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Autore: Melian_Belt    05/06/2014    5 recensioni
"Ho sempre guardato gli altri dall’alto in basso, disgustato dalla loro semplicità, dai loro aspetti banali, chi è questa creatura che in un momento di mia simile debolezza mi sta davanti?
Accenna un sorriso sulle labbra sottili, gentilezza ed eleganza solo nel modo in cui mi tende la mano guantata. Dev’essere l’alcool che mi fa sentire così in soggezione, che fa battere il cuore contro la cassa toracica, proprio a me che sono un’inarrestabile macchina da guerra, fatta per schiacciare gli altri sotto le scarpe."
Per chi mi conosce, prima ero Melian92! Buone feste a tutti!
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~~La chiave si infila nella serratura senza forzature, come un dito che buca l’acqua. La porta si apre con un lieve cigolio e subito si sente l’odore del detersivo che usa la donna delle pulizie. Dev’essere andata via da poco, mi ero persino dimenticato di lei. Dovrò pagarla poi.
Mi strofino le mani tra loro senza motivo apparente, invitando Richard dentro con un rigido cenno del capo: “Prego”.
Richard mi sorride, prima di superare la soglia. Si guarda subito intorno, le mani fredde raccolte nelle tasche del cappotto: “È bella. Molto elegante”.
“Come altre” commento atono, scrollandomi la sciarpa di dosso. “Posso offrirti un tè?”.
“Grazie”.
Annuisco e mi dirigo in cucina, alzando del tutto le serrande semichiuse. Sento i passi di Richard dietro di me, sento il suo sguardo sui mobili come se lo stesse passando su delle parte del mio corpo, staccate da me.
“Non hai foto, qui”.
“Nemmeno tu lei hai” rispondo, mettendo il pentolino sul fuoco.
“Ma io lì ci sto da un paio di mesi”.
Abbozzo un sorriso tanto per fare e gli sposto la sedia dal tavolo, invitandolo a sedersi. Lui non insiste sull’argomento e si siede, il corpo rigido e controllato.
“Ti fa male qualcosa?”.
Scrolla le spalle larghe, noto solo ora che non si è tolto il cappotto. “Tutto bene”.
So che non è vero, ma lo lascio tranquillo. Ha un brutto pallore, forse dovrebbe mangiare qualcosa. Dopo andrò a fare la spesa, spero di poter preparare qualcosa che non gli disturbi troppo lo stomaco. L’affinamento continuo che gli sta tagliando gli zigomi mi sta facendo venire il nervoso.
Mi siedo davanti a lui, tenendo tra le mani una tazza di tè, che però non porto alla bocca. Me la sono fatta tanto per tenergli compagnia, non mi piace. Non so nemmeno perché mi sia premurato di tenerne una scatola, forse mi ricorda i tè che si faceva nonna quando mamma stava male. Uno strano, triste conforto, delle bustine di foglie. Per niente allegro.
Poggio meglio la schiena contro la sedie, accorgendomi di tenere le spalle incurvate in avanti. Continuo a tenere la presa sulla tazza, ma con una mano sola.
“Come ti senti?”.
Prende un sorso con cautela, con la stessa attenzione riaccompagna la mano verso il piattino.
“Ora che so meglio cosa devo fare. Meglio”.
Le sue labbra si curvano come per sorridere, poi si bloccano prima di finire, come se si fosse dimenticato ciò che stava per fare.
“Vuoi un po’ di zucchero?”.
“No, grazie”.
Rimango un attimo ad ascoltare il silenzio. Il rumore del tram che passa non lo rompe, lo sottolinea. Sposto il capo verso la finestra, trovando il fiume che vive dall’altra parte del vetro. Il sole batte ancora intenso, nonostante sia dicembre e il pomeriggio stia per passare. Dà una luce bianca che in ogni sfumatura sa d’inverno. Tocca l’acqua frastagliata da massi e correnti, riempiendola di piccole farfalle chiare che compaiono, battono le ali e poi scompaiono nel nulla, trascinate via o perse nell’aria. L’occhio mi cade poi sul davanzale, dove ancora si poggia un libro che ho letto ormai sei mesi fa.
Lo indico con la testa: “È molto bello. Dovresti leggerlo”.
“Davvero?”.
“Meraviglioso”.
Prendo un sorso tanto per fare.
“Se lo dici tu, ci credo”.
Perché non sono uno che apprezza le cose facilmente, immagino che questo lo abbia capito. È piuttosto evidente, a pensarci. Era da tempo che non mi curavo di ciò che qualcuno potesse pensare di me, dal di fuori. Richard continua a scorrere la casa con gli occhi blu che riflettono una strana stanchezza che non vuole riposare. Non so bene cosa stia cercando di capire. Forse me.
“Devo fare un paio di cose…” dico, facendo rotolare il tè nella tazza. “…forse è meglio se ti riposi un attimo. Prima di andare”.
Sorride con calma, stavolta un po’ più presente.
“Se mi fai vedere la tua camera, d’accordo”.
“Non ti facevo così curioso”.
“Ho un enigma da risolvere”.
Sorrido anch’io in un attimo di complicità: “Questo enigma si chiama Simone?”.
Non risponde, ma gli si formano delle rughe intorno agli occhi quando amplia il sorriso. Mi sorge una lieve risata un po’ impacciata, bloccata da mancanza d’abitudine.
