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Autore: francy91    23/08/2008    5 recensioni
Ciao a tutti! Questa storia sembrerebbe la vicenda di un amore qualunque, ma come può essere stabile il rapporto fra una dolce, tenera e leale ragazzina e uno scontroso, ironico e, tuttavia, bellissimo ragazzo? E' difficile seguire il proprio cuore e, fra ricordi, sogni e malintesi, un amore non può diventare sereno e stabile. Un nuovo Shaoran, moooolto strano! Se volete saperne di più, leggete e commentate anche negativamente! :)
Genere: Commedia, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un pò tutti
Note: OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Chinai il capo finché sfiorai con il mento l’orlo della mia maglietta grigia. La testa ciondolava lievemente, spinta dal ritmico e frenetico alzarsi e abbassarsi dello sterno.

Chi c’era attorno a me? Nessuno, in quel momento c’ero solo io, in una strada desolata, ventosa, nevosa. Sembrava un monotono giorno di guerra: radici secche di alberi accasciati su un bianco infinito e risucchiante, avvenente e tentatore, mela rossa in un arido deserto di nebbia. Non c’era nulla. Solo bianco.

Io, unica figura nuda e spoglia come quell’unica pianta nell’unica neve, affondavo i piedi in granulose nuvole di terrore candido e gelido, mentre una macchia di sangue cigolava sul marmo fragile, si espandeva in eleganti e raffinati archi, in misteriosi e sinuosi ghirigori senza fine. Il bianco diventava scarlatto.

Il mio corpo pallido e diafano si sarebbe confuso con la neve, se non fosse stato per quella macchia spenta e castana dei miei capelli senza forza e senza vigore. I miei occhi erano infossati, due sfere vitree saettanti verso una fine incipiente, affamati e assetati, senza riposo, senza pace. Verdi come le fronde di quell’albero dovevano essere state in primavera; come esse erano sparite, così la vitalità in quelle orbite era stata dissipata dall’innaturalezza umana.

Come una cavia, una schiava, una serva, mi avevano sfruttata, mi avevano imposto malattie che non mi divoravano i tessuti solo per curare migliaia di altri bambini degenti. Un conato di vomito si unì al sangue, giallo e vermiglio su un bianco accecante. Non sentivo freddo.

Non capivo da dove potesse provenire quel liquido rosso, quasi roseo, che pullulava di infermità, febbre, pidocchi, vermi, calore malsano, umidità, disperazione roca. Mangiavo la neve, a gattoni, ancora nuda. Ne sentivo il gelo impietrire l’esofago, ghiacciare i denti, irrigidire lo stomaco, dove finalmente si fermò e si temperò.

Non avrei saputo dire perché in quel momento mi venne in mente quel sogno; l’avevo fatto qualche notte prima, quando ero ancora fidanzata con Shaoran. Non era stato difficile capirne il significato: umiliazione. Semplice. Nient’altro da aggiungere. Laconica.

Quando avevo separato le mie tremanti labbra da quelle di Yamazaki, avevo percepito sulla mia pelle delle leggerissime e fievolissime gocce d’acqua. Era pioggia? Con gioia l’avevo sperato, ma notai che le mie braccia, solcate dalla leggiadra acqua, odoravano fastidiosamente di detersivo. Sollevai il capo senza percepire la presenza di Yamazaki e notai un lenzuolo candido steso ad asciugare, appeso ad un fil di ferro a pochi centimetri dalla massiccia e scura ringhiera di un balcone.

Candido come la neve.

Chinai un’altra volta la testa, ma ora incrociai lo sguardo di Yamazaki. Non mi trovai nulla di ciò che avevo sperato, niente rabbia, niente frustrazione, niente esasperazione.

Ciò mi terrificò.

Pensavo fosse molto più prevedibile, un bravo ragazzo, gentile, certo, ma ragionevole. Una diga per le mie acque impetuose e straripanti.

E invece? Il suo sguardo era… no, non era neutro, ma affilato in un’espressione né accigliata, né collerica. Nulla da desumere – o almeno quella era la mia impressione.

Pian piano, il mio sfondo riafferrò sdegnato i contorti contorni che gli erano temporaneamente e pericolosamente sfuggiti. La vetrina denudava le facce imbronciate di perfetti manichini nerovestiti, eleganti e sensuali. Parrucche lucenti e leziose brillavano sotto gli splendenti neon gialli del negozio, mentre mani immobili e plastiche si contorcevano per l’appagamento di essere fissate, stregate dal desiderio che ogni sguardo umano rivolgeva loro, piegate inesorabilmente dal sesso incontaminato sfuggente da ogni singulto invidioso. Puro ed autentico piacere inconsumabile, forzato al solo pensiero, costretto ad una staticità, ad un’inerzia insopportabili, intoccabili, solidi e freddi. Bocche rosse senza sangue.

