I
Margherita
è un jeans a
vita bassa.
Margherita è una gonna colorata.
Margherita è un libro sul comodino.
Margherita è un prato verde.
Margherita è una giacca di pelle nera.
Margherita è un paio di pantofole celesti.
Margherita è l’acqua fresca della sorgente.
Margherita è il fuoco nel camino in una notte invernale.
O forse era.
Chi è la ragazza che piange nel buio della stanza?
Quella non è lei.
E’ solo il prodotto della puzza di alcol che impregna
l’aria, del brodino delle
sei, dell’ago che scompare nel suo braccio, di quella
debolezza che non l’abbandona
mai, delle parole bisbigliate di sua madre, degli occhi lucidi di sua
nipote,
dello sguardo assente di suo padre.
Quando aveva iniziato a sentire forti mal di testa diceva
«sarà lo stress»,
quando sopraggiunse il vomito «sarà un virus,
è colpa del cambio di stagione»
ma quando la febbre alta persisteva si era decisa ed era andata dal
medico.
«Margherita, sarebbe meglio fare qualche analisi»
le aveva detto.
Le analisi le aveva fatte, qualche settimana dopo.
«Allora dottore?»
«I globuli bianchi sono alti mentre i globuli rossi e
l’emoglobina sono bassi.»
«Quindi?»
«Dobbiamo fare una biopsia per esserne certi..»
«Certi di cosa, scusi?»
«Potrebbe trattarsi di leucemia»
«Ah»
Scappò via. Nessun sentimento. Solo un nodo
all’altezza dello stomaco.
Lungo il tragitto verso casa continuava a ripetere «Non
è vero» talmente tante
volte che finì per crederci davvero.
Isa l’aveva chiamata, una, due, tre volte prima che lei si
decidesse a
rispondere.
«Pronto Isa! Come stai?»
«Perché non rispondevi? Com’è
andata?»
«Cosa? »
«Come cosa? Ma ti senti bene? Parlo delle analisi..che ti ha
detto il dottore?»
«Ma niente, tutto a posto. Dice che devo riposarmi un
po’»
«Sei sicura che sia tutto a posto? Ti sento strana»
«Sì, tranquilla. Devo chiudere adesso, ci
sentiamo»
«Va bene. Ciao Marghe»
Respirò profondamente più volte. «Non
ho detto una bugia, in fondo il medico non
è sicuro. E poi è vecchio, si sarà
confuso»
La situazione degenerava, aveva mentito alla sua migliore amica e
parlava da
sola. Bisognava fare una scelta, forse era meglio non sapere, forse era
solo
uno scherzo del destino o forse sognava.
Scese dall’auto parcheggiata, ormai, da mezzora sotto casa ed
entrò nell’appartamento.
Tutto era come lo aveva lasciato prima di uscire , ogni mobile era al
suo
posto, il divano azzurro ingombrava ancora il salotto, il tavolo
rotondo era
ancora al centro della cucina, il disegno di Alice, sua nipote, era
ancora
attaccato con un magnete sul frigo, non era cambiato niente, a parte
lei.
Le venne in mente il rumore del vaso verde di sua madre quando,
urtandolo, lo
aveva buttato giù, il suono che fa
un’unità compatta che si frammenta, che si
distrugge,
tanti piccoli cocci che si dividono, si separano, proprio come lei in
questo
momento, distrutta.
Si era seduta e aveva iniziato a guardarsi le mani e aveva continuato
così per
ore.
Quando aveva deciso di fare la biopsia erano passate settimane e
settimane da
quel giorno, aveva dovuto cedere, stava troppo male persino per
reggersi in
piedi e aveva dovuto confessare tutto alla sua famiglia e alla sua
amica che l’avevano
minacciata. Però quando aveva visto il grosso ago, che
serviva per prelevare il
midollo osseo dal femore, era quasi svenuta e aveva detto
«ora sarete contenti,
io non ci volevo venire qui» ma lo sapeva che era la cosa
giusta da fare.
Alla fine il prelievo aveva soltanto confermato quello che tutti
già temevano,
leucemia acuta, una forma di cancro che arriva
all’improvviso, è così era successo,
come un uragano che trascina tutto e tutti al suo passaggio.
L’avevano di corsa ricoverata.
Si gira dall’altro lato del letto alla ricerca di un
fazzoletto per asciugare
le lacrime che continuano a scendere ininterrotte.
Si ferma come fulminata, gli occhi gelati, fissa la foto che Alice
aveva
lasciato sul comodino, «Così sono sempre con
te» le aveva detto.
E’ una foto dell’estate scorsa, si abbracciano e
ridono per qualcosa che adesso
non riesce più a ricordare.
