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Autore: NotFadeAway    29/06/2014    2 recensioni
Antiche leggende narrano che le persone quando muoiono ritornano sulla terra, l'anima è la stessa, il corpo non più. Ma su sette miliardi di persone, che speranza c'è di ritrovarle?
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John era dentro ad un taxi.
Aveva gridato al tassista di fottersene dei limiti, perché quella era un’emergenza, poi si era infilato sul sedile posteriore.
Perché gli faceva questo?
Perché gli faceva sempre questo?
Mettere felicità e cuore nelle mani di Sherlock Holmes era come mettere un bicchiere di cristallo nel tritacarne. Non c’è speranza che ne venga fuori intatto. C’erano sempre proiettili, edifici troppo alti e psicopatici di mezzo.
E per l’ennesima volta, John era di fronte alla possibilità di perdere Sherlock.
Era una sensazione vecchia, l’aveva già provata prima, e Dio sa se odiava quell’ombra che ogni volta incombeva.
C’era stato un tempo in cui era riuscito ad abituarvisi. Quando credeva che fosse morto e anche dopo, quando Mary era ancora in giro. Ma era una sensazione difficile da spiegare, non si era distaccato dal dolore, più che altro, era stato il dolore cronico ad anestetizzarlo, a stordirlo. Così, dentro la sua testa tutto diventava ovattato e fuori sembrava un uomo normale.
Tutto questo era prima.
Ora, semplicemente, quella possibilità che loro due, Sherlock e John, Holmes e Watson, William ed Hamish, fossero separati di nuovo non era più contemplabile, né accettabile, né comprensibile, né figurabile.
Era al di là di ogni sua capacità di percezione ed elaborazione di stimoli e informazioni.
Era ben oltre la sua soglia del dolore.

Il tassista si fermò.
Quanto tempo ci aveva messo? L’ambulanza era arrivata?
Lo pagò, senza fermarsi ad aspettare il resto. Probabilmente gli aveva dato trenta sterline in più, sicuramente non gliene aveva date in meno.
Saltò sul marciapiede e scese le scale che portavano sotto al ponte.
Una lunga via costellata di pub dava sul Tamigi. Erano arroccati alla sua destra e, come tanti bambini curiosi, da ogni soglia spuntavano cinque o sei teste e assai più birre.
Dell’ambulanza non c’era traccia.
Di Sherlock nemmeno.
Si avvicinò alla folla di gente ammassata davanti al pub più vicino.
-Scusatemi, è si è fermata un’ambulanza qui? – aveva il fiato corto, non perché avesse corso troppo, era solo il cuore: batteva a 120 battiti al minuto ed era praticamente inutile. Al diavolo!
-Sì, se n’è appena andata. Vero Kate? -
Una donna tatuata e squadrata si aprì un varco tra la folla. Aveva i capelli chiari e parlò con accento straniero.
-Due minuti fa. -
-Avete… avete visto… per caso… sapete cosa è successo? -
-Adam ha visto i paramedici portare via uno. – rispose, volutamente vaga.
Ma il suddetto Adam intervenne.
-Accoltellato. Un tipo strano nel vicolo dietro al pub. -
John annaspò in cerca d’aria.
-Io… cosa… - dovette fermarsi per ispirare, - Dove… dove l’hanno portato? -
-Al Charing Cross, di solito li portano lì -


Al Charing Cross John ci arrivò correndo.
Sapeva che in taxi avrebbe fatto prima, ma ora Sherlock era in buone mani. Ne era convinto. Doveva esserlo. E John aveva bisogno di correre.
Corse come se non ci fosse un domani, i suoi polmoni gridavano pietà, la sua vecchia ferita alla spalla iniziava a strattonargli la pelle, come avesse in mano delle briglie per farlo rallentare.
Tagliò la strada ad almeno una mezza dozzina di automobilisti e si scaraventò dentro all’ala accettazione del pronto soccorso.
Si arrestò andando ad impattare contro la scrivania.
Non cercò di riprendere fiato, usò quel poco di aria che gli era rimasta per chiedere di un ferito di arma da taglio che era stato appena portato lì.
-Non sono autorizzato a dirle niente, signore. Vada in sala d’attesa, la prego. -
-Ma io… sono John Watson… il suo fidanzato, la prego… -
-Non sono informato sulle condizioni del paziente. Ma le manderò uno dei paramedici che lo hanno portato qui. Vada in sala d’attesa e aspetti lì. -