Uno scroscio di risa rapì il mio udito, squillante, fragoroso, rombante, cristallino: due ragazzine fissavano il cane color mandorlo che cercava di rincorrersi insistentemente la coda, prendendolo in giro. Come era accaduto a me: derisioni e beffe per azioni inconcludenti e sciocche. L’animale iniziò ad abbaiare, contento delle attenzioni altrui, senza rendersi conto che plasmava il suo stesso scherno. Il tarchiato padrone non poteva far altro che scoppiare a ridere bonariamente, senza avere il coraggio di mostrarsi perplesso o offeso lui stesso dalle stolte burle delle ragazze. Non lo proteggeva. Perché i cani sono fedeli. E chi è fedele è cieco.

Quell’odore… L’odore di pulito maniacale che mi pervadeva, che mi deturpava la pelle sottoforma di gocce discendenti. Come una devastante eruzione, quei gas velenosi mi infettavano, mi infestavano come malevoli insetti sventrati, incurvati e famelici… Ciononostante, non tentai nemmeno di spostarmi ed evitare così l’acqua crudele che mi cercava. Forse perché ero fedele.

Quell’effluvio tossico mi riempì anche la bocca, donandomi la turpe sensazione della morte lenta e torpida. Era come se mi stessi abbeverando direttamente dalla rotonda e perfetta imboccatura di un fustino di detersivo, mortale e amaro. Sentivo quasi il liquido premere e graffiare la superficie posteriore della mia lingua, infiammarmi la gola e incenerirmi la parte più densa del sangue, fino a far sì che nelle vene mi scorresse solo torbida acqua schiumosa.

Arricciai il naso a quella percezione troppo intensa per essere un succo della mia fantasia.

All’improvviso mi accorsi che tutto l’imbarazzo, tutta la vergogna che mi avevano allontanata e attratta, respinta e risucchiata, erano sbiadite come una pittura ad olio sotto un sole aggressivo.

Era spontaneo fissare Yamazaki. Naturale, quasi necessario. Perché? Esigevo una risposta, una reazione, qualcosa, qualsiasi cosa, un rifiuto, un assenso, un segnale sicuro di sconfitta o vittoria. Una decisione imprescindibile, certa e innegabile, incontestabile.

Osservai le sue sopracciglia completamente piatte, dritte.

Io avevo fatto ciò che avrei voluto fare da tanto, forse; ora doveva essere lui a rispondere. Era il suo turno.

Sentii una goccia più pesante e grossa delle altre cadere rovinosamente fra i miei capelli, scivolare con un mio brivido sulla nuca e forarmi i pensieri: alzai istintivamente la testa tendendo dolorosamente il collo.

I guaiti del cane soffocarono il movimento felino di Yamazaki proibendomi ogni possibilità di percepirlo… Per far cosa? Evitarlo? Perché, poi?

Sentii prima le sue labbra morbide e socchiuse sul tendine teso del collo, poco sotto la mandibola. Il suo respiro caldo, bruciante, bollente riportò improvvisamente e bruscamente alla realtà anche il tatto. Alla realtà? Era  realtà? Come il sapore del detersivo sulla lingua, anche quel flebile tocco mi parve troppo intenso per essere falso. Dovevo capire, dovevo assicurarmi che fosse tutto vero e non un altro odioso volo ad ali spiegate della mia infantile fantasia. Per questo, tenendo il capo ancora ben sollevato, avvolsi il suo corpo sorprendentemente vicino e incurvato con vigore, solo per saggiarne la consistenza, solo per capacitarmi della sua autenticità, solo per percepirne la vitalità, ciò che lo differenziava da quei voluttuosi manichini.

Solo perché mi piaceva da impazzire.

Oh, non il corpo, ma il suo corpo. Se non fossi stata così sicura che fosse il suo non lo avrei apprezzato fino all’estasi come, mio malgrado, stavo facendo.

Gli carezzai le braccia, quasi senza accorgermene, mentre i suoi peli mi solleticavano i polpastrelli e i palmi delle mani opponendo una pungente ma debole resistenza allo sfregamento.

Era fermo, con la bocca poggiata sul mio collo, senza muoversi, senza reagire. Eppure aveva iniziato lui: che diavolo aveva intenzione di fare?

Avevo compreso da un bel po’ la sua corposità e realtà – se mai ne avessi davvero dubitato – ma continuavo comunque a godere di quel lieve e velato sfiorare, di quel vago solletico, pensando ripetutamente: Questo è Yamazaki. Yamazaki. È lui, lui… Il suo corpo.

