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Autore: Efthalia    04/05/2014    6 recensioni
{Pernico} {Forti accenni alla Percabeth}
È Pasqua, e Nico si sente più solo che mai. Passa le festività tra morti, Coca Cola e Happy Meal, ma un ragazzo di nostra conoscenza cambierà le sue tradizioni...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Nico di Angelo, Percy Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sabato sera, il giorno prima di Pasqua, non lo passai con nessun amico. Non avevo voglia di vedere nessuno, forse solo Annabeth. Oppure Nico: lui in qualche modo mi avrebbe tirato su di morale con le sue buffe stranezze. 
Ero sdraiato sul mio letto, immobile, ad ascoltare la pioggia che picchiettava sulla strada e sulla ringhiera. Stringevo il cordless in una mano, mentre l’altra era dedicata a spettinare i miei capelli. Ero così confuso. Volevo chiamare Annabeth, ma nello stesso tempo non volevo farlo, perché sarei diventato triste. Pensavo quindi a quello che avrei fatto con Nico l’indomani, ma Annabeth tornava comunque nella mia mente. Volevo che venisse anche lei, il giorno dopo, ma era irremovibile. 
Decisi di chiamarla per l’ennesima volta.
– Pronto? – rispose Annabeth dopo pochi squilli. 
– Annabeth, sono io...
– Che cosa vuoi? – chiese lei duramente.
Il suo tono mi fece male al cuore, ma non glielo feci notare. – Voglio parlarti. Voglio stare con te domani, voglio stare con te tutti i giorni.
Ci fu un po’ di silenzio che per pochi secondi mi fece sperare di averla convinta. – Scordatelo, Testa d’Alghe. Non ricordi che domani sei insieme a quel ragazzino?
– Annabeth, per favore. Non essere così dura, non è successo niente! – la implorai. 
– Tu non capisci, Testa d’Alghe! Come ti è venuto in mente di invitarlo? Stai facendo di tutto per farti odiare! Se hai intenzione di lasciarmi, fallo pure, altrimenti lo farò io! Non inventarti queste stupide scuse – urlò lei dal telefono. 
– Ma perché dici questo? Perché ti dà fastidio il fatto che io l’abbia invitato? – mi scaldai. 
– Sei un idiota, Percy. Noi non possiamo stare insieme – disse lei con voce tremante. 
Mi sentii davvero un idiota, perché non riuscivo proprio a capire il suo problema. – Spiegati, Annabeth! Sono uno stupido, okay, lo accetto. Ma voglio sapere perché! 
– Perché, razza di deficiente, quello sciatto ha messo gli occhi su di te da quando aveva dieci anni! – esclamò lei come se stesse parlando con un ritardato.
– Sei pazza! – conclusi prima di rendermi conto di cosa avevo detto. 
– Come vuoi: io sono pazza e tu sei un idiota. Puoi capire da solo che non possiamo stare insieme. Mi hai stancata, davvero – capii che stava per mettersi a piangere. 
– Annabeth... – sussurrai cautamente. 
Sentii un singhiozzo, poi riattaccò. 
 Scagliai il cordless contro il muro e ringhiai come un animale selvatico. Iniziarono a tremarmi le braccia, le gambe, le mani. Dovevo calmarmi. Dovevo pensare che quello era solo un periodo, che sarebbe passato tutto. Sarebbe passata anche la confusione, il mio più grande segreto. 
– Tesoro, che succede? – mamma aveva aperto la porta senza bussare, naturalmente.
– Ho litigato con Annabeth – spiegai. 
– Oh, se vuoi parlarne...
– Scusa, ma non voglio – dissi, quindi lei annuì e chiuse la porta. 
Rimasi per un tempo indecifrabile a fissare la porta, poi mi riscossi e, come per abitudine, raggiunsi il collage. C’erano una miriade di foto mie e di Annabeth, la foto di gruppo dell’anno in cui vincemmo la guerra contro i Titani, varie foto con amici e poi c’era la foto. Eravamo al padiglione. In primo piano c’erano Clarisse e Katie Gardner che sorridevano, cosa piuttosto strana, e in secondo piano c’eravamo io e Annabeth che camminavano sorridenti tenendoci per mano. Non molto lontano da noi, seduto su uno scalino, c’era Nico. Nonostante fosse in dimensione ridotta, era impossibile non capire che ci stava guardando con tristezza e con gelosia. 
Erano passati tre anni da allora, e nel corso dei tre anni, Annabeth studiò nel migliore dei modi quell’espressione. Per un periodo fu convinta che a Nico piacesse lei, ma durò poco, perché si rese conto che lui era geloso di lei. Ovviamente io non le credevo, reputavo la sua convinzione folle, assurda, e ogni volta che affrontava l’argomento o litigavamo o semplicemente la evitavo. Mi faceva una testa enorme con le sue teorie e con le sue dettagliate descrizioni sui suoi comportamenti e sui suoi sguardi. Col tempo era diventata sempre più irritante, irascibile e paranoica, perché non avevo mai smesso di essere amico di Nico. Era un ragazzo così solo e sfortunato, così dolce che non riuscivo a evitarlo. E naturalmente Annabeth notava ogni singola carezza ai capelli che gli davo affettuosamente, analizzava ogni singolo movimento quando decidevamo di allenarci insieme con la spada. Insomma, era diventata pesante, litigavamo troppo spesso per motivi assolutamente assurdi, ma la amavo, la amavo comunque. Mi ripetevo di amarla anche quando iniziarono i dubbi, anche quando non sapevo spiegare certi miei comportamenti e certe mie emozioni. 
Mi ordinai di svuotare la mente. Non volevo più pensare a niente. Ero così stanco di riflettere e di mormorare tra me “e se...” che mi addormentai quasi subito.
 