John si trascinò in sala d’attesa e si accasciò tra una bambina con il naso sanguinante e una signora con un taglio sulla guancia. Ora che la foga della corsa era passata, si sentì strappare via tutte le sue energie. La lotta con la sua testa fu persa e iniziò a sentire riecheggiare la vocina del panico.
Poggiò il mento su una mano, ma non riuscì a tenerla ferma. La muoveva in continuazione, passando il dorso da una parte all’altra delle labbra, che poi stringeva tra indice e pollice e schiacciava forte sulle nocche. Nel frattempo fissava una macchia scura sul pavimento davanti a lui, che era senz’altro sangue.
-Il signor Watson? -
-Sì! – rispose John, lo fece così di scatto che gridò, svegliando il bambino piccolo nella carrozzina davanti a lui. Senza accorgersene era anche scattato in piedi.
-Ero sull’ambulanza con il signor Holmes. -
-Sì, come sta? – cercò di contenere il tremore alla mano sinistra, ma ormai era incontrollabile.
-Signore, lei è il coniuge o un parente prossimo? -
-Sono… sono il suo fidanzato. Watson. John Watson. -
Il paramedico disegnò un sorrisino triste sulla faccia e distolse lo sguardo dal volto sconvolto dell’uomo davanti a lei.
-Allora, sono desolata, ma non posso darle informazioni riguardo le condizioni cliniche del signor Holmes. Adesso è in sala operatoria. Dirò a qualcuno di avvisarla quando uscirà – rispose.
Sala operatoria? Cosa? Di nuovo?
-No -
Un “no” sconsolato, pieno di paura e disperazione fu tutto quello che gli usci di bocca.
-Mi ha detto di farle avere questo – aggiunse il paramedico, porgendogli un biglietto.
Prima che se ne accorgesse, lei se n’era andata.
John guardò per un attimo quel foglio di carta, senza aprirlo. Era stropicciato e umido.
Poi, voltò il lembo che celava la scritta.
“Conosci i miei metodi. Sono conosciuto per essere indistruttibile”
 
John aveva passato tutto il tempo a pensare a cosa avrebbe detto a Sherlock quando si fosse svegliato.
Una lunga serie di insulti era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Perché quello stronzo, bastardo non doveva permettersi mai più di fare una cosa del genere.
Poi aveva pensato a qualcosa che lo facesse apparire figo e distaccato. Degno del Capitano John Watson.
Aveva anche in mente un paio di battute che avrebbero sciolto la tensione della nottata in ospedale. E una lunga sfuriata che avrebbe fatto desiderare a Sherlock di non essersi mai risvegliato. Perché quello stronzo, bastardo non poteva fare più attenzione di tanto in tanto!
Di sicuro non avrebbe pianto. Era pur sempre il Capitano John Watson. E di sicuro non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Perché John dava per scontato che si svegliasse.
Sherlock gli aveva fatto una promessa.
Era indistruttibile.

Due ore dopo, gli arrivò la notizia che l’intervento era finito e che era andato come previsto. Non potevano dirgli di più, ma non appena Sherlock si fosse svegliato e avesse dato il suo consenso, potevano informarlo sul resto.
Stupide leggi. Stupido Codice. Stupida deontologia medica.
Gli dissero anche che ora era in terapia intensiva, ancora stordito tra l’effetto degli anestetici e dei sedativi.
John non poteva entrare.