Ne rimasi ineffabilmente inebriata.

Inaspettatamente mi abbracciò con foga all’altezza delle scapole facendomi sollevare le braccia, che contemporaneamente si aggrapparono alle sue spalle. Una posizione scomodissima, ma in quel momento fu la più naturale che potessimo tenere.

Le fibre della sua maglietta non mi parvero interessanti quanto i suoi capelli, dritti e fradici anch’essi di quell’acqua impura a pulita insieme.

Non sapevo cosa provare, cosa sentire… Soddisfazione? E perché? Felicità? Forse. Forse sì. Altrimenti perché ostentavo quel sorriso così beato? Non era apertissimo, ma proprio per questo era vero. Cullata senza alcun dondolio visibile, avevo vinto me stessa senza presunzione e dominavo il mio universo interiore senza prigionieri e senza schiavi, solo una regina osannata da me stessa, non necessariamente venerata, ma almeno ammirata. Era quella l’autostima?

Ancora una volta i recettori sensoriali si annebbiarono, sfocando ogni pulsazione, rendendola sempre meno nitida fino a farla definitivamente sbiadire: ne rimase solo un pallido ed opaco alone.

C’era solo qualcosa, una cosa che diveniva sempre più limpida e definita: lui. Era dovunque, mi circondava con mille abbracci corporali e mentali, con il tremore delle sue labbra, i sospiri quasi impercettibili che esalava in continuazione, i capelli spinosi che mi pungevano la pelle stillando gocce frementi e leggiadre. E intanto i miei occhi vagavano verso l’alto, dove il sole veniva debolmente coperte da gassose schiume bianche che non lo spegnevano completamente, ma lasciavano trasparire un pallido ma intenso bagliore, come se il cielo fosse un immenso deserto di neve.

La brezza mi ravvivò i capelli per poi abbandonarne alcuni ciuffi sulla fronte e sul collo. Il mio sguardo, però, catturò il delicato e perfetto danzare del lenzuolo steso sopra di noi, un’eleganza non sensuale, ma raffinata, pura e candida come il suo colore. Cullato dal vento, spruzzava bolle di detersivo come un vecchio prete canuto che benedice il mondo con poche gocce di acqua santa sapendo che non basteranno mai per tutti.

Quando abbassai il capo e concentrai lo sguardo sulla sua testa china sul mio collo, mi focalizzai completamente su di lui: ogni senso, ogni emozione, ogni volontà, ogni movimento riguardava lui, forse senza accorgermene, forse consapevolmente. O forse entrambi.

Inalavo ed esalavo ogni lungo respiro mascherando l’odore del detersivo, percependo solo il suo sentore di fresco e le sue labbra roventi sulla mia gola.

Ogni frammento della sua pelle era nuovo per me, ogni suo capello, ogni suo sguardo indecifrabile… Così perdutamente vivibile, non fragile ed esauribile. Non sapevo nemmeno a cosa pensare, tranne che alla sua vicinanza così vigorosa.

Improvvisamente si scostò con leggerezza, ma celermente. Gli fissavo le scarpe senza avere il coraggio – o forse il buonsenso – di guardarlo negli occhi. Le sue mani erano ancora poggiate sulle mie spalle mentre mi spingeva verso una traversa vicina, stretta e deserta. Forse nella mia trance avevo ignorato e dimenticato che ci trovavamo in una strada molto frequentata – e soprattutto davanti ad una vetrina di una boutique gremita di gente. Non che a me importasse, ma in quel momento era lui a guidarmi e io non potevo sottrarmi. Non l’avrei voluto, per un motivo oscuro.

Imboccammo il vicolo, mentre io lo fissavo ancora frastornata dal repentino cambiamento di posizione; mi fece voltare dalla sua parte, lui appoggiato al muro con un piede sul marciapiede stretto e l’altro sull’asfalto sconnesso, io accanto a lui, con la spalla destra addossata alla parete di un prefabbricato giallo canarino.

-E Shaoran?-, mi sorprese. Finalmente lo fissai, ma non spaventata o imbarazzata, bensì sbalordita. Alzai un sopracciglio e finsi di non aver sentito.

-Prego?-.

-Shaoran.-. Non capii che ruolo ricoprisse in ciò che era accaduto, perciò replicai perplessa:

-Shaoran cosa, esattamente?-.

Incastonò il suo sguardo al mio con un’espressione neutra. Perché? Non riuscivo a comprendere i suoi repentini ragionamenti. Beh, neanche io ero stata molto accessibile da questo punto di vista.