Erano le otto meno un quarto del mattino. Mi ero svegliato a causa di un tuono assordante e dopo poco mi resi conto che quella era la giornata di Pasqua. Mi affacciai dalla finestra e vidi che il cielo era plumbeo, coperto da minacciose nuvole che regalavano a noi umani secchiate di pioggia. Il tempo era davvero orribile, probabilmente Zeus e la combriccola degli dèi dei venti freddi odiavano Pasqua, ma non avevo intenzione di farmi rovinare quella giornata prospettivamente spensierata da vecchi barbuti di tremila anni. Volevo trascorrere la Pasqua nel modo più sereno possibile con mamma, lo Stoccafisso e Nico. Be’, lui era entrato nel programma un po’ alla sprovvista, ma ne ero davvero felice. 
Mi imposi a non pensare Annabeth, quel giorno: la mia “testa d’alghe” aveva bisogno di ferie. 
Avevo detto a Nico di venire da me alle otto, ma non volevo che venisse a piedi con quel tempo, così mi sistemai e chiesi la macchina a Paul, dato che lui doveva uscire insieme a mamma. Mentre continuava a blaterare continue raccomandazioni, mi diedi una sistemata giusto per non essere scambiato per uno zombie, poi uscii per andare a prendere Nico dal collegio. 
Al collegio non ci arrivai nemmeno, perché lo incontrai per strada. O almeno, credevo che fosse lui. 
Aveva una camicia verde scuro e aderente per il suo genere abbinata a jeans scuri e alle Converse nere, il tutto completamente fradicio a causa della pioggia. Ma erano i capelli altrettanto bagnati che non mi convincevano: erano un po’ rasati nella parte più bassa del capo, mentre la parte più alta era meno folta del solito. Mi accostai al ragazzo per vedere se fosse davvero Nico, ma il finestrino era pieno di gocce di pioggia e non riuscii a capirlo. Il ragazzo aumentò il passo, probabilmente lo avevo innervosito.  
Mi accostai di nuovo a lui e stavolta calai il finestrino, così il ragazzo si girò verso di me e fece un’espressione tra il sollevato e l’inferocito, facendomi sorridere. 
E sì, era proprio Nico. 
– Nico – dissi senza smettere di sorridere, – cosa hai fatto alla tua zazzera di capelli?
In tutta risposta aprì lo sportello dell’auto e si sedette, bagnando immediatamente il sedile. – Erano belli prima che uscissi di casa! – esclamò furioso. 
Mi limitai a fissarlo divertito. – Mi dispiace per averti fatto uscire con questo tempo. Sono venuto apposta per venirti a prendere. Questa è la macchina dello Stoccafisso.
Lui mi rivolse un’occhiata di rimprovero: probabilmente mi stava maledicendo silenziosamente perché non ero partito qualche minuto prima. 
Stavo per svoltare l’angolo per tornare a casa quando Nico disse di dover andare in un posto.
 – Dove?
– In... in una cioccolateria. Volevo farti un regalo – ammise con una punta d’imbarazzo. 
– Ma no! Non ce n’è bisogno, Nico – dissi con un sorriso, e lui mi fissò in un modo che non seppi spiegare. 
– O mi ci porti, o mi lasci qui! – esclamò senza tanti giri di parole. 
Sbuffai spazientito, ma alla fine lo portai nell’unica cioccolateria aperta. Era la stessa in cui ci eravamo incontrati. 
– Tu non scendere – mi ordinò, poi scese dall’auto.
Quella era la cioccolateria in cui avevo comprato l’uovo per Annabeth, e ricordavo benissimo i prezzi dei prodotti. Erano costosissimi e dubitavo che Nico potesse permetterseli. Insomma, perché si preoccupava tanto per farmi un regalo?  
Una vocina terribilmente simile a quella di Annabeth mi diede la risposta, ma io la scacciai via. 
NO, è impossibile.
Si è persino sistemato, una buona volta...
Be’, ma è Pasqua.
No, idiota, è un giorno in cui starete insieme.
No. È assurdo pensare che solo perché qualcuno si sistema e mi fa un regalo io debba per forza piacergli. 
La vocina non mi rispose più, cosa che non mi rallegrò più di tanto, perché iniziai a pensare. 
Insomma, Nico era davvero carino, quel giorno. Il nuovo taglio di capelli gli dava un’aria da cattivo ragazzo, la camicia inzuppata evidenziava il suo busto stretto e magro. E quella strana occhiata che mi aveva rivolto, come se mi volesse zittire con... 
BASTA! Dovevo smetterla. 
Fortunatamente vidi Nico uscire dal negozio. Era completamente curvato su un’enorme scatola blu, probabilmente perché non voleva farla bagnare, e stava per inciampare. Scesi immediatamente dall’auto, mi avvicinai a lui e gli presi la scatola dalle mani. – Quasi quasi è più pesante di te, questa scatola – borbottai, guadagnandomi un’occhiata offesa e delusa. 
Una volta entrati in macchina, gli feci un discorso. – Non è giusto che hai speso tutti quei soldi per me, Nico. Si vede già che quel coso è costato una fortuna...
Lui mi interruppe. – Avevo voglia di farlo e l’ho fatto. Vedi di accettare i gesti degli altri e guardare la strada! – disse acidamente. 
– Ma non dovevi! Lì dentro c’erano cose di cento dollari, non posso permetterti di farti spendere i tuoi soldi per un regalo! – ribattei. 
