sotto il ponte.
Guardare Kristoff le fa ritornare il dolore al petto in tutta la sua
forza.
Inizia a massaggiarsi la spalla tracciando cerchi lenti, masticandosi
l’interno
della guancia.
"Non
fa caldo,
qui?" le chiede, accigliato, così da sembrare un vecchio
barbone acido con
la tunica che cade a pezzi.
"Oh,
se intendi dire a
causa della mia presenza, grazie per averlo notato," ghigna, sollevando
suggestivamente un sopracciglio e ancheggiando. Il tutto finisce quando
sporge
il piede un po’ troppo e il paggio più
vicino—che porta un cesto per il
mercato, o roba del genere—cade a terra. "Oops! Mi dispiace,
ecco
qui—" lo aiuta a rialzarsi, senza sentirsi più
sofisticata. O aggraziata.
"Bello,"
Kristoff
fa in tono piatto, le palpebre mezzo abbassate e le sopracciglia
sollevate.
Tira su una sacca e la lancia nel retro del carro. "No, voglio dire,
non
hai tu caldo?"
"Stai
implicando che io
non sia attraente?"
"Non
sto—non è quello
che—hai addosso i vestiti invernali in estate."
"Prima
cosa, guardati
tu," dice, indicando la tunica, e i pantaloni pesanti, e gli stivali
ricurvi. "Seconda cosa, praticamente siamo a fine
estate."
"Non
l’ho detto a
nessuno," Kristoff dice sottovoce, ignorandola, "il fatto che hai
freddo. Ma è davvero così? Tutto il tempo?"
"Perché
dovrei
mentirti?" chiede, in tono noncurante.
"Avevi
più o meno preso
una botta in testa quando me lo hai detto—"
"Non
ho mentito,"
Anna dice, guardando di lato. Smette di premersi la spalla. "Non
è niente
comunque, ok? Non mento nemmeno se dico che distruggerò
personalmente tutto ciò
che ami se lo dici a Elsa. Ha già abbastanza cose di cui
preoccuparsi
così."
"Non
puoi distruggere
te stessa," Kristoff dice, premendo le labbra, e poi sembra rendersi
conto di quello che ha appena detto, perché
diventa rosso come un peperone.
Anna sente ancora le parole riecheggiare nel cervello. La fanno sentire
strana,
bizzarra; la spaventano. Quindi fa la cosa migliore da fare in questi
casi—l’ unica
cosa—
Allunga
il braccio per dare
una pacca amichevole, mascolina, sul braccio di Kristoff, e dice: "Stai
attento. Non farmi venire a salvarti di nuovo."
"Ti
provocherebbe più
guai di quanti ne valgo," fa lui subito dopo. Il broncio è
ancora lì, le
sopracciglia aggrottate. Si sta chiudendo in sé stesso, come
un fiore bruciato
dal gelo. Anna, mordendosi il labbro preoccupata, pensa che tutto
questo si
sarebbe potuto evitare se Elsa non avesse deciso di marinare la sala
del trono,
quel pomeriggio.
"Ehi,"
dice piano.
Kristoff si volta verso di lei, che lo bacia sulla guancia. "Dico
davvero.
Per favore."
Giura,
tracciandosi il
cuore. "Forza, Sven."
E
con questo, si incamminano
via dal cortile, lasciando Anna confusa, perché decisamente
non voleva essere
solo amica di Kristoff, ma come poteva essere
sicura—sicura dell’amore,
dopo—
Dopo
porte aperte1?
"Perché
le cose non
possono essere semplici," geme.
"Oh,
no, mi ha preso! E
con quest’ultima, io—muoio!"
Elsa
sente delle risate,
chiare e vivide alla luce del mattino, che scoppiano tra le case.
C’è un
sentiero, su cui le linee dritte delle costruzioni sui due lati
proiettano
l’ombra, ma oltre intravede un altro cortile—una
piazza interna, contornata da
case su ogni lato. Riesce appena a distinguere le estremità
scintillanti di una
fontana al centro, riesce appena a sentire lo scroscio
dell’acqua oltre le
grida deliziate dei bambini. Fa di nuovo un piccolissimo cenno con le
mani.