-Tu pensi che Shaoran sia semplicemente sparito e ti sbagli: tu lo desidererai sempre, forse non lo amerai, ma sentirai sempre il bisogno di “sconfiggerlo”, di compiere la tua vendetta. Credi di aver ormai evitato con successo tutto il male che ti ha provocato? Pensi davvero di aver soppresso il tuo desiderio di vincerlo? Non morirà mai, neanche se lo volessi. So che lo vorresti e anch’io, se devo essere sincero, ma non dipende da me: io sono solo leggermente più saggio di te (perdonami la presunzione) da non escludere alcuna possibilità. Per favore, riflettici: Shaoran non è al di là di te, è dentro e non lo caccerai mai, perché tu vuoi distruggerlo, vuoi ancora farlo. Certo, forse in modo meno pericoloso, ma si tratterà sempre di devastazione. Non credere di essere diventata buona così, ad un tratto. Nessuno è buono.-. Si fermò un istante senza lasciarmi il tempo di elucubrare sull’assurdità di ciò che stesse dichiarando e continuò:

-Neanch’io sono buono, sai? Ho lasciato la ragazza che amavo, che mi amava, senza alcuna delicatezza, dopotutto. L’ho tradita baciandoti (non me ne pento, ma non è neanche piacevole illudere qualcuno, e tu lo sai bene). E inoltre ora pretendo di approfittarmi di una ragazza che crede di amarmi, forse, e che invece ha bisogno di un rimpiazzo. Non sono la vittima, io, sono il colpevole e mi dispiace sul serio.-. Fece ancora una pausa, più breve della precedente: ormai le sue parole scivolavano dentro di me senza alcuna reazione, non ne avevo il tempo. Proseguì:

-Tu sei di Shaoran, non lo capisci? Vai, illudilo, distruggilo, sii soddisfatta di te stessa, magari, e poi non tornare, perché troverai dolore dappertutto. Non tornare, se puoi… A volte penso davvero che sia meglio essere rapiti dagli alieni e finire in un mondo calcolato, monotono ma sicuro. Sei di Shaoran, è come se fosse scritto. O, se preferisci, Shaoran è tuo. Non ti ama e non l’ha mai fatto, ma siete annodati da un legame forse anche più forte.-. Terminò in sospeso.

Come?, avrei voluto chiedergli, Cos’hai detto?, ma fingere ancora di non aver sentito sarebbe risultato crudele e vano.

Non avevo ancora compreso cosa stesse dicendo, ma l’immediata impressione che mi fecero le sue parole non fu esattamente piacevole.

Io ero di Shaoran? Ero perplessa: ma cosa stava dicendo?

Ancora una volta, non sapevo a cosa pensare, ma per ben altri motivi: l’incoerenza di ciò che aveva pronunciato mi lasciò così esterrefatta che quasi scoppiai a ridere. E infatti lo feci.

Fu una risata amara, incredula, roca. Spaventosa.

Uno sguardo di ghiaccio mi oltrepassò trafiggendomi. Basto quello a bloccare i miei muscoli facciali nel bel mezzo del mio riso come se avessi accusato una paresi improvvisa. Chinai la testa con ancora un leggero ghigno sulle labbra e la rialzai subito dopo mostrando un’espressione incredibilmente seria.

-Ti assicuro che non è così.-. Sentii un’altra fragorosa ondata di risa solleticarmi la gola, ma la ingoiai tempestivamente prima che provocasse altri danni. L’ingenua risposta che avevo pronunciato con fermezza si rivelò immotivatamente esilarante, tanto mi sembrava assurdo discutere di un argomento del genere.

Inoltre non comprendevo perché prima mi avesse abbracciata così… amorevolmente, avrei osato dire, e perché ora mi stesse aggredendo, in un certo senso. Non che avesse parlato tanto aspramente, ma di certo il suo discorso non era stato dei più comprensivi e ciò mi preoccupava non poco.

-Dispiace anche a me saperti sua, ma è inevitabile.-, sospirò voltando il capo verso la strada principale. Temendo che stesse per andarsene, dunque gli afferrai con irruenza il polso attirandolo verso di me.

-Mi stai abbandonando?-, sussurrai; sul viso più nessun’ombra di ilarità.

-Puoi stare in cielo o in terra, non entrambi.-, affermò a testa alta.

Non lo riconoscevo più, il che, se possibile, mi terrificava maggiormente. Ero smarrita, persa in un turbine di emozioni che avrei dovuto ben conoscere e identificare, ma che in quell’attimo mi parvero sempre più mascherate, diverse, irriconoscibili, lontane. Non riuscivo a districarmi e faticavo ad affibbiare la colpa a Yamazaki: impossibile.