Per quanto potessi essere compiaciuto per il regalo, non potevo accettare che qualcuno spendesse dei soldi per me, soprattutto Nico. Non avevo bisogno di nessun regalo, mi bastava solo il fatto che lui quel giorno fosse con me a farmi compagnia. Sì, quello era già un ottimo regalo.
Lui non mi rispose più e guardò dall’altra parte del finestrino. Probabilmente voleva evitare di litigare, ma io volevo solo farlo ragionare.
Gli parlai per tutto il tragitto, e più non mi rispondeva, più parlavo. Sapevo di stare esagerando, ma non riuscivo più a fermarmi. Ero proprio uguale a mia madre. 
Smisi quasi di parlare quando Nico mi rivolse di nuovo attenzione: mi fissava con distrazione, era stranamente preoccupato e si mordeva le labbra, come se stesse pensando a troppe cose contemporaneamente. 
– ...non dovevi preoccuparti. Ehm, Nico...?
Mi stavo un po’ spaventando, infatti non fissavo più nemmeno la strada. 
E poi successe: si spinse verso di me, mi prese senza nessuna delicatezza il viso tra le mani e fece scontrare le nostre labbra. Quel contatto fece avvampare tutto dentro di me, i pensieri e la vocina simile a quella di Annabeth si mescolarono insieme e non capii più niente. Sentii Nico schiudere le labbra, e fu proprio quello il momento in cui mi accorsi di non tenere più le mani sul volante, fu quello il momento in cui vidi una macchina andare verso di noi senza fermarsi. 
Mi girai di scatto, tanto che sentii una dolorosa fitta al collo, e feci una frenata da brividi, tanto che per poco Nico non sbattè la testa sul vetro, ma riuscii ad afferrarlo per la camicia. Con quel movimento, però, fui io a sbattere fortemente una guancia sul vetro.
Nella strada ci fu un attimo di panico: urla rivolte a noi, fumo delle ruote della nostra macchina e della macchina con cui stavamo per sbattere e puzza di gomma bruciata. 
– S-scusa. Non so cosa mi sia preso. Non ho pensato più a niente... – balbettò Nico, sconvolto e tremante. 
Evitai il suo sguardo, infatti ero rivolto dall’altra parte. Tenevo una mano stretta sulla guancia: mi faceva malissimo. 
Con la coda dell’occhio vidi Nico tendere le mani verso il mio viso, probabilmente per vedere se mi fossi fatto davvero male, ma in quel preciso istante decisi di uscire dalla macchina per accertarmi che stessero tutti bene. Avevo bisogno di stare lontano da Nico, anche se per pochi minuti.
Andai verso l’auto con cui stavo per sbattere e vidi che al volante c’era una donna sulla quarantina. – Signora, mi scusi se l’ho spaventata... sta bene? 
– Ah, e chi poteva essere! Un ragazzino! – urlò la donna. 
– Mi scusi davvero, signora. Stavo prendendo una moneta che era caduta e...
– Va’ via, poppante, prima che cambi idea  riguardo il farti passare i guai! – esclamò lei minacciosamente, così decisi di allontanarmi e tornare da Nico, ignorando i commenti della gente che si era radunata per assistere allo spettacolo. 
–Percy, ti prego... Non ero in me... per favore... è tutto come prima? – chiese Nico, mentre iniziava a piangere.
Io non risposi e accesi di nuovo il motore, ignorando completamente il suo pianto. 
Mi si spezzava il cuore a vederlo in quello stato, ma non sapevo come rivolgermi a lui. Non sapevo che parole usare, non sapevo se dovevo essere offeso, comprensivo o qualcos’altro. Non sapevo nemmeno cosa provavo, ero sicuro solo della mia confusione.
– Se mi odi, allora portami a casa! – urlò dopo continuati pianti e singhiozzi da me ignorati.
– Non ti odio – dissi semplicemente. Di questo ne ero assolutamente certo.
– Sì, invece! Adesso ti faccio più schifo di prima! – urlò ancora, e io feci un sorriso triste. 
Come poteva pensare quelle cose così brutte? Come poteva fare schifo, come si poteva odiare una persona come Nico? Era un combina guai, era introverso e non pensava alle conseguenze, ma era un ragazzo pieno di risorse e se si conosceva bene, ed era anche affettuoso. Nico era profondo come i suoi occhi scuri e lo si conosceva solo una volta arrivati in fondo. E io ero piuttosto in fondo. 
Arrivammo a casa, ma vidi che Nico non ne voleva sapere di scendere.
– Scendi, su – dissi con un sospiro. 
Ovviamente lui rimase immobile, così uscii dalla macchina, aprii il suo sportello e mi accovacciai in modo che avessimo il viso alla stessa altezza, incurante della pioggia che mi bagnava fino al midollo. 
– Non sono arrabbiato con te, Nico, davvero. Scendi e andiamo a cucinare. Mangeremo insieme quello che hai comprato, ci cambieremo i vestiti e festeggeremo insieme questa Pasqua. Va tutto bene – dissi con tono gentile e per un secondo credei di averlo convinto, poi la sua espressione si indurì.
– Non va tutto bene – disse con la voce spezzata dal pianto. – Io ti ho baciato e a te ha fatto schifo.
Non riuscii a non sorridergli teneramente e gli accarezzai i capelli bagnati. Poi gli diedi un delicato bacio sulla guancia che lo fece arrossire. 
– Ne parleremo dopo – promisi, quindi presi il regalo e andai  frettolosamente verso la porta di casa con Nico al seguito.
 