Abbandono il tavolo, facendo strada: “Vieni”.
Gli porgo la mano quando mi è vicino e lui la prende dopo un attimo di automatica esitazione. Voglio che la prende senza pensarci nemmeno, in futuro. Tenterò di ottenere la sua fiducia spontanea, anche se non c’è una ricetta per farlo.
Ci inoltriamo, due ombre nelle ombre del corridoio. Vivo in questa casa, ma per un attimo mi sembra di essere di passaggio su un pavimento come milioni d’altri.
La mia camera è meglio illuminata delle altre. Mi piace essere svegliato dalla luce del sole, anche se col tempo ho continuato a farlo più per svegliarmi in tempo per rendere ogni ora un proficua. Mi ero dimenticato che lo facevo perché nel vecchio palazzo di nonna non c’erano serrande e ci svegliavamo così, con i raggi del sole che sembravano portare aggrappati a sé i limoni e gli aranci dei campi intorno.
Mi passo una mano sul viso, poi porto indietro i capelli. Richard sta guardando un vecchio armadio intarsiato e cercando di non farmi notare mi avvicino alla cornice abbandonata su una poltrona ormai bucata. La prendo e in silenzio la giro, voltandola contro il muro. Per fortuna Richard non mi nota e con le gambe un po’ intorpidite mi dirigo alla cassapanca, tirando fuori un paio di coperte e una federa pulita.
“Puoi sistemarti qui. È abbastanza comodo”.
Le poggio sul letto e solo ora noto Richard tenere la cornice tra le dita, il vetro colpito in pieno dal sole. Raddrizzo la schiena con una lieve smorfia di nervoso non diretto a nessuno in particolare.
“Solus cum deo…” legge, con un latino dallo strano accento britannico. Mi mostra la china che raffigura un veliero solitario nel mare notturno, l’unica luce una stella solitaria che ne sfiora l’albero maestro.
“Cos’è?”.
Scrollo appena le spalle: “Uno stemma”.
Lui fa un cenno col capo, tornando a guardare il disegno. “Della tua famiglia?”.
Annuisco, nascondendomi nel sistemare la coperta. Poggia la cornice dove l’ha trovata, ma nel verso giusto. Capisco che ha visto la foto di mia madre quando si dirige al comodino vicino al letto. Prende anche quella in mano, ma con una cautela quasi religiosa.
“Tua madre?”.
“Sì”.
Mi studia per un attimo, quando smette ha l’aria di chi ha capito un po’ di cose.
“Era molto bella”.
“Sei molto intuitivo”.
Dirige un’occhiata di striscio verso di me, continuando a guardare mia madre come se lei potesse parlargli.
“Perché ho capito che è morta?”.
Le dita mi si chiudono rigide intorno al cuscino, un gesto spontaneo. Con un respiro più lungo sistemo la federa sgualcita e do un ultima raddrizzata alle lenzuola.
“Hai preso la sua bellezza”.
Mi giro a guardarlo con occhi sbarrati.
“Me lo dicevano da piccolo…” sussurro.
“È ancora così”.
Rimette la foto al suo posto, togliendo un angolo di polvere dalla cornice datata.
Quando mi si avvicina fa un sorriso nuovo, che ancora non gli avevo visto. Ha una morbidezza nuova, sa anche un po’ di passato, di abitudine. Poggia una mano sulla mia guancia, sfiora lo zigomo con le nocche fredde.
Avvolgo un braccio intorno alla sua vita e di istinto lo bacio, sotto al sorriso prudente di mia madre, bella come nei ricordi. Ci separiamo piano e di istinto poggio il viso contro la sua spalla, chiudendo gli occhi.
Lo sento sorridere contro il mio collo. Le sue dita mi tirano un poco i capelli.
“Credevo fossi io quello che doveva dormire”.
Abbozzo un sorriso, emettendo un respiro stanco.
“Non ho dormito molto, nelle ultime notti”.
Sussulto per lo spavento quando si lascia cadere sul letto, trascinandomi con sé. Le sue labbra si poggiano contro la mia fronte, stupendomi. Avvolgo le dita nel suo golfino, accorgendomi di avere l’orecchio contro il suo cuore. Batte e sembra dare il ritmo al tempo. Rimango lì ad ascoltarlo e vorrei comunicargli qualcosa anch’io. Vorrei che potesse battere una volta su tre, anche due su tre, e con il suo ritmo rallentato far rallentare anche il resto, dandoci più tempo. Ma sono i pensieri un po’ persi tra la vita e il sonno, senza un vero senso. E il buio degli occhi chiusi diventa presto quello dell’incoscienza, facendomi perdere.
Ma Richard continuo a sentirlo, forse per le sue braccia intorno a me, per il suo battito contro la mia testa, per il respiro che tocca i miei capelli. Sento la sua vita toccarmi e dal buio il viso di mia madre si mette in mezzo. Lei non c’è più, per quanto l’amassi è sparita nel nulla e pur viaggiando in tutto il mondo non la troverei, non posso nemmeno accarezzarne l’ombra. Lei aveva i capelli neri, anche Richard li ha. Cerco lei in quel niente, trovo Richard, ma ho paura di perdere anche lui.
Il sonno continua a tenermi, ma da sola la fronte si corruga e le dita si arrampicano su Richard, fino a toccargli la pelle calda del collo. Quando il sonno diventa profondo, non me ne accorgo. 
  
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