-Appunto: preferisco essere in cielo.-, mormorai poco decisa.

-Appartieni a Shaoran.-, scandì ancora una volta, subito.

A quel punto scostai un ramo in quella foresta turbolenta che era la mia mente e dal pertugio creatosi fuoriuscì con fluidità e agilità la rabbia, l’ira più rovente che avessi mai provato, probabilmente: perché non mi capiva? Probabilmente non mi stava nemmeno ascoltando… No, Yamazaki non mi avrebbe mai ignorata, mai. Mai.

Mai.

Fu in quel momento che scoppiai a piangere, non tanto per le sue parole, bensì per l’incomprensione, per il suo impenetrabile mutamento. Per la rabbia.

Veloci, saettanti e bollenti lacrime d’ira nettarono finalmente il mio viso, proprio ora che percepivo la tangibile e palpabile mancanza di quello sporco odore di pulito sulla mia pelle, di quelle ripetitive e benedette gocce di acqua mista a detersivo. Lacrime amare, masochiste, benefiche, liberatorie, iraconde, copiose, indomabili, lisce, liquide, pulite; lacrime basite, sprezzanti, coraggiose, tremanti, leggere, delicate, infantili, dolci, arcuate sui miei zigomi, lungo le mie guance contratte in una stupida smorfia di delusione.

Yamazaki è un essere umano, può cambiare quanto vuole. Non sarò certo io a giudicarlo, non sono affatto la persona più coerente del mondo, pensai, forse solo per calmarmi e riprendere il controllo del mio corpo.

Intanto lui mi fissava insistentemente, forse confuso sul da farsi, forse riluttante a consolarmi – non mi fidavo molto delle mie percezioni in quel momento.

-Mi piaci molto: non sei vuota come tutte le altre ragazze, sei speciale, riflessiva, intelligente, comprensiva, affatto superficiale, provi delle emozioni vere, non quelle mascherate da trucchi e bei vestiti. Ti sembrerà banale, ma è questo che penso di te. Non lo dico per consolarti, ma per farti capire che hai sofferto e ora anche tu devi far soffrire. È la legge della vita, mi sembra logico.-.

E a soffrire doveva essere lui.

Ma che discorso assurdo…

Non riuscivo a credere a una sola parola di ciò che stesse dicendo, anche se rimasi piacevolmente lusingata dall’opinione che aveva di me.

-Ho già fatto soffrire Tomoyo, non ti sembra abbastanza?-. In realtà non mi ero mai sentita davvero in colpa, crudele com’ero.

Probabilmente pensava che non mi potessi più risollevare dalla temporanea crisi di pianto, perché il suo viso mostrò stupore e sbigottimento.

Non rispose subito, ma alzò la testa fissando le tapparelle grigie della casa di fronte, mentre le mie lacrime ormai si erano ridotte a lucide strisce appiccicose sulle mie guance, sotto le quali la pelle tirava quasi dolorosamente.

-Sei di Shaoran.-, ribadì testardo.

Mi morsi il labbro inferiore per lenire la rabbia, come se quell’atto fosse un blando balsamo inconsistente.

Avrei voluto rimettere al suo posto quel ramo, richiudere l’apertura creata da me stessa, ma ormai l’ira era dilagata via, proprio come il male si era alzato da una spirale e aveva spiccato il volo sull’orlo della grande bocca del vaso di Pandora, come un avvoltoio su carcasse di angeli custoditi dal vento.

Una parte di me, la più razionale, quella che si fidava più ciecamente  di Yamazaki, decise senza il mio consenso di esaminare l’eventuale veridicità delle sue parole, con mia enorme indignazione: mi stava offendendo, il mio raziocinio mi stava propinando insulti nascosti sotto una spessa patina di smancerie e tecnicismi!

In realtà non pensavo più attivamente a Shaoran, lo reputavo inagibile, in un certo senso. Ciò significava che non potevo assolutamente calpestare un’altra volta la sua terra conosciuta, prevedibile, splendida alla vista, ma solo un autentico miraggio. Niente di tangibile e nitido, un mistero già risolto. D’altronde, come poteva una risposta esistere senza una domanda?

Ma dai divieti ci si poteva anche disincagliare, no? Bastava la volontà… Che non c’era. Come potevo esserne così certa? Beh, io non lo amavo più e non ero mai stata così testarda da toccare misconoscente il fuoco, bruciandomi, e sfiorarlo una seconda volta solo perché non avevo altro da tastare. Inoltre mi mancava la spinta più consistente: il desiderio, quello di cui tanto fantasticava Yamazaki, ma che io non percepivo più – almeno nei confronti di Shaoran. Non avevo voglia di guardarlo e bramarlo, di scompigliare quella folta frangia castana, di fissare le fiamme dei suoi occhi dardeggianti, di sfiorare le sue labbra vermiglie, come quelle di un bimbo. Tutte queste caratterizzazioni poetiche e discriminatorie non gli si addicevano più ai miei occhi, erano ormai sfumate nella più passiva e comune piattezza.