Una volta arrivati dentro, andai dritto verso la mia camera a cercare qualcosa per Nico, dato che era bagnato fradicio. Lui rimase in cucina ad aspettarmi con un’espressione stravolta, dato che non si era ancora ripreso dal quasi incidente (così avevo deciso di definirlo).
– Nico, vieni! Ho trovato qualcosa per te! – lo chiamai, così mi raggiunse.
Era piuttosto magro rispetto a me, e le uniche cose che potevano stargli bene erano un paio di millenari jeans e una maglietta del Campo Mezzosangue piuttosto scolorita. 
– Non ho altro – spiegai. – Abbiamo taglie diverse. 
Lui annuì, mi ringraziò con un borbottio e andò a cambiarsi in bagno per evitare ulteriori imbarazzi. 
Una volta cambiati, andammo in cucina per iniziare a preparare il pranzo. Notai che a Nico la mia roba gli andava larga, nonostante quelli fossero i vestiti più stretti e vecchi del mio guardaroba, e lo facevano apparire ancora più magro. I suoi capelli erano umidi, adesso, e finalmente il suo nuovo taglio di capelli ebbe un po’ di senso. Non era elegante e non era aggraziato, ma c’era qualcosa in lui che non mi faceva concentrare molto bene sulla cucina.
In quel momento desideravo tanto essere spigliato e amichevole, ma riuscivo solo a passare una mano sui miei capelli umidi e a fissarlo di volta in volta, cosa che evidentemente lo innervosiva. Non faceva altro che mordersi l’interno delle guance, tormentarsi una pellicina sul pollice e ignorare il mio sguardo. 
Mi schiarii la gola. – Ehm... allora, mamma mi ha detto di fare una grigliata di hamburger, wurstel e roba così, quindi questi possiamo cucinarli anche dopo... – cominciai a spiegare, ma l’espressione improvvisamente delusa di Nico mi fece fermare. – C’è qualcosa che non va?
Non appena alzò lo guardo, il telefono squillò, quindi corsi a prendere il cordless rimasto gravemente danneggiato dalla sera scorsa.
Era mamma, e mi aveva appena annunciato senza entusiasmo che lei e lo Stoccafisso erano stati invitati dai colleghi di lui, quindi sarebbero tornati solo a tarda sera. Ne rimasi deluso. Insomma, nonostante avessi diciotto anni, mi dispiaceva non trascorrere una giornata di festa con la mia famiglia. 
Diedi la notizia a Nico, la cui espressione si fece ancora più cupa. – Quindi non cuciniamo? – chiese piano. 
Oh, allora era quello il problema! Probabilmente aveva sperato di cucinare per davvero, sporcandosi di farina, impastando ingredienti grassi... voleva cucinare e divertirsi, non voleva cucinare solo per farsi puzzare i capelli. 
– Ma certo che cuciniamo! E dato che siamo noi due, lascio decidere a te cosa preparare – annunciai con un sorriso rassicurante.  
– Davvero? – chiese, e il broncio se ne andò via dal suo viso, sostituito da uno dei suoi rari sorrisi raggianti. 
– Davvero – confermai. 
Avevo sempre creduto che fosse cresciuto troppo in fretta a causa di tutto ciò che gli era successo: la sicurezza di essere orfano quando non conosceva ancora il nostro mondo,l’ avere come genitori una sola sorella di due anni più grande di lui per poi subire la sua morte... ma dopotutto restava comunque un ragazzino di quindici anni* che si entusiasmava all’idea di sporcarsi le mani cucinando, restava comunque un adolescente assolutamente pazzo che decideva di baciare un amico mentre questi guidava, provocando un quasi incidente. Sorrisi tra me e me, rassicurato dal fatto che Nico fosse umano e che non fosse del tutto spezzato a causa delle sue sofferenze. 
– Allora faremo un dolce – esclamò, mentre tamburellava nervosamente le dita sul bancone. 
Io annuii e andai a prendere dalla mensola il ricettario dei dolci. In quel librone c’erano un fantastiliardo di ricette e non sarebbe bastata una vita intera per provarle tutte. 
Passai il ricettario a Nico e mi misi accanto a lui, così da ammirare tutte le appetitose immagini dei dolci. 
Passò almeno mezz’ora prima che decidesse cosa preparare, una mezz’ora in cui provai a non fare caso al modo in cui umettava l’indice destro prima di cambiare pagina, il modo in cui si formava una ruga di concentrazione tra le sopracciglia e una serie di altri piccoli ma interessanti dettagli. 
– Ho deciso! – sentenziò alla fine, facendomi quasi sussultare da quanto ero applicato a osservare il modo in cui si mordicchiava le labbra. – Faremo le fave dei morti e il tiramisù*! 
Sgranai gli occhi e arrossii. – I... i che cosa?! 
Vidi Nico reprimere un sorriso, per niente imbarazzato. – Sono dolci tipici italiani. Di Venezia, per esattezza... sai, il mio luogo di origine. 
Mi concentrai su quello che aveva appena detto e allontanai dai miei pensieri il doppio senso che dava la parola “tiramisù”. 
– Oh... capisco. Certo che questi italiani sono proprio strambi – borbottai, facendo sorridere Nico mentre scuoteva la testa come a dire “è proprio un caso disperato”. 
Decidemmo di cucinare per prime le fave dei morti, e una volta presi gli ingredienti, ci divertimmo tantissimo a tritare mandorle, aggiungere vaniglia e, nel frattempo, bere un po’ di liquore che andava aggiunto insieme a tutto quel pasticcio. Nico inizialmente era molto sulle sue e si concentrava così tanto su quel lavoro che credevo desiderasse annegare in quella poltiglia di ingredienti, ma diventava amichevole ogni minuto di più. Non lo avevo mai visto così spensierato ed espansivo prima di allora, escludendo il giorno in cui lo conobbi. Ecco, in quel momento Nico era tornato ilare come allora, facendomi scaldare il cuore. Risi tantissimo quando fu il momento di rompere le uova: sul viso aveva disegnata un’espressione disgustata ed esitante mentre picchiettava troppo delicatamente l’uovo sul bordo della ciotola e imprecava in italiano. Provai a fare il serio quando presi in mano la situazione e nascosi un’espressione orgogliosa e compiaciuta mentre fissava con ammirazione le mie mani esperte che rompevano perfettamente in due l’uovo. Tentò di nuovo, ma i suoi sforzi furono vani. La ricetta diceva di aggiungere del cacao in alcune pagnotte, lasciarne altre del loro colore naturale e mettere del colorante rosa in quelle rimaste, ma scegliemmo il colorante azzurro sia per quelle del loro colore naturale, sia per quelle che sarebbero dovute essere rosa. Una volta messo un po’ di zucchero a velo, le avvolgemmo in una pellicola. La ricetta diceva di lasciarle in quel modo per almeno dodici ore, ma decidemmo di aspettare massimo sei ore. 
Dopotutto, eravamo americani. 
– Non voglio nemmeno immaginare cosa ne uscirà fuori – bofonchiò Nico, accasciandosi sul divano della cucina. Eravamo piuttosto stanchi, così decidemmo di riposarci per mezz’ora prima di riprendere e preparare il tiramisù. 
– Resta comunque il tiramisù – replicai con un sorriso goloso. Avevo visto l’immagine di quella strana torta italiana e non riuscivo a togliermela dalla testa. Prometteva così bene... avrei voluto mangiarne una teglia intera.
Restammo per un po’ in silenzio, ma non lo reputai imbarazzante, forse perché ero troppo impegnato a rivivere il bacio quasi fatale che Nico mi aveva dato qualche ora prima. Mi aveva scosso molto e mi aveva confuso ancora di più. Non sapevo cosa pensare dei miei sentimenti per Annabeth e non sapevo come considerare l’amicizia con Nico. 
Sapevo solo che le teorie di Annabeth non erano poi del tutto folli, e mi venne l’impulso di correre da lei e chiederle scusa.
Mi concentrai sul fatto di essere a qualche centimetro di distanza da Nico e sul fatto che noi due dovevamo parlare. Durante la preparazione delle fave dei morti avevamo tenuto il discorso alla larga e avevamo fatto finta di niente, ma quella era l’ora di fare i conti. 
– Nico – dissi con cautela, - prima... cos’è successo prima?
Vidi i suoi muscoli tendersi e la sua espressione indurirsi, e mi dispiacque per lui, ma io avevo bisogno di certezze. 
Stette per un po’ in silenzio, e quando capii che non mi avrebbe risposto, prese parola. – Dovevo per forza tapparti quella bocca che ti ritrovi – disse con una smorfia. 
Qualcosa dentro di me esultò, la parte che sperava che le azioni di Nico fossero state dettate dalla pura follia e dagli ormoni impazziti tipici dei quindicenni. L’altra parte, invece, crollò dolorosamente. Mi spaventai di me stesso. 
Stavo per replicare, quando Nico mi sfiorò la mano e mi intimò con gli occhi di tacere. – E per una volta volevo provare a vivere senza il peso di una maschera – continuò con amarezza. – Com’è che si dice? Ho preso due piccioni con una fava. 
– Nico, io... – sussurrai, ma la mia voce si spense.
Nico, io... cosa?
Nico, io sono fidanzato.
Nico, io amo la mia ragazza.
Nico, io sono un ragazzo. 
Nico, io sono confuso.
Nico, io non so cosa pensare di me stesso.
Nico, io non so come pensarti.
Nico, io...
Io...
Girai il capo in modo da incontrare il suo sguardo e dei, eravamo così vicini. – Io... – sussurrai di nuovo, ma non continuai.
In quell’istante avevano suonato il campanello di casa mia. 
Restammo per un attimo a guardarci sconsolati, poi Nico ruppe il nostro contatto visivo e si allontanò da me, mentre io andai ad aprire la porta. 
 
