Ovvero
Herr Al Aki, il suo disturbo ossessivo-compulsivo
e la sua brillante ed inarrestabile parlantina
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Venner sospirò impercettibilmente, appoggiato ad un muretto ad un lato della strada. D’innanzi a lui era parcheggiata la carrozza in cui Ko Rah era salita senza perdere tempo: la sua voglia di comunicare col mondo era, come al solito, piuttosto bassa, tanto che aveva già acceso il Wired e aveva cominciato a giocarci furiosamente.
Ogni tanto, però, la ragazzina scambiava qualche parola con
sua moglie Maali e la figlia Livet: Venner era abbastanza lontano da non
riuscire a sentire una sola parola di ciò che stavano dicendo, ma teorizzò che
si trattasse solo di alcuni discorsi d’addio e non volle immischiarsi.
Preferì invece continuare ad osservare Al Aki mentre
litigava col cocchiere, la cui unica colpa era stata quella di arrivare
leggermente in ritardo rispetto all’orario prefissato. Il ragazzo era un
continuo agitare di mani, emettere acuti senza senso, pestare i piedi a terra
perché il cocchiere non lo degnava di uno sguardo, troppo occupato a caricare i
bagagli.
A Venner sfuggì una risata, unica
prova di quanto lo spettacolo lo stesse divertendo: come tutti i Sakiro,
infatti, indossava una maschera che non lasciava intuire nemmeno il colore
degli occhi.
I Sakiro erano un popolo strano. Estremamente avanzati per
quanto riguardava la tecnologia (il Wired che Ko Rah trovava così tanto
appassionante era in principio della figlia, Livet), avevano però un
preciso tabù nel mostrare anche un solo lembo della propria pelle: di solito,
quindi, si vedevano sempre con maglie a maniche lunghe, pantaloni, guanti- e,
per l’appunto, delle maschere in quella che sembrava porcellana.
Venner non era un eccezione: indossava degli abiti bianchi,
candidi, riprendendo l’argento della sua maschera e il bianco dei capelli che,
lunghi, gli ricadevano sulla schiena, alcune ciocche legate da dei nastrini
azzurri, altre lasciate semplicemente libere.
L’unica che non si faceva simili problemi era Livet: continuava ad indossare la sua maschera, ma spesso trovava
che fosse troppo caldo per indossare qualcosa con maniche lunghe e preferiva
delle gonne o dei pantaloncini lunghi fino al ginocchio.
I genitori la lasciavano fare, all’inizio leggermente
perplessi ma poi accettando quel cambiamento: in fondo, in quel villaggio disabitato,
abitavano solo loro e i due fratelli.
Al Aki si avvicinò a lui, con un sorriso: Venner non poté
fare a meno di notare come fosse ancora rosso in volto per la sfuriata.
“Ehi, Venner,”
biascicò Aki, la voce leggermente rauca,
“visto che roba? Per colpa di questo ritardo mi è slittata tutta la giornata!”
Aki sbuffò, attorcigliando una ciocca di capelli attorno
all’indice, ancora leggermente irritato.
Il sospiro che Venner si lasciò sfuggire rimbombò nella
maschera. “Sei come tuo padre,”
disse poi in un bisbiglio.
Il ragazzo lo guardò, gli occhi spalancati per la sorpresa,
mentre Venner continuava con una punta di divertimento nella voce, “ti preoccupi delle cose più stupide.”
Aki tentò in tutti i modi di apparire offeso, ma finì col
sfoggiare un sorriso a trentadue denti.
Venner scrollò le spalle, voltandosi dalla parte opposta di
Aki. Non capiva il perché di quell’allegria da parte del ragazzo: sicuro,
probabilmente aveva voluto bene al padre, ma non aveva mai creduto che sarebbe
arrivato al punto di accettare una critica con un sorriso.