Un breve processo per un breve verdetto: Yamazaki sbagliava.

Almeno in quel momento Shaoran non rappresentava la mia maggiore preoccupazione: la fiducia donatami aveva con successo lisciato le mie pieghe e fasciato le mie piaghe. E a me bastava.

Gli indirizzai uno sguardo gelido e folle, pazzo di vittoria.

-Sbagli.-, dichiarai con inattesa risolutezza.

-Non immaginavo che i tuoi esami di coscienza fossero così rapidi.-. Sollevò con ironia le sopracciglia, sorridendo vacuo.

-Sai, in questi anni mi sono allenata bene.-, replicai leggermente aspra, ma con un ghigno angelico sul volto.

Improvvisamente compresi il senso di quel mutamento, del suo comportamento pressoché improbabile e alienato. Rabbrividii.

-Stai cercando di farti odiare?-. Sgranai gli occhi e restai a bocca aperta, tormentando il muro dormiente, graffiandolo con le mie unghie corte e irregolari.

Yamazaki voltò il capo nuovamente verso la strada che avevamo lasciato cinque – o forse quindici o sessanta – minuti prima, ma questa volta fui certa che non stesse per fuggire via, perché all’improvviso il suo sguardo scavò nell’asfalto bigio della stradina e vi costruì possenti e stabili fondamenta.

Era smarrito, lo si evinceva senza sforzo dalla sua espressione afflitta e frenetica.

-Per caso tu e Shaoran vi scambiate lettere minatorie?-, domandai sarcastica con un ghigno spietato.

-So che sembra troppo romanzesco, ma volevo proteggerti. Io non sono perfetto.-, borbottò con le labbra leggermente all’infuori, espressione che mi suggerì l’immagine di un bambino colto nel sacco mentre ruba per scherzo le chiavi dell’auto del padre e le nasconde.

-E chi lo è? In effetti anche questo è romanzesco…-, constatai pensierosa, ma proseguii subito:

-La vendetta non mi serve più, almeno per ora. Non c’è bisogno di giri di parole: io voglio te. È vietato desiderare la persona che mi ha afferrata nel momento giusto?-, chiesi quasi spazientita, molto sorpresa di aver espresso quelle conclusioni così apertamente e coraggiosamente.

-Ti ho solo facilitato la salita, un giorno o l’altro ce l’avresti fatta da sola.-. Dettagli, stupidi dettagli.

-Tu stai cercando di farti odiare.-, affermai perentoria.

Molto probabilmente aveva ragione, mi suggerì la mente, ma non l’ascoltai.

-Ma spiegami, perché prima non hai reagito così?-, domandai più calma, ridestando le sensazioni sublimi di poco – o tanto – prima.

-Semplicemente perché non riesco a controllare i miei impulsi. E…-, continuò rispondendo alla mia successiva domanda senza che l’avessi ancora formulata nella mia testa, -ho accettato scioccamente di baciarti durante il mio fidanzamento con Chiharu perché ero sicuro che fosse solo uno sfogo… Non volevo che ti, che mi, innamorassi.-.

Era tutto abbastanza chiaro: fin quando era stato convinto che il nostro rapporto non si sarebbe mai trasformato in una relazione stabile si era prestato alle mie lussuriose volontà. Ma ora era tutto diverso: lui era libero da Chiharu, io da Shaoran… Non c’era più nessuna scusa.

Abbandonai momentaneamente l’espressione accigliata e svelai quella curiosa e preoccupata.

-Di cosa hai paura?-, domandai ostentando calma apparente.

Si voltò ancora verso il viale trafficato, forse refrattario e riluttante a rispondere a quel quesito probabilmente troppo incisivo, ma, quando si girò poggiando la spalla sinistra al muro in modo da stare di fronte a me, notai la sua incertezza pensierosa, lo sguardo assente solo per un attimo, le sopracciglia fini corrugate e le rughe più accentuate sopra il naso, esattamente in mezzo agli occhi, la bocca ormai quasi indistinguibile, una strettissima piega pallida, le guance più gonfie per lo sforzo, le mani intrecciate l’una nell’altra come un’impervia e ostica foresta nordica.