 
 
*So che Percy e Nico hanno quattro anni di differenza, ma sul web ho letto che il compleanno di Nico è il 28 Gennaio. Non so se sia giusto, ma comunque... se la matematica non è un’opinione, Percy, in questa ff, deve ancora compiere 19 anni. 
** Tiramisù è una parola italiana, quindi gli americani non possono capire i doppi sensi, ma vivono in un mondo fatto di dei, centauri, ippocampi, e molto altro... lasciamo correre questo piccolo cambiamento xD
 
Note noiose d’autrice
Ringrazio coloro che hanno recensito e aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite e invito tutti a lasciarmi un commentino xD
A presto,
Daughter of Athena

 

Sabato sera, il giorno prima di Pasqua, non lo passai con nessun amico. Non avevo voglia di vedere nessuno, forse solo Annabeth. Oppure Nico: lui in qualche modo mi avrebbe tirato su di morale con le sue buffe stranezze. 
Ero sdraiato sul mio letto, immobile, ad ascoltare la pioggia che picchiettava sulla strada e sulla ringhiera. Stringevo il cordless in una mano, mentre l’altra era dedicata a spettinare i miei capelli. Ero così confuso. Volevo chiamare Annabeth, ma nello stesso tempo non volevo farlo, perché sarei diventato triste. Pensavo quindi a quello che avrei fatto con Nico l’indomani, ma Annabeth tornava comunque nella mia mente. Volevo che venisse anche lei, il giorno dopo, ma era irremovibile. 
Decisi di chiamarla per l’ennesima volta.
– Pronto? – rispose Annabeth dopo pochi squilli. 
– Annabeth, sono io...
– Che cosa vuoi? – chiese lei duramente.
Il suo tono mi fece male al cuore, ma non glielo feci notare. – Voglio parlarti. Voglio stare con te domani, voglio stare con te tutti i giorni.
Ci fu un po’ di silenzio che per pochi secondi mi fece sperare di averla convinta. – Scordatelo, Testa d’Alghe. Non ricordi che domani sei insieme a quel ragazzino?
– Annabeth, per favore. Non essere così dura, non è successo niente! – la implorai. 
– Tu non capisci, Testa d’Alghe! Come ti è venuto in mente di invitarlo? Stai facendo di tutto per farti odiare! Se hai intenzione di lasciarmi, fallo pure, altrimenti lo farò io! Non inventarti queste stupide scuse – urlò lei dal telefono. 
– Ma perché dici questo? Perché ti dà fastidio il fatto che io l’abbia invitato? – mi scaldai. 
– Sei un idiota, Percy. Noi non possiamo stare insieme – disse lei con voce tremante. 
Mi sentii davvero un idiota, perché non riuscivo proprio a capire il suo problema. – Spiegati, Annabeth! Sono uno stupido, okay, lo accetto. Ma voglio sapere perché
– Perché, razza di deficiente, quello sciatto ha messo gli occhi su di te da quando aveva dieci anni! – esclamò lei come se stesse parlando con un ritardato.
– Sei pazza! – conclusi prima di rendermi conto di cosa avevo detto. 
– Come vuoi: io sono pazza e tu sei un idiota. Puoi capire da solo che non possiamo stare insieme. Mi hai stancata, davvero – capii che stava per mettersi a piangere. 
– Annabeth... – sussurrai cautamente. 
Sentii un singhiozzo, poi riattaccò. 
 Scagliai il cordless contro il muro e ringhiai come un animale selvatico. Iniziarono a tremarmi le braccia, le gambe, le mani. Dovevo calmarmi. Dovevo pensare che quello era solo un periodo, che sarebbe passato tutto. Sarebbe passata anche la confusione, il mio più grande segreto. 
– Tesoro, che succede? – mamma aveva aperto la porta senza bussare, naturalmente.
– Ho litigato con Annabeth – spiegai. 
– Oh, se vuoi parlarne...
– Scusa, ma non voglio – dissi, quindi lei annuì e chiuse la porta. 
Rimasi per un tempo indecifrabile a fissare la porta, poi mi riscossi e, come per abitudine, raggiunsi il collage. C’erano una miriade di foto mie e di Annabeth, la foto di gruppo dell’anno in cui vincemmo la guerra contro i Titani, varie foto con amici e poi c’era la foto. Eravamo al padiglione. In primo piano c’erano Clarisse e Katie Gardner che sorridevano, cosa piuttosto strana, e in secondo piano c’eravamo io e Annabeth che camminavano sorridenti tenendoci per mano. Non molto lontano da noi, seduto su uno scalino, c’era Nico. Nonostante fosse in dimensione ridotta, era impossibile non capire che ci stava guardando con tristezza e con gelosia. 
Erano passati tre anni da allora, e nel corso dei tre anni, Annabeth studiò nel migliore dei modi quell’espressione. Per un periodo fu convinta che a Nico piacesse lei, ma durò poco, perché si rese conto che lui era geloso di lei. Ovviamente io non le credevo, reputavo la sua convinzione folle, assurda, e ogni volta che affrontava l’argomento o litigavamo o semplicemente la evitavo. Mi faceva una testa enorme con le sue teorie e con le sue dettagliate descrizioni sui suoi comportamenti e sui suoi sguardi. Col tempo era diventata sempre più irritante, irascibile e paranoica, perché non avevo mai smesso di essere amico di Nico. Era un ragazzo così solo e sfortunato, così dolce che non riuscivo a evitarlo. E naturalmente Annabeth notava ogni singola carezza ai capelli che gli davo affettuosamente, analizzava ogni singolo movimento quando decidevamo di allenarci insieme con la spada. Insomma, era diventata pesante, litigavamo troppo spesso per motivi assolutamente assurdi, ma la amavo, la amavo comunque. Mi ripetevo di amarla anche quando iniziarono i dubbi, anche quando non sapevo spiegare certi miei comportamenti e certe mie emozioni. 
Mi ordinai di svuotare la mente. Non volevo più pensare a niente. Ero così stanco di riflettere e di mormorare tra me “e se...” che mi addormentai quasi subito.
 