Per questo passò la notte a pensare cosa dirgli quando si fosse risvegliato.
E non avrebbe pianto.


-Signore… signore… -
Un infermiere chiamava John.
John lo sentiva chiamare da lontano, anche se era a pochi centimetri da lui.
John non stava dormendo, aveva solo la testa affollata da una farcita catasta di insulti, che non vedeva l’ora di riversare sul suo psicopatico preferito.
-Signore, il Signor Holmes si è risvegliato. Se mette il camice sterile può andare a visitarlo -
Un ghigno si disegnò sul viso di John.
Era tempo di andare in scena.

Il suono della porta pressurizzata che si aprì accompagnò l’entrata di John nella stanza di terapia intensiva.
C’era un unico letto, con un’unica persona ed un mucchio di macchinari e tubicini che fuoriuscivano da quest’ultima, facendola sembrare un albero coperto di liane, nella giungla.
E che gran bell’albero, pensò John.
E quell’albero, un po’ stordito, lo stava fissando.
Ed era un gran bell’albero.
E John non ce la fece a reggere.
Non che i buoni propositi non ci fossero: il ghigno inquietante era ancora lì, quando si accorse di stare piangendo.
Con gli occhi appannati, vide Sherlock fare con le labbra il suo nome e tendere un braccio per raggiungerlo prima.
John si mosse in avanti, alla cieca, e trovò la sua mano.
Nel frattempo si era già perso nel suo mantra di insulti.
-Tu, brutto stronzo! Pezzo di merda! Bastardo! Come cazzo hai potuto! Sei un emerito idiota! Un deficiente! E imprudente! Uno stronzo imprudente! -
Il che, tradotto in lingua corrente, vuol dire:
“Ti amo così tanto, non osare lasciarmi mai più!”



Dieci minuti più tardi, un medico, in vesti da chirurgo, si presentò a loro come la Dottoressa Marple. Finalmente John poté essere informato su quello che era successo a Sherlock.
-La ferita riportata sembra essere stata procurata da un lama tra i 15 e i 17 cm, tra la quarta e la quinta costa della parte destra della gabbia toracica. Ieri, è stata effettuato un intervento d’urgenza per limitare i danni causati dal coltello ed evitare un tamponamento cardiaco a causa dell’emotorace. Siamo riusciti a drenare buona parte del sangue. Oggi la lasceremo collegato ancora per qualche ora alla macchina di drenaggio per completare, per domani dovrebbe riuscire a respirare da solo senza supporti e la metteremo in reparto, sotto osservazione. -
Il chirurgo chiuse la cartella clinica e si rivolse nuovamente a Sherlock.
-Proseguiamo con la visita, come si sente? -
-Ne ho passate di peggiori… - rispose, con il fiato corto, i tratti sofferenti.
A John scappò uno sbuffo di risa. Era quello il potere di Sherlock.
-È vero, sa? Ho perso il conto delle volte in cui questo piccolo bastardo è morto e tornato in vita-
La dottoressa vece un verso che significava che aveva sentito, non necessariamente elaborato le parole di John. Stava auscultando il torace.
-Solo due volte. Sempre esagerato. Esagera sempre, è impossibile conviverci! -
-Ssh! - Lo zittì la Marple.
Sherlock si inviperì, ma si rassegnò a tacere dopo un’occhiata eloquente di John.

Sherlock convalescente non era esattamente la più docile delle persone.
John fu costretto ad usare la sua voce da capitano ben quattro volte, perché capisse che non poteva tornare a casa quando aveva un tubo gli finiva dritto nel polmone, portando a spasso il suo sangue. Dovette corrompere metà dello staff infermieristico per convincerlo a non avvelenare Sherlock per endovena, dopo che era riuscito a offenderlo al completo nel giro di una sola mattinata.
Si vide costretto a sorbirsi lamentele una dopo l’altra, che sarebbero risultate fuori luogo persino nel reparto di pediatria. E finì con l’evitare per un soffio che giocasse al tiro al piattello con i farmaci disposti sulla mensola davanti a lui e la pistola che aveva sfilato dalla tasca del suo cappotto.
Queste e molte altre erano le ragioni per cui John passò buona parte dei seguenti due giorni in ospedale con lui, supplicandolo di rimanere zitto e fermo nel letto quando l’orario di visita terminava e dilapidando i propri risparmi in mazzette quando ritornava all’ospedale, per riparare ai danni fisici e morali causati dal suo sociopatico personale.