-Non vorrei innamorarmi ancora di Chiharu o di qualche altra ragazza che, al momento, reputerei migliore di te per alcuni aspetti. Allo stesso tempo temo che ciò avvenga anche a te, che il tuo rancore verso Shaoran si risvegli come da un lungo letargo, che tu lo desideri ancora, forse in modo più maturo, ma si tratterebbe pur sempre di desiderio. Non voglio farti soffrire per mia assenza o soffocamento. Il mio ruolo è di esserti amico, confidente, e da tale mi devo comportare, proteggendoti.-.

Pronunciò queste frasi come un giuramento, con solennità e pomposità, fissandomi direttamente negli occhi. Ne rimasi gradevolmente colpita, ma replicai subito, quasi stizzita per l’ovvietà della mia risposta:

-Certo, anch’io me ne preoccuperei, ma, sai, in questo momento nella classifica delle mie priorità quest’argomento semplicemente… non esiste. Il futuro è il futuro e dovrà essere vissuto in modo diverso rispetto al presente, poi decideremo come. A me basta sapere solo che, se e quando ti bacerò, tu sarai d’accordo. Non voglio violentare nessuno…-, terminai con un sorriso eloquente.

Era proprio ciò che pensavo: perché dilaniarsi l’anima con cure eccessive e inopportune? Mi importava ciò che diceva, certo, ma non confidavo affatto in progettazioni mentali simili – come se io non l’avessi mai fatto… o forse proprio per quello.

L’unica certezza che esplorai in quell’attimo, mentre gli esaminavo il viso stringendo le labbra, fu che mi fidavo di lui, ma questo non gliel’avrei mai detto: la fiducia andava oltre l’amore, oltre la speranza e l’amicizia, oltre qualsiasi rapporto umano. La fiducia era semplicemente il fondamento di ogni rinforzo, l’orma di ogni piede, il fascio della chioma di emozioni di ognuno. Molti la confondevano con la fedeltà, ma per fidarsi del prossimo e di sé stessi non c’era la necessità di essere fedeli, benché le due parole condividessero la medesima radice: io mi sarei fidata di Yamazaki anche se mi avesse tradito o se lo avessi fatto io. Avremmo sempre avuto un certo tipo di rapporto, non saremmo mai stati soli.

Certo, poteva essere un mio compromesso artificiale, ma per quel momento mi aggradava.

Lo vidi tentennare, ciondolare per decidere in quale dei due burroni precipitare, incrociare le braccia, forse negante, forse rassegnato.

Poggiai la guancia destra sul muro ruvido e tiepido e attesi la sua decisione ad occhi chiusi, carezzandomi il fiore blu ricamato sulla parte inferiore della mia maglietta di cotone a mezze maniche.

Avevo detto tutto ciò che avrei dovuto, tutto ciò che pensavo, anelavo, credevo, rifiutavo, dimenticavo, serbavo. Non c’era più nulla da aggiungere.

Cos’avrei fatto se mi avesse negata? Beh, nulla: sarei andata avanti, avrei preso il diploma, forse avrei frequentato l’università, avrei festeggiato il mio compleanno ogni anno, il 1° aprile, mi sarei sfilava prima le scarpe e poi i pantaloni, come sempre insomma. E inoltre, fattore più importante, mi sarei fidata ancora di Yamazaki. Non sarebbe cambiato niente, dunque? Oh, troppo utopistico: sarei stata triste per un po’, mi sarei lasciata abbandonare una volta ancora nel turbine vacuo della solitudine, ma solo per poco. I sentimenti, le opinioni, le verità, le emozioni, i punti di vista assoluti non esistevano: era tutto relativo. La mia concezione della realtà sarebbe cambiata tanto radicalmente quanto era accaduto da poco più di quattro anni a quella parte, me ne rendevo tranquillamente conto.

Percepii un movimento davanti a me, scarpe da ginnastica che grattavano l’asfalto e poi…

-Se ti fa felice…-, mormorò carezzandomi il mento.

Aprii gli occhi e lo vidi davanti a me, praticamente un sorriso umano: le labbra stese mostravano dietro di esse due file di grandi e candidi denti con le rispettive gengive del colore del sole al tramonto. I suoi occhi distavano una ventina di centimetri dai miei, ma a me sembrarono vicinissimi.

-Lo stesso vale per te.-.

La sua frase precendente, comunque, non mi parve affatto un’esile concessione. Certo, forse le parole avrebbero potuto rendere equivocabili le sue intenzioni, ma il modo in cui furono liberate fu più che indubbio.