“Oh bhè. Il fatto è
che l’ultimo giorno per registrarsi è domani, e preferirei poter sbrigare le
pratiche questa sera.” Aki sbuffò, facendo un veloce calcolo mentale di
quanto tempo quel ritardo potesse avergli sottratto. “Che seccatura. E il viaggio? Vogliamo parlare di quanto mortalmente
noioso sarà il viaggio? Non posso neanche dormire, o mangiare fino alla morte-
ti ho gia detto quanto buoni sono i panini che ho fatto?” Ridacchiò,
orgoglioso di se stesso, prima di rabbuiarsi nuovamente. “Immagino di non poter sperare nella compagnia di Ko. Ngh, morirò!”
“Non sei obbligato,
lo sai.” Biascicò Venner, continuando a guardare da un’altra parte.
Per pochi secondi cadde il silenzio fra i due. Venner non
sembrava volersi voltare verso Aki, mentre quest’ultimo fissava il vuoto con
sguardo spento, come se quelle parole gli avessero succhiato qualsiasi linfa vitale.
“Non sei obbligato,”
ripeté Venner.
Il ragazzo sorrise mestamente, senza rispondere.
“Al!”
Aki fece appena in tempo a rendersi conto che qualcuno
l’aveva chiamato prima di venire attaccato da una ragazza ridacchiante.
Venner si voltò, fissando per pochi istanti la figlia abbracciare Aki
mentre quest’ultimo emetteva dei gridolini spaventati.
“Livet,” disse
poi con calma, attirando l’attenzione dei due diciannovenni, “lascia in pace Aki. È già nervoso per il
viaggio e per il terribile ritardo” Venner sottolineò le due parole,
esaltandole in modo quasi ridicolo, prima di continuare, “non vorrai forse fargli venire un colpo?”
Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria minacciosa.
Inutilmente. “Ritardo?”
esclamò Livet, lasciando Aki e facendo una smorfia incredula, “un ritardo nella scaletta di Al? Al! L’ossessivo-compulsivo
Al!”
“Non sono
ossessivo-compulsivo!” gridò Aki prima di incrociare le braccia sul petto e
fare un broncio degno di un bambino di sei anni.
Livet gli lisciò i capelli, apparentemente intenerita da
quella dimostrazione di immaturità. “Certo
che non lo sei.”
Maali arrivò appena in tempo per distrarre Aki dal gridare
una seconda volta.
“Al, la carrozza è
pronta,” disse lei, chinandosi verso il ragazzo. Aki non poté non
addolcirsi: anche se non poteva vederle il viso, Maali riusciva a far avvertire
il proprio sorriso attraverso la porcellana.
“Grazie, Maali.”
Aki le sorrise, prima di voltarsi verso Livet, assumendo
un’espressione leggermente imbarazzata.
“Uhm… Grazie per, uh,
il, ehm, sai… uh…” rimase in silenzio per qualche secondo, agitando la mano
sinistra in aria e aprendo e chiudendo la bocca, alla disperata ricerca del
termine tecnico, “…coso. Che hai
regalato a Coco.”
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di
capire di cosa stesse parlando, prima di emettere un ‘Oooh!’ di comprensione.
“Il Wired!” Aki
scrollò le spalle, annuendo a ciò che aveva detto Livet. Lei non poté fare a
meno di continuare a stuzzicarlo. “Voi
siete così arretrati! Noi,” e la ragazza batté un pugno sul proprio petto,
cercando di dare, con quel gesto pregno di orgoglio, a quel ‘noi’ un
significato che si estendeva a tutta la razza dei Sakiro, “li abbiamo inventati secoli fa, quei giocattoli! Mentre voi
continuate ad usare le lettere, noi…”
“Livet, per favore.”
Disse Venner, interrompendola prima che potesse continuare con la propria
arringa. Sapeva benissimo che avrebbe potuto parlare per molto tempo, ed Aki
sembrava già fin troppo nervoso.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, prima di voltarsi verso
Maali tornando a sorridere. “Grazie
anche a te Maali. E, bhè,” balbettò, imbarazzato, voltandosi verso Venner, “a te, ovviamente. Non c'è l'avremmo fatta senza di voi.”
Maali fece segno con la mano di lasciare perdere, poi si
chinò e gli diede un veloce abbraccio.