"Vostra
maestà,"
la guardia alla sua sinistra fa piano, "non possiamo
lasciarvi—"
"Preferirei
che
rimaneste qui, in modo da non spaventare i bambini." Non può
permettere
che le sue guardie la credano debole. Non lo è. E come per
ricordarglielo, un
vento gelido arriva dalle montagne lontane. La guardia alla sua destra
dice,
"Vostra maestà."
Annuisce
brusca.
I
passi riecheggiano sulla
strada polverosa. Non è in rovina, solo sporca, con un paio
di pozzanghere
stagnanti intorno ai canali di scolo, e un paio di casse di legno in
piccoli
gruppi. Elsa si stringe forte le mani, evitando i pericoli. Non era un
mondo a
cui era abituata, questo, e la brina che si forma sotto i suoi piedi lo
sa.
Entra
nella piazza,
stringendo gli occhi contro la luce del sole che si vede di nuovo.
Sbatte le
palpebre, cercando di riabituarsi alla luce prima di potersi guardare
attorno.
C’è
della biancheria stesa
su delle corde, in alto, alcune camicie sparse sul bordo della fontana.
Sembra
che ci siano altri accessi alla piazza, di fronte a lei, e alla sua
destra; una
taverna è all’altro capo sinistro, e riesce a
sentire le urla provenienti da
dentro, nonostante fosse presto. Due ragazzini, e una ragazzina, la
superano
correndo, i piedi che sbattono sulle pietre; la ragazza ha in mano una
spada di
legno. Un terzo bambino è appollaiato su una pila di
cassette, e urla, "Aiuto!
Salvatemi! Aiuto!"
E
poi si sentono altri
colpi—passi più grandi, più
forti—e la sagoma piuttosto ballonzolante del
Principe Albert la supera correndo a tutta velocità. La nota
all’ultimo
secondo, e tenta di voltarsi, ma inciampa sui propri piedi e cade
all’indietro
a terra, sbattendo con la testa sulle pietre e facendola sussultare. Ha
una
spada giocattolo infilata tra il braccio e la spalla.
"Sta
bene?"
rantola.
"Regina
Elsa!" il
Principe Albert si tira su a sedere immediatamente, ancora in buone
condizioni,
come se fosse solito cadere tutti i giorni e ci fosse, ormai, abituato.
"Non l’avevo—come—"
"Muori!"
la
ragazzina strilla, balzando come un lupo e atterrandogli sul petto,
schiacciandolo di nuovo a terra. Gli punta la spada alla gola.
"Mi
arrendo!"
urla, ridendo.
"Brutta
stupida!"
uno dei ragazzi che la bambina stava inseguendo urla, avvicinandosi per
scuoterle la spalla. "Non puoi continuare a giocare, non quando ci sta
la regina."
"Che
regina, non è
vero," risponde la ragazza, tenendo ferma la spada. "Solo questo
traditore che voleva rapire il principe!"
"Aiutatemi,
aiuto!" grida il ragazzo appollaiato sulle scatole.
Elsa
non riesce a
trattenersi—inizia a ridere. Si copre in fretta la bocca con
la mano.
"è
proprio lì,
guarda—Mamma sta dando di matto!"
E
come ci si poteva
aspettare, le donne che facevano il bucato alla fontana avevano
iniziato a
inchinarsi, e una stava urlando, "Petter! Mostra un
po’ di
rispetto!"
Il
ragazzo scende dalla pila
di scatole e fa un profondo inchino, impacciato. "Vostra
maestà."
"Hai
vinto questo
turno, Klara," il Principe Albert dice, tirandosi dolcemente su a
sedere,
e afferrando la bambina sotto le braccia. La rimette a terra. "Temo che
dovremo interrompere la nostra battaglia mortale per un po’."
Elsa
sente uno strattone alla
gonna. Guarda in giù, sorpresa. C’è un
altro bambino, col pollice piantato in
bocca. "Oh, salve," fa un piccolo sorriso. Ha grandi occhi blu,
proprio come li aveva Anna. "Come stai?"
"Sei
davvero la regina?"
le chiede col pollice in bocca.
Annuisce.
Si
toglie il dito dalla
bocca e le dà un altro strattone alla gonna. Elsa non ha
avuto contatti con
bambini da tanto, tanto tempo, ma adesso se lo ricorda, la
facilità con cui si
parla, la meraviglia che fa spalancare gli occhi; si inginocchia, senza
pensare
alla terra che le avrebbe sporcato le gonne. Il bambino le fa cenno di
andare
più vicino, e più vicino, e finalmente le
sussurra all’orecchio, "Fai la
magia?"