-John, credi che se glielo chiedessi gentilmente, quell’uomo mi lascerebbe esaminare un campione delle sue feci? -
John era seduto su una cosa che fingeva di essere una sedia, ma era più uno sgabello, ed alzò lo sguardo piano, con un’espressione a metà tra il terrorizzato e il rassegnato segnata in faccia. Diceva “Oh no, non di nuovo”.
-Ha subito un’intossicazione da oppiacei. Analizzarne i residui nelle feci potrebbe essere d’aiuto in futuro. Lo sapevi che un avvelenamento su tre è volontario. Studiando il suo caso potrei stabilire un parametro per valutare… -
-No -
-Solo un pochino… -
-Sherlock, no -
-Okay, tanto l’orario di visita scade tra dieci minuti… -
-Tu devi prima essere in grado di camminare, per poter andare a rovistare tra gli escrementi di uno sconosciuto -
-Le minacce non ti porteranno da nessuna parte, John –
-Credo che nessuno abbia parlato di limitarsi a quelle, infatti… -
Sherlock sostenne il suo sguardo, carico di disappunto, ma fu il primo a cedere.
-Okay, va bene! Hai vinto tu… -
-Potrei farti legare a quel letto, lo sai?-
Sherlock stava ancora fissando la sua preda.
-E non servirebbe a niente, come entrambi sappiamo bene. -
John si strofinò le tempie con la punta delle dita, prima di rassegnarsi a cambiare argomento.
-Ha chiamato il fioraio. -
-Che cosa ha detto? – la cosa si guadagnò subito l’attenzione del detective.
-Ha chiesto se potevamo confermargli l’ordine prima di mercoledì prossimo per agevolarlo… -
-Mercoledì? I medici vogliono tenermi sotto osservazione fino a venerdì!- si sollevò di scatto a sedere, dimentico della ferita fresca - John, devi fare qualcosa, parlaci tu. Dobbiamo scegliere i fiori per il matrimonio e, sinceramente, non puoi andare da solo. Dieci a uno che prendi dei fiori da funerale. -
-Tipo quali? Quelli che ho scelto per il tuo? – il sarcasmo sporcava delicatamente la sua voce.
-Credevo avessimo litigato già su tutto riguardante La Caduta, ma i fiori effettivamente mancavano alla lista -
John gli sorrise in modo sgradevole.
-Sono pieno di iniziativa, troverò sempre qualcosa da rinfacciarti al riguardo, non temere -
-Hai chiamato poi il giudice di pace? – chiese Sherlock, pescando dal nulla la domanda.
John si grattò un lato della fronte.
-Ehm… no… -
-Te l’ho ripetuto ieri! – protestò l’altro.
-Se non fossi stato impegnato a non farti sbattere fuori dall’ospedale, avrei prestato attenzione e me lo sarei ricordato! -
Un’infermiera bussò alla porta della stanza.
-Signori, cinque minuti – disse, pareva un soldato che faceva il giro tra le brande a svegliare i suoi sottoposti.
Improvvisamente gli occhi di Sherlock si addolcirono e cercarono quelli di John. La sua espressione arrabbiata si sciolse e i lineamenti tornarono quelli di un bambino.
-Non te ne andare – mormorò.
John sorrise con tenerezza.
-Tornerò presto. Faccio la notte con te anche oggi -
Le loro mani si cercarono e si strinsero.
-Grazie -
-Ci vediamo tra poco. Quattro ore solamente – gli promise John, sorridendo di più.
-Quattro ore che saranno sicuramente molto noiose -
John si avvicinò e le loro labbra si toccarono. Lo baciò delicatamente e a lungo, sfruttando tutto il tempo che gli rimaneva.
Quando si separarono e John si alzò, le loro mani erano ancora strette, lui gli accarezzò le dita con il pollice, poi prima di lasciarla.
-Vedi di non farti ricoverare in psichiatria prima che torni -