“Ricordatevi di
scrivere, d’accordo?” sussurrò lei lasciandolo andare.
Aki annuì.
“Ti vuoi muovere?!”
Il ragazzo sobbalzò sul posto nel sentire le grida della sorella, spaventato, e prima che
potesse davvero rendersi conto di ciò che stava facendo aveva chiuso dietro di se la porta della carrozza.
Al Aki non si era sbagliato quando, sette ore prima, in
presenza di Venner, aveva detto che il viaggio sarebbe stato mortalmente
noioso. Non dormì, non mangiò – no, neanche quando venne l’ora di pranzo,
preferendo così lasciare che i suoi favolosi panini venissero divorati da Ko Rah con
una voracità che, solitamente, era il silenzioso modo della ragazza per dire ‘è
una delle cose più buone che ho mangiato nella mia vita’ – e, come aveva
predetto, non riuscì ad instaurare un dialogo duraturo con la sorella.
In compenso si lamentò.
Si lamentò di quanto presto aveva dovuto svegliarsi per una
carrozza che alla fine era persino arrivata in ritardo, dell’orario in cui
erano partiti, della lentezza del viaggio, del caldo asfissiante, della brezza
che non faceva altro che fargli finire i capelli sul viso, della nausea che le
buche e i sassi della strada gli facevano venire, di quanto gli sarebbe
piaciuto poter sgranchire le gambe, della sua disgraziata scelta di partire il
penultimo giorno utile per registrarsi.
L’odio che provava Ko Rah verso il fratello era ormai
diventato palpabile - era diventato difficile persino respirare - quando il
ragazzo si decise, finalmente, a guardare il paesaggio che sfrecciava dalla
finestra della porta e a stare in silenzio.
La ragazza non ci poteva credere. Per cinque secondi rimase
incantata, rapita dal silenzio del luogo: poi si buttò a capofitto nel Wired,
pronta a battere per l’ennesima volta il suo record personale.
Stava allegramente uccidendo l’ultimo boss del gioco quando
suo fratello decise di farle una domanda. “Cosa
ricordi della mamma?”
La domanda la prese di sorpresa, facendole rischiare di
essere colpita dal mostro.
“Nulla,” mugugnò
lei, tornando a pestare tasti con una rapidità che aveva dell’eccezionale.
“Oh, andiamo,”
continuò Aki con voce lamentosa, “devi
pur ricordare qualcosina!”
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso. “Avevo tre anni quando è morta. Non la
ricordo.”
Qualcosa, nel sorriso di Al Aki, sembrò incrinarsi: fu
qualcosa che durò solo pochi secondi, comunque, e nulla che la sorella notò.
“Andiamo, qualcosa
ricorderai di sicuro, no?”
Le mani di Ko Rah presero a tremare leggermente, segno
dell’estremo nervosismo che le provocava, in quel momento, avere una
discussione che implicasse qualcosa di più di un monosillabo. “Non la ricordo.”
“Eddai!” uggiolò
Aki, facendole perdere qualsiasi concentrazione in meno di un secondo.
Mise il gioco in pausa, sospirando. Era ovvio che quel
giorno l’unica cosa che potesse fare era giocare nelle brevi pause fra un discorso
e l’altro del fratello.
“Bene. Ricordo
qualcosa,” ringhiò Ko Rah, esasperata. Se quello era l’unico modo per far
smettere il fratello, allora non poteva fare altro.
Aki sembrava rinvigorito dalla notizia. “Davvero?” chiese, allegramente, prima di aggiungere “che cosa ricordi?”
Ko Rah sbuffò. “Le
piaceva la calma. Adorava i biscotti. Sorrideva un sacco.” Socchiuse gli
occhi, concentrandosi, “e profumava di…
arance.”
Il ragazzo aggrottò la fronte, perplesso. “Arance?”
“Se non ti va bene
smetto di parlare,” ringhiò la ragazza. Aki non si azzardò a continuare.
“Hm. Le piaceva stare
al sole e… si divertiva a passare il suo tempo con Maali. E, uh, le piacevano i
bambini.”