Erano le otto meno un quarto del mattino. Mi ero svegliato a causa di un tuono assordante e dopo poco mi resi conto che quella era la giornata di Pasqua. Mi affacciai dalla finestra e vidi che il cielo era plumbeo, coperto da minacciose nuvole che regalavano a noi umani secchiate di pioggia. Il tempo era davvero orribile, probabilmente Zeus e la combriccola degli dèi dei venti freddi odiavano Pasqua, ma non avevo intenzione di farmi rovinare quella giornata prospettivamente spensierata da vecchi barbuti di tremila anni. Volevo trascorrere la Pasqua nel modo più sereno possibile con mamma, lo Stoccafisso e Nico. Be’, lui era entrato nel programma un po’ alla sprovvista, ma ne ero davvero felice. 
Mi imposi a non pensare Annabeth, quel giorno: la mia “testa d’alghe” aveva bisogno di ferie. 
Avevo detto a Nico di venire da me alle otto, ma non volevo che venisse a piedi con quel tempo, così mi sistemai e chiesi la macchina a Paul, dato che lui doveva uscire insieme a mamma. Mentre continuava a blaterare continue raccomandazioni, mi diedi una sistemata giusto per non essere scambiato per uno zombie, poi uscii per andare a prendere Nico dal collegio. 
Al collegio non ci arrivai nemmeno, perché lo incontrai per strada. O almeno, credevo che fosse lui. 
Aveva una camicia verde scuro e aderente per il suo genere abbinata a jeans scuri e alle Converse nere, il tutto completamente fradicio a causa della pioggia. Ma erano i capelli altrettanto bagnati che non mi convincevano: erano un po’ rasati nella parte più bassa del capo, mentre la parte più alta era meno folta del solito. Mi accostai al ragazzo per vedere se fosse davvero Nico, ma il finestrino era pieno di gocce di pioggia e non riuscii a capirlo. Il ragazzo aumentò il passo, probabilmente lo avevo innervosito.  
Mi accostai di nuovo a lui e stavolta calai il finestrino, così il ragazzo si girò verso di me e fece un’espressione tra il sollevato e l’inferocito, facendomi sorridere. 
E sì, era proprio Nico. 
– Nico – dissi senza smettere di sorridere, – cosa hai fatto alla tua zazzera di capelli?
In tutta risposta aprì lo sportello dell’auto e si sedette, bagnando immediatamente il sedile. – Erano belli prima che uscissi di casa! – esclamò furioso. 
Mi limitai a fissarlo divertito. – Mi dispiace per averti fatto uscire con questo tempo. Sono venuto apposta per venirti a prendere. Questa è la macchina dello Stoccafisso.
Lui mi rivolse un’occhiata di rimprovero: probabilmente mi stava maledicendo silenziosamente perché non ero partito qualche minuto prima. 
Stavo per svoltare l’angolo per tornare a casa quando Nico disse di dover andare in un posto.
 – Dove?
– In... in una cioccolateria. Volevo farti un regalo – ammise con una punta d’imbarazzo. 
– Ma no! Non ce n’è bisogno, Nico – dissi con un sorriso, e lui mi fissò in un modo che non seppi spiegare. 
– O mi ci porti, o mi lasci qui! – esclamò senza tanti giri di parole. 
Sbuffai spazientito, ma alla fine lo portai nell’unica cioccolateria aperta. Era la stessa in cui ci eravamo incontrati. 
– Tu non scendere – mi ordinò, poi scese dall’auto.
Quella era la cioccolateria in cui avevo comprato l’uovo per Annabeth, e ricordavo benissimo i prezzi dei prodotti. Erano costosissimi e dubitavo che Nico potesse permetterseli. Insomma, perché si preoccupava tanto per farmi un regalo?  
Una vocina terribilmente simile a quella di Annabeth mi diede la risposta, ma io la scacciai via. 
NO, è impossibile.
Si è persino sistemato, una buona volta...
Be’, ma è Pasqua.
No, idiota, è un giorno in cui starete insieme.
No. È assurdo pensare che solo perché qualcuno si sistema e mi fa un regalo io debba per forza piacergli. 
La vocina non mi rispose più, cosa che non mi rallegrò più di tanto, perché iniziai a pensare. 
Insomma, Nico era davvero carino, quel giorno. Il nuovo taglio di capelli gli dava un’aria da cattivo ragazzo, la camicia inzuppata evidenziava il suo busto stretto e magro. E quella strana occhiata che mi aveva rivolto, come se mi volesse zittire con... 
BASTA! Dovevo smetterla. 
Fortunatamente vidi Nico uscire dal negozio. Era completamente curvato su un’enorme scatola blu, probabilmente perché non voleva farla bagnare, e stava per inciampare. Scesi immediatamente dall’auto, mi avvicinai a lui e gli presi la scatola dalle mani. – Quasi quasi è più pesante di te, questa scatola – borbottai, guadagnandomi un’occhiata offesa e delusa. 
Una volta entrati in macchina, gli feci un discorso. – Non è giusto che hai speso tutti quei soldi per me, Nico. Si vede già che quel coso è costato una fortuna...
Lui mi interruppe. – Avevo voglia di farlo e l’ho fatto. Vedi di accettare i gesti degli altri e guardare la strada! – disse acidamente. 
– Ma non dovevi! Lì dentro c’erano cose di cento dollari, non posso permetterti di farti spendere i tuoi soldi per un regalo! – ribattei. 