«Ti disturbo?»
«Isa! Che ci fai qui?»
«Che bella accoglienza Marghe! Sono venuta a trovarti, volevo
sapere come stai»
«Sì, scusami. Puoi abbracciarmi?»
Isabella non se lo fa ripetere due volte, con due grandi falcate e
subito di
fronte a lei, i capelli biondi cadono leggeri sulle spalle, un velo di
mascara risalta
gli occhi nocciola, ed è bellissima avvolta delicatamente
nel vestito verde,
uno spiraglio di colore in mezzo alla tristezza ed alla monotonia della
stanza.
La stringe forte tra le braccia e Margherita adagia la testa sulla sua
spalla
come aveva fatto tante altre volte, si abbandona lentamente mentre con
gli
occhi chiusi respira il suo profumo alla vaniglia e si sente a casa,
protetta.
«Ho paura» dice in un soffio.
La sua amica non risponde subito, le accarezza lentamente i capelli,
dall’alto
verso il basso e poi dice «Sono qui» e lei scoppia
a piangere, di nuovo.
Aspetta che si calmi, si stacca lentamente e, continuando a guardarla
negli
occhi, avvicina la sedia e si accomoda vicino a lei.
La guarda soltanto e lei capisce.
«Sono malata. Ti rendi conto? Mi è piovuto tutto
addosso all’improvviso. Il
giorno prima è tutto normale: ti svegli, vai a lavoro,
prepari la cena, guardi
la tv e il giorno dopo fai fatica persino ad alzarti dal letto
consapevole che
non è colpa dello stress ma del cancro»
«Sei riuscita ad ammetterlo a te stessa! E’ un
grosso passo avanti. Se ti
rifiuti di credere di essere malata come puoi guarire?
Perché tu guarirai
Margherita e continuerai a fare le stesse cose che facevi prima. Questo
è solo
un brutto e grosso ostacolo da superare»
«E se non ce la facessi? Ci hai mai pensato? Mi è
bastato guardare la foto con
Alice, guardala anche tu, è una ragazzina, non ha nemmeno 16
anni. Come faccio
a lasciarla?»
«Ti ricordi quando avevamo noi 16 anni? Arrivava
l’estate ed io andavo dai
nonni in campagna e tu rimanevi in città. Ci disperavamo
perché non sapevamo
stare l’una senza l’altra. Ti ricordi cosa abbiamo
fatto allora?»
«Ci siamo scritte tutta l’estate fino al momento in
cui ci siamo riviste. Ma
non capisco cosa centri con me e Alice»
«Penso che dovresti scriverle, potrebbe essere
d’aiuto ad entrambe. Tu accetti
questa situazione e lotti con tutte le tue forze e lei ti
troverà lì dentro
ogni volta che ne ha bisogno»
«Non so se ne sono capace, che cosa dovrei scriverci
poi?»
«Quello che senti nel cuore. Le parole vengono da
sole»
«Ci proverò, quando mi sentirò
pronta»
«Tutto a suo tempo. Ora scusami ma devo andare, Vanessa tra
poco esce da scuola
e devo andarla a prendere. Se hai bisogno di parlare, in qualsiasi
momento,
chiamami»
«Grazie Isa»
«Stai tranquilla, andrà tutto bene»
«Ti voglio bene»
«Te ne voglio anch’io»
Esce e si chiude la porta alle spalle, finalmente le due grosse lacrime
possono
scendere indisturbate, aveva fatto la forte fino all’ultimo
ma adesso non ce la
fa più. Vedere la sua più cara amica in quel modo
le provoca un dolore
lancinante al cuore e una morsa nello stomaco.
Margherita e Isabella erano sempre state legate da un filo invisibile
che si
era formato nel tempo con l’aiuto della fiducia e della stima
che aveva ognuna
nei confronti dell’altra.
Si erano conosciute tra i banchi di scuola, il primo giorno al liceo,
quando
tutto sembrava tragicamente diverso e la paura dell’ignoto
sostava sulle loro
teste.
Si erano viste e si erano scelte in silenzio, si erano avvicinate agli
ultimi
due banchi della fila centrale e non avevano proferito parola. Di
nascosto si
scrutavano, si osservavano, analizzavano ogni singolo dettaglio
dell’altra.
Margherita aveva ammirato quei capelli biondi e soffici che cadevano
sulle
spalle con piccole onde, il viso chiaro di una bambola di porcellana,
gli occhi
di un marrone rassicurante, il corpo esile e slanciato, le dita piccole
e
affusolate, tutto in lei richiamava bellezza, una bellezza pura e
semplice.
Desiderava anche lei essere così delicata. Ma non la
invidiava, la ammirava.