Aki stava sorridendo, e la cosa distraeva Ko Rah, tanto che
non riuscì più a continuare. Si voltò verso di lui, squadrandolo con un
occhiata interrogativa.
“Lo so benissimo che
non ti ricordi niente di lei,” disse Aki, continuando a sorridere.
Per la seconda volta in dieci minuti, l’occhio sinistro
della ragazza ebbe un inquietante tic nervoso.
“Volevo soltanto
sapere come la immaginavi.” Ridacchiò, divertito da se stesso, “non mi aspettavo che la descrivessi così
allegra.”
Ko Rah scrollò le spalle, tornando al suo amato videogioco. “Solo perché io non lo sono non vuol dire
che non possa immaginare gli altri esserlo.”
In meno di un secondo l'espressione cambiò, come se avesse
accusato un colpo tremendo. Ko Rah non lo stava guardando, eppure
riusciva a sentire sulla
sua pelle lo sguardo triste del fratello, come riusciva a vedere, con
la coda
dell’occhio, quella smorfia sofferente sul suo volto.
Lei non sapeva cosa aveva detto di sbagliato: non lo sapeva
e non le importava. Probabilmente erano problemi suoi.
Tutto ciò che importava era che la cosa la stava distraendo.
“Togliti quell’aria
da cane bastonato dalla faccia, Aki. Mi stai dando fastidio.”
Passarono altre otto ore prima che la carrozza arrivasse a
destinazione. Il fastidio che Ko Rah provava verso le continue lamentele del
fratello erano arrivate al punto di dare dolore fisico: quando scese dalla
carrozza non v’era un solo muscolo che non le dolesse.
La cittadina che, dopo tante sofferenze, avevano finalmente
raggiunto si chiamava Nant.
Durante l’anno non era molto di più di un semplice crocevia:
la popolazione del luogo non doveva superare le duecento anime. Sopravviveva
grazie al commercio e agli avventurieri che si fermavano nelle numerose locande
che troneggiavano sulla via centrale.
Il vero momento di splendore, ciò che gli abitanti di Nant
aspettavano come una manna dal cielo, era l’inizio del torneo: la cittadina era
scelta come luogo neutrale in cui i concorrenti potevano iscriversi e in cui,
il giorno dell’apertura della gara, sarebbero partiti per portare a termine la
prima prova. Le iscrizioni duravano un mese, e per quel mese tutte le locande erano
occupate.
Al Aki era semplicemente entusiasta: con le due borse in
spalla e la sorella che lo seguiva senza alzare gli occhi dal Wired, si
guardava attorno ricordando un bambino in un negozio di dolciumi.
Non era tanto la cittadina a stupirlo, quanto tutta la gente
che, sebbene la tarda ora, continuava a brulicare per strada: quel miscuglio di
colori diversi, quel caos di voci era qualcosa di completamente diverso dalla quiete del
villaggio deserto in cui era nato e cresciuto.
Sospirò, guardandosi attorno con sguardo trasognato, prima
che il suo sguardo fosse catturato dalla costruzione posta in centro alla
piazza.
“Coco, entra pure in
camera se vuoi,” trillò Aki gentilmente, facendo cadere le due borse a
terra, “io ti raggiungo dopo!"
Ko Rah, ancora leggermente confusa dal modo con cui il
fratello si era liberato dei bagagli, non diede alcun segno di voler sapere
cosa dovesse fare.
Alzò gli occhi dal Wired, seguendo per pochi secondi i
movimenti di Aki: con passi leggeri, quasi i sassi che componevano la strada
fossero in realtà tappetini elastici, si stava dirigendo verso la chiesetta del
luogo.
Borbottando fra se e se, Ko Rah tornò al suo amato Wired, calciando con calma
i due bagagli all’interno della locanda più vicina.
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Nota d'Autore: Spero che vi piaccia questo capitolo. Sul serio. Al Aki e Ko Rah devono ancora iscriversi ma... yay!
X meg89: Spero che ti convinca ^O^X inuziku_rukiaXP: Grazie! Mi scaldi il cuore, mio tessssorro *_* (inquietante? Si. Molto.)