“Ho ricevuto una chiamata dall’ospedale” JW

“Sei nei guai e ho tutto il tempo per pensare a come farti molto male, appena ti sarai rimesso” JW

“Uno potrebbe sempre scambiare certi messaggi come delle allusioni, John “ – SH

“Un’infermiera ha appena finito di visitarmi” – SH

“Avresti dovuto vedere che ha fatto” – SH

“Saresti stato geloso” – SH

“Ho smesso di essere geloso delle donne che ti ronzano attorno da quando ti sei rivelato più gay del vomito di unicorno” – JW

“E non cambiare argomento!"– JW

“Hai praticamente fatto una biopsia ad una paziente per analizzarle le piaghe da decubito” – JW

“Sì” – SH

“E Joeffry Sanderson ha mentito sul fatto che la moglie sia morta per insufficienza renale dopo due settimane di degenza in casa” – SH

“Lo sai, dopo che ti avrò ucciso non ci sarà nessuno intelligente come te in giro e io la passerò liscia” –JW

“La cosa mi dà conforto ogni momento di più” – JW

“Devo andare, è appena morto un paziente nella stanza affianco, forse riesco a ottenere un campione di vescica prima che lo portino all’obitorio” –SH

“Quando vengo stasera, sappi che, qualunque cosa avrò fra le mani, quella sarà l’arma del delitto” –JW



-Mi scusi, ha visto John Watson? Doveva essere qui mezz’ora fa -
Sherlock era spuntato alle spalle di un’infermiera, facendola saltare per la sorpresa.
-Signor Holmes! Lei non dovrebbe nemmeno essere in piedi! Che cosa ci fa in corridoio! -
-Le sto chiedendo se ha visto John Watson, certo non mi aspettavo fosse così lenta, anche se chiaramente la sua testa è troppo presa dal fatto che sua figlia è una ragazza-madre e potrebbe partorire da un momento all’altro… -
-Signor Holmes! Torni immediatamente nella sua stanza! Che ne ha fatto della flebo? -
Sherlock la fissò per un attimo per capire se volesse o meno una risposta.
-L’ho tolta. Era ingombrante da portare fin qui -
-LEI COSA?! -
-La conversazione, oltre che non più proficua, si è fatta noiosa. Quindi grazie di non avermi aiutato, chiederò a qualcun altro -
Con le proteste dell’infermiera che gli sventolavano il didietro, proseguì lungo il corridoio, in cerca di altro personale sanitario.
Nel giro di due minuti era legato al letto, la sua dottoressa intenta a fargli una predica.
Rimosse il sonoro e si concentrò sul fatto che John non fosse ancora lì. Gli aveva promesso che sarebbe venuto. Afferrò il telefono e compose il numero di John.
-Signor Holmes, ma, almeno, lei mi sta ascoltando? -
-Niente… non risponde – mormorò tra sé, agganciando il telefono. – Non è raggiungibile. -
-Come ha detto prego? Potrebbe almeno fingere di ascoltarmi e posare quel telefono per un secondo? -
Sherlock giunse per un attimo le mani sotto al naso, come per pensare, ma poi subito si scosse.
-Lei ha visto John Watson? -
-Chi? -
-Il mio fidanzato, John. È piuttosto basso, ha i capelli biondo cenere e cammina come se avesse una bicicletta tra le gambe. -
In quel momento il cercapersone della dottoressa squillò.
   
 
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