Stava per avvicinarsi timidamente, forse imbarazzato e sovrastato dalle nostre enormi possibilità, non più violate né proibite, quando mi riaffiorò con prepotenza un’unica imperiosa richiesta. In quell’attimo mi parve la più ingenua, sdolcinata, banale, deludente ed echeggiante affermazione che potessi formulare, ma sentii il bisogno impellente di condividerla con lui, nonostante la leziosità e la sua dolcezza di quella frase, divenuta acre per l’indecisione o per tema che fosse acerba. Non mi interessava, glielo dissi lo stesso.

-Yama… Takashi?-.

-Sì?-, esordì come da un piatto silenzio gelato spuntano urlanti migliaia di rondini nuove.

Il cuore pompava acido, zucchero e sangue. Inalai aria pura affogando nell’immenso spazio vuoto attorno a noi, per poi naufragare ancora sul suo volto.

-Non giocare col mio cuore.-.

 

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Ecco.

È finita.

Con aggiunta di frase smancerosa alla fine, avete notato? In realtà è l’unica eredità della prima versione della mia storia, in cui Sakura avrebbe detto ciò a ben altra entità…

Ancora non credo che sia davvero finita. Quarantadue capitoli… Un anno, dieci mesi e nove giorni.

Non è un caso che abbia pubblicato l’ultimo capitolo proprio oggi: diciamo che è la prima volta che mi faccio un regalo per il mio compleanno.

Quanto è cambiato in un anno e mezzo… A volte rileggo i primi capitoli e li trovo scialbi, patetici, orrendi, ma non ho comunque il coraggio di cambiarli: vanno bene così, mostrano quanto io, Sakura e tutta la storia siamo mutati in questo poco tempo.

Scusate per quello che è ho scritto, è leggermente sdolcinato, ma sono davvero triste e vi capisco se mi dite che mi faccio coinvolgere troppo, che dopotutto è solo una fanfiction, ve lo concedo.

Bene, comincio a ringraziare tutti, ma proprio tutti coloro che hanno letto la storia, almeno spero di calmarmi.

Un ringraziamento speciale a Laukurata89, che ha seguito finché ha potuto questa storia e che, soprattutto, l’ha fatta plasmare nella mia mente.

Inoltre, grazie a Faffy, che mi ha consigliata con grande frequenza e sapienza, una perfetta critica per un’autrice “neoclassicista”, per così dire (è la definizione più soft che ho trovato). Grazie per la tua ironia e la tua capacità di rendere piacevoli anche le imperfezioni più accentuate. Te ne sarò sempre infinitamente grata e ricambierò più che volentieri ogni volta che ne avrai bisogno.

Ringrazio (avete notato che è la densità di presenza di questa parola nei righi precedenti è pari a quella di tutti i Cinesi imbottigliati in una Coca-Cola da mezzo litro?) tutti coloro che hanno scritto almeno una recensione e coloro che hanno inserito questa storia fra i preferiti, ossia:

Alexis_92

Aquizziana

Barbymiari

Dany 92

Faffy

FillyCicca483

Ichigo_91

Jk helen

Kamura86

Kirax

Kristy4ever3msc

Laukurata89

Lele 91

Loprifan

Millennia Angel

Pallina chan

Sakura bethovina (grazie per le recensioni spietate! Sai che non mi offendono mai, puoi maledirmi quanto vuoi, mi divertono!)

Sakura93

Shiny94

Silgree89

Terrastoria

Yumemi

Inoltre un grande ringraziamento va anche a Sakura182blast per le recensioni divertentissime e le analisi molto gradite (Shaoran Maniaco giace senza segni di vita sotto il microfono di Jigglypuff, forse è morto davvero!).

Incredibile come sia cambiato il finale dalle mie originali aspettative, davvero banali, a mio avviso. Sono contenta di essere cresciuta almeno un po’ durante la stesura della storia e, se ciò è accaduto, è anche grazie a voi.

Spero di avervi allietati almeno un po’ con ciò che ho scritto e di avervi insegnato qualcosa, ad esempio che non bisogna mai disperarsi (pare che io non sia molto d’esempio), che per amare non è necessaria la passione, perché quella si spegne dopo un certo limite di tempo, ma la fiducia (neanche la fedeltà mi sembra troppo costruttiva, dato che non credo nella monogamia dell’uomo), che non sempre gli impulsi sono sbagliati, che niente è assoluto, ma tutto dipende dalle nostre scelte, che esistono mille motivi per esistere e non esistere, tutti terribilmente validi, e. infine, che Babbo Natale non esiste. Mi dispiace, sul serio. Scusate, sto farneticando…

Bene, ho finito. Saluto tutti coloro che sono stati in qualsiasi modo coinvolti in questa storia e li ringrazio affettuosamente,

A presto, forse.

La vostra Francy

   
 
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