Magia.
Non maledizione. Magia.
Ma
poi pensa all’armadio
distrutto, a sua sorella trasformata in ghiaccio, a quegli anni senza
poter
abbracciare—toccare—provare—
Annuisce
lentamente. Sorride
quasi. "Sei pronto?"
Lui
fa di sì con la testa.
Si
ritrova a guardare il principe
Albert. Solo un’occhiata veloce, davvero, ma lui la sta
osservando con una
specie di sorriso sghembo, e gli occhi luminosi. Apre le mani per avere
qualcosa da fare, e sente il freddo camminarle nelle vene, fino alla
punta
delle dita. Fiocchi di neve scintillano tra esse, aggregandosi in una
palla
bianca brillante. Alza lo sguardo verso gli altri
bambini—Petter, che scende
dalla sua torre, Klara, che la osserva con aria scaltra—e la
lancia in aria.
Scoppia. Fiocchi delicati iniziano a cadere. I bambini gridano. Anche
gli adulti
rimangono a bocca aperta. Il principe Albert osserva la neve che gli si
posa
sul naso e le punte dei capelli ricci come se non avesse visto niente
di più
incredibile in vita sua. Elsa tossisce, e si alza, e guarda il
divertimento
prendere il via.
Pur
sempre una maledizione,
pensa.
"Lei
è
incredibile," il principe dice, e la sua voce si incrina. "Voglio
dire—no, non è che—" la mano scatta
verso la manica. "Come mi ha
trovato?"
"Ho
chiesto al mastro
di porto, a un uomo della sua ciurma, al fioraio, al fabbro, e al
fornaio."
"Ah.
Ho lasciato, un,
ah, sentiero di briciole, allora?"
"Più
o meno,"
sorride quasi. "Cosa sta facendo qui?"
"Un’eccitante
partita
di Salva il Principe. Credo proprio che Klara un
giorno entrerà a far
parte della sua guardia reale," sorride, e non è quasi. Gli
arriva fino
agli occhi. Gli si formano delle piccole rughe d’espressione
agli angoli.
"Arendelle è veramente bellissima, e le persone
sono—" si blocca.
Elsa si rende conto, con un sussulto, che non sa davvero come siano le
persone.
Sono, e basta. "Ma sto
farneticando—Io—Io credevo che non volesse
vedermi."
Ha
le spalle leggermente
ricurve, e il suo nervosismo è tornato. La neve continua a
cadere a ondate
leggere dal cielo azzurro. Ha una voglia matta di costruire palazzi di
ghiaccio. Si sente in colpa per il fatto che vuole che vada via, ma poi
si
ricorda.
Anna
aveva detto—le aveva
raccontato quello che lui aveva detto, mentre
spegneva il fuoco, ed era—Elsa,
come erede era preferibile, certo, ma nessuno aveva
possibilità con lei—
E
se avessero mandato questo
ragazzo alla buona per—per avere
possibilità?
Tira
fuori la missiva dal
proprio abito, il braccio teso rigidamente. "Ho ricevuto questa da Re
Alfons. Ho redatto questa," ed estrae un’altra lettera, che
tiene accanto
alla prima, "con la mia risposta, ma lo stesso, voglio che la consegni
di
persona. Re Alfons non ha bisogno di mandare ambasciatori. Desidero
tempo per
ritrovare stabilità. Questo è tutto." La sua voce
è formale, a scatti. Il
Principe Albert prende entrambe le lettere e si rivolge alla prima,
quella col
sigillo spezzato delle Isole del Sud.
"Mi
permette?"
chiede.
Annuisce.
Esamina
i contenuti con un
cipiglio crescente. "Viktor e Tomas non sarebbero buoni ambasciatori
alla
Fine del Mondo, figuriamoci Arendelle," borbotta. Ancora una volta,
Elsa
pensa che in teoria non avrebbe dovuto sentire quelle parole. "Vuol
dire
che già li ha mandati?"
"Non
lo so,"
sospira, afferrandosi i gomiti e stringendosi forte le braccia al
petto.
Parecchi dei clienti della taverna iniziavano a riversarsi in piazza,
notando
la nevicata fuori stagione. Petter e Klara ridevano felici. Il bambino
col
pollice in bocca sbatteva le palpebre pieno di stupore.