Per quanto potessi essere compiaciuto per il regalo, non potevo accettare che qualcuno spendesse dei soldi per me, soprattutto Nico. Non avevo bisogno di nessun regalo, mi bastava solo il fatto che lui quel giorno fosse con me a farmi compagnia. Sì, quello era già un ottimo regalo.
Lui non mi rispose più e guardò dall’altra parte del finestrino. Probabilmente voleva evitare di litigare, ma io volevo solo farlo ragionare.
Gli parlai per tutto il tragitto, e più non mi rispondeva, più parlavo. Sapevo di stare esagerando, ma non riuscivo più a fermarmi. Ero proprio uguale a mia madre. 
Smisi quasi di parlare quando Nico mi rivolse di nuovo attenzione: mi fissava con distrazione, era stranamente preoccupato e si mordeva le labbra, come se stesse pensando a troppe cose contemporaneamente. 
– ...non dovevi preoccuparti. Ehm, Nico...?
Mi stavo un po’ spaventando, infatti non fissavo più nemmeno la strada. 
E poi successe: si spinse verso di me, mi prese senza nessuna delicatezza il viso tra le mani e fece scontrare le nostre labbra. Quel contatto fece avvampare tutto dentro di me, i pensieri e la vocina simile a quella di Annabeth si mescolarono insieme e non capii più niente. Sentii Nico schiudere le labbra, e fu proprio quello il momento in cui mi accorsi di non tenere più le mani sul volante, fu quello il momento in cui vidi una macchina andare verso di noi senza fermarsi. 
Mi girai di scatto, tanto che sentii una dolorosa fitta al collo, e feci una frenata da brividi, tanto che per poco Nico non sbattè la testa sul vetro, ma riuscii ad afferrarlo per la camicia. Con quel movimento, però, fui io a sbattere fortemente una guancia sul vetro.
Nella strada ci fu un attimo di panico: urla rivolte a noi, fumo delle ruote della nostra macchina e della macchina con cui stavamo per sbattere e puzza di gomma bruciata. 
– S-scusa. Non so cosa mi sia preso. Non ho pensato più a niente... – balbettò Nico, sconvolto e tremante. 
Evitai il suo sguardo, infatti ero rivolto dall’altra parte. Tenevo una mano stretta sulla guancia: mi faceva malissimo. 
Con la coda dell’occhio vidi Nico tendere le mani verso il mio viso, probabilmente per vedere se mi fossi fatto davvero male, ma in quel preciso istante decisi di uscire dalla macchina per accertarmi che stessero tutti bene. Avevo bisogno di stare lontano da Nico, anche se per pochi minuti.
Andai verso l’auto con cui stavo per sbattere e vidi che al volante c’era una donna sulla quarantina. – Signora, mi scusi se l’ho spaventata... sta bene? 
– Ah, e chi poteva essere! Un ragazzino! – urlò la donna. 
– Mi scusi davvero, signora. Stavo prendendo una moneta che era caduta e...
– Va’ via, poppante, prima che cambi idea  riguardo il farti passare i guai! – esclamò lei minacciosamente, così decisi di allontanarmi e tornare da Nico, ignorando i commenti della gente che si era radunata per assistere allo spettacolo. 
–Percy, ti prego... Non ero in me... per favore... è tutto come prima? – chiese Nico, mentre iniziava a piangere.
Io non risposi e accesi di nuovo il motore, ignorando completamente il suo pianto. 
Mi si spezzava il cuore a vederlo in quello stato, ma non sapevo come rivolgermi a lui. Non sapevo che parole usare, non sapevo se dovevo essere offeso, comprensivo o qualcos’altro. Non sapevo nemmeno cosa provavo, ero sicuro solo della mia confusione.
– Se mi odi, allora portami a casa! – urlò dopo continuati pianti e singhiozzi da me ignorati.
– Non ti odio – dissi semplicemente. Di questo ne ero assolutamente certo.
– Sì, invece! Adesso ti faccio più schifo di prima! – urlò ancora, e io feci un sorriso triste. 
Come poteva pensare quelle cose così brutte? Come poteva fare schifo, come si poteva odiare una persona come Nico? Era un combina guai, era introverso e non pensava alle conseguenze, ma era un ragazzo pieno di risorse e se si conosceva bene, ed era anche affettuoso. Nico era profondo come i suoi occhi scuri e lo si conosceva solo una volta arrivati in fondo. E io ero piuttosto in fondo. 
Arrivammo a casa, ma vidi che Nico non ne voleva sapere di scendere.
– Scendi, su – dissi con un sospiro. 
Ovviamente lui rimase immobile, così uscii dalla macchina, aprii il suo sportello e mi accovacciai in modo che avessimo il viso alla stessa altezza, incurante della pioggia che mi bagnava fino al midollo. 
– Non sono arrabbiato con te, Nico, davvero. Scendi e andiamo a cucinare. Mangeremo insieme quello che hai comprato, ci cambieremo i vestiti e festeggeremo insieme questa Pasqua. Va tutto bene – dissi con tono gentile e per un secondo credei di averlo convinto, poi la sua espressione si indurì.
– Non va tutto bene – disse con la voce spezzata dal pianto. – Io ti ho baciato e a te ha fatto schifo.
Non riuscii a non sorridergli teneramente e gli accarezzai i capelli bagnati. Poi gli diedi un delicato bacio sulla guancia che lo fece arrossire. 
– Ne parleremo dopo – promisi, quindi presi il regalo e andai  frettolosamente verso la porta di casa con Nico al seguito.
 