"Non
vuole che vengano
inviati," il principe Albert dice, ripiegando la lettera. "In
realtà,
io stesso non avrei voluto che fossero inviati.
Probabilmente non dovevo—avrei
dovuto dirlo."
"Le
stime sulle
riparazioni della sua nave determinano che vengano ultimate in una
settimana,
circa. Se faccio allestire una nuova nave, e lei prende la sua
ciurma—"
"Regina
Elsa, se voleva
che me ne andassi, doveva solo chiedere," sorride, ma scivola presto
dal
suo viso. "Scusi, non era div—senta, non voglio che sprechi
denaro per
allestire un’altra nave, denaro che non potrei restituirle
prima del ritorno a
casa. E per quel giorno, non è sicuro che riuscirei a
intercettare gli
ambasciatori. Penso che—con tutto il dovuto rispetto, che
adesso la cosa
migliore da fare sia aspettare. Sarò presto fuori dai piedi,
lo prometto."
"Non
la desidero fuori
dal mio—"
"Regina
Elsa," il
principe sorride. Coi capelli disordinati, e il naso storto, sembra uno
stalliere, pensa. "Non deve mentire per farmi sentire meglio.
Parlerò alla
mia ciurma, per vedere se riusciamo a velocizzare le cose." Si infila
entrambe le lettere nella giacca. "E riposi serena, il suo messaggio
arriverà
a destinazione."
"Grazie,"
annuisce. Elsa, come erede, era preferibile, certo. Non
riesce a
inquadrare il principe Albert, e non vuole, non vuole nessun tipo di
contatto
con le Isole del Sud. Gli occhi di Elsa esaminano la piazza ancora una
volta.
Aveva messo il principe sotto sorveglianza, no? Eppure era riuscito
facilmente
a sfuggire alle guardie; con la stessa facilità aveva
parlato liberamente agli
abitanti; aveva vagabondato dove voleva. Inaccettabile, pensa,
guardando quegli
occhi che si ritrova. Non stanno bene, sulla sua faccia. "Principe
Albert,
penso che sia meglio che rimanga sulla sua nave, ad interim."
Apre
la bocca. Per un
attimo, Elsa pensa che abbia intenzione di protestare. Alza gli occhi
verso i
bambini, poi guarda le donne alla fontana, e la taverna—e poi
di nuovo lei.
Quegli occhi. Annuisce rigidamente, raddrizzando la schiena, stringendo
le mani
avanti a sé. "Come desidera, sua maestà."
Lei
annuisce elegantemente.
Avrebbe mandato un contingente giù al porto, da Olin;
avrebbero avuto
l’incarico di sorvegliare la nave. Fa per andarsene.
"E
qualora—qualora
venissero davvero," la sua voce la ferma, e si volta indietro.
"Viktor e Tomas—gli
ambasciatori—solo—sarò più
che felice di occuparmi di
loro in sua vece."
Elsa
annuisce di nuovo,
meccanicamente.
In
qualche modo, il pensiero
non l’aiuta a sentirsi sollevata.
Passo.
Passo.
Passo.
Non
apre gli occhi, si
allaccia le mani sullo stomaco. È tranquillo. È
calmo.
Sta
architettando un piano.
Passo.
Passo.
Passo.
"Principe
Hans?"
"Sì?"
risponde,
senza aprire gli occhi. Ascolta. C’è il tintinnio
delle chiavi del carceriere,
il clank del metallo quando viene infilato al suo
posto nella serratura,
la girata, l’estrazione. Il cigolio della porta della cella
non appena viene
aperta.
Un
piano. Ha un piano.
"è
libero di
andare."
Il
ghigno di Hans potrebbe
tagliare il ferro, potrebbe spianare montagne. Il suo ghigno potrebbe
uccidere
padri.
Il
suo ghigno potrebbe
assassinare fratelli.
"Perfetto,"
dice.
1Note
della traduttrice:
Open doors, porte aperte, si riferisce alla
canzone che Anna canta con Hans, e che in italiano è stata
tradotta con “la
mia occasione”. In originale, si intitola
“Love is an open door” e
si riferisce ovviamente al fatto che Anna abbia sempre sofferto per i
cancelli
chiusi, come la porta di Elsa. Non ho potuto mettere il titolo o la
battuta del
film italiano, come ho fatto in altri casi, perché
l’autrice insiste molto sul
contrasto porte chiuse - aperte.