Una volta arrivati dentro, andai dritto verso la mia camera a cercare qualcosa per Nico, dato che era bagnato fradicio. Lui rimase in cucina ad aspettarmi con un’espressione stravolta, dato che non si era ancora ripreso dal quasi incidente (così avevo deciso di definirlo).
– Nico, vieni! Ho trovato qualcosa per te! – lo chiamai, così mi raggiunse.
Era piuttosto magro rispetto a me, e le uniche cose che potevano stargli bene erano un paio di millenari jeans e una maglietta del Campo Mezzosangue piuttosto scolorita. 
– Non ho altro – spiegai. – Abbiamo taglie diverse. 
Lui annuì, mi ringraziò con un borbottio e andò a cambiarsi in bagno per evitare ulteriori imbarazzi. 
Una volta cambiati, andammo in cucina per iniziare a preparare il pranzo. Notai che a Nico la mia roba gli andava larga, nonostante quelli fossero i vestiti più stretti e vecchi del mio guardaroba, e lo facevano apparire ancora più magro. I suoi capelli erano umidi, adesso, e finalmente il suo nuovo taglio di capelli ebbe un po’ di senso. Non era elegante e non era aggraziato, ma c’era qualcosa in lui che non mi faceva concentrare molto bene sulla cucina.
In quel momento desideravo tanto essere spigliato e amichevole, ma riuscivo solo a passare una mano sui miei capelli umidi e a fissarlo di volta in volta, cosa che evidentemente lo innervosiva. Non faceva altro che mordersi l’interno delle guance, tormentarsi una pellicina sul pollice e ignorare il mio sguardo. 
Mi schiarii la gola. – Ehm... allora, mamma mi ha detto di fare una grigliata di hamburger, wurstel e roba così, quindi questi possiamo cucinarli anche dopo... – cominciai a spiegare, ma l’espressione improvvisamente delusa di Nico mi fece fermare. – C’è qualcosa che non va?
Non appena alzò lo guardo, il telefono squillò, quindi corsi a prendere il cordless rimasto gravemente danneggiato dalla sera scorsa.
Era mamma, e mi aveva appena annunciato senza entusiasmo che lei e lo Stoccafisso erano stati invitati dai colleghi di lui, quindi sarebbero tornati solo a tarda sera. Ne rimasi deluso. Insomma, nonostante avessi diciotto anni, mi dispiaceva non trascorrere una giornata di festa con la mia famiglia. 
Diedi la notizia a Nico, la cui espressione si fece ancora più cupa. – Quindi non cuciniamo? – chiese piano. 
Oh, allora era quello il problema! Probabilmente aveva sperato di cucinare per davvero, sporcandosi di farina, impastando ingredienti grassi... voleva cucinare e divertirsi, non voleva cucinare solo per farsi puzzare i capelli. 
– Ma certo che cuciniamo! E dato che siamo noi due, lascio decidere a te cosa preparare – annunciai con un sorriso rassicurante.  
– Davvero? – chiese, e il broncio se ne andò via dal suo viso, sostituito da uno dei suoi rari sorrisi raggianti. 
– Davvero – confermai. 
Avevo sempre creduto che fosse cresciuto troppo in fretta a causa di tutto ciò che gli era successo: la sicurezza di essere orfano quando non conosceva ancora il nostro mondo, l’avere come genitori una sola sorella di due anni più grande di lui per poi subire la sua morte... ma dopotutto restava comunque un ragazzino di quindici anni* che si entusiasmava all’idea di sporcarsi le mani cucinando, restava comunque un adolescente assolutamente pazzo che decideva di baciare un amico mentre questi guidava, provocando un quasi incidente. Sorrisi tra me e me, rassicurato dal fatto che Nico fosse umano e che non fosse del tutto spezzato a causa delle sue sofferenze. 
– Allora faremo un dolce – esclamò, mentre tamburellava nervosamente le dita sul bancone. 
Io annuii e andai a prendere dalla mensola il ricettario dei dolci. In quel librone c’erano un fantastiliardo di ricette e non sarebbe bastata una vita intera per provarle tutte. 
Passai il ricettario a Nico e mi misi accanto a lui, così da ammirare tutte le appetitose immagini dei dolci. 
Passò almeno mezz’ora prima che decidesse cosa preparare, una mezz’ora in cui provai a non fare caso al modo in cui umettava l’indice destro prima di cambiare pagina, il modo in cui si formava una ruga di concentrazione tra le sopracciglia e una serie di altri piccoli ma interessanti dettagli. 
– Ho deciso! – sentenziò alla fine, facendomi quasi sussultare da quanto ero applicato a osservare il modo in cui si mordicchiava le labbra. – Faremo le fave dei morti e il tiramisù*! 
Sgranai gli occhi e arrossii. – I... i che cosa?! 
Vidi Nico reprimere un sorriso, per niente imbarazzato. – Sono dolci tipici italiani. Di Venezia, per esattezza... sai, il mio luogo di origine. 
Mi concentrai su quello che aveva appena detto e allontanai dai miei pensieri il doppio senso che dava la parola “tiramisù”. 
– Oh... capisco. Certo che questi italiani sono proprio strambi – borbottai, facendo sorridere Nico mentre scuoteva la testa come a dire “è proprio un caso disperato”. 
Decidemmo di cucinare per prime le fave dei morti, e una volta presi gli ingredienti, ci divertimmo tantissimo a tritare mandorle, aggiungere vaniglia e, nel frattempo, bere un po’ di liquore che andava aggiunto insieme a tutto quel pasticcio. Nico inizialmente era molto sulle sue e si concentrava così tanto su quel lavoro che credevo desiderasse annegare in quella poltiglia di ingredienti, ma diventava amichevole ogni minuto di più. Non lo avevo mai visto così spensierato ed espansivo prima di allora, escludendo il giorno in cui lo conobbi. Ecco, in quel momento Nico era tornato ilare come allora, facendomi scaldare il cuore. Risi tantissimo quando fu il momento di rompere le uova: sul viso aveva disegnata un’espressione disgustata ed esitante mentre picchiettava troppo delicatamente l’uovo sul bordo della ciotola e imprecava in italiano. Provai a fare il serio quando presi in mano la situazione e nascosi un’espressione orgogliosa e compiaciuta mentre fissava con ammirazione le mie mani esperte che rompevano perfettamente in due l’uovo. Tentò di nuovo, ma i suoi sforzi furono vani. La ricetta diceva di aggiungere del cacao in alcune pagnotte, lasciarne altre del loro colore naturale e mettere del colorante rosa in quelle rimaste, ma scegliemmo il colorante azzurro sia per quelle del loro colore naturale, sia per quelle che sarebbero dovute essere rosa. Una volta messo un po’ di zucchero a velo, le avvolgemmo in una pellicola. La ricetta diceva di lasciarle in quel modo per almeno dodici ore, ma decidemmo di aspettare massimo sei ore. 
Dopotutto, eravamo americani. 
– Non voglio nemmeno immaginare cosa ne uscirà fuori – bofonchiò Nico, accasciandosi sul divano della cucina. Eravamo piuttosto stanchi, così decidemmo di riposarci per mezz’ora prima di riprendere e preparare il tiramisù. 
– Resta comunque il tiramisù – replicai con un sorriso goloso. Avevo visto l’immagine di quella strana torta italiana e non riuscivo a togliermela dalla testa. Prometteva così bene... avrei voluto mangiarne una teglia intera.
Restammo per un po’ in silenzio, ma non lo reputai imbarazzante, forse perché ero troppo impegnato a rivivere il bacio quasi fatale che Nico mi aveva dato qualche ora prima. Mi aveva scosso molto e mi aveva confuso ancora di più. Non sapevo cosa pensare dei miei sentimenti per Annabeth e non sapevo come considerare l’amicizia con Nico. 
Sapevo solo che le teorie di Annabeth non erano poi del tutto folli, e mi venne l’impulso di correre da lei e chiederle scusa.
Mi concentrai sul fatto di essere a qualche centimetro di distanza da Nico e sul fatto che noi due dovevamo parlare. Durante la preparazione delle fave dei morti avevamo tenuto il discorso alla larga e avevamo fatto finta di niente, ma quella era l’ora di fare i conti. 
– Nico – dissi con cautela, - prima... cos’è successo prima?
Vidi i suoi muscoli tendersi e la sua espressione indurirsi, e mi dispiacque per lui, ma io avevo bisogno di certezze. 
Stette per un po’ in silenzio, e quando capii che non mi avrebbe risposto, prese parola. – Dovevo per forza tapparti quella bocca che ti ritrovi – disse con una smorfia. 
Qualcosa dentro di me esultò, la parte che sperava che le azioni di Nico fossero state dettate dalla pura follia e dagli ormoni impazziti tipici dei quindicenni. L’altra parte, invece, crollò dolorosamente. Mi spaventai di me stesso. 
Stavo per replicare, quando Nico mi sfiorò la mano e mi intimò con gli occhi di tacere. – E per una volta volevo provare a vivere senza il peso di una maschera – continuò con amarezza. – Com’è che si dice? Ho preso due piccioni con una fava. 
– Nico, io... – sussurrai, ma la mia voce si spense.
Nico, io... cosa?
Nico, io sono fidanzato.
Nico, io amo la mia ragazza.
Nico, io sono un ragazzo. 
Nico, io sono confuso.
Nico, io non so cosa pensare di me stesso.
Nico, io non so come pensarti.
Nico, io...
Io...
Girai il capo in modo da incontrare il suo sguardo e dei, eravamo così vicini. – Io... – sussurrai di nuovo, ma non continuai.
In quell’istante avevano suonato il campanello di casa mia. 
Restammo per un attimo a guardarci sconsolati, poi Nico ruppe il nostro contatto visivo e si allontanò da me, mentre io andai ad aprire la porta. 
 
 
 

*So che Percy e Nico hanno quattro anni di differenza, ma sul web ho letto che il compleanno di Nico è il 28 Gennaio. Non so se sia giusto, ma comunque... se la matematica non è un’opinione, Percy, in questa ff, deve ancora compiere 19 anni.

 
** Tiramisù è una parola italiana, quindi gli americani non possono capire i doppi sensi, ma vivono in un mondo fatto di dei, centauri, ippocampi, e molto altro... lasciamo correre questo piccolo cambiamento xD
 
 

Note noiose d’autrice
Ringrazio coloro che hanno recensito e aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite e invito a coloro che ne hanno voglia a lasciarmi un commentino xD
A presto,
Daughter of Athena

 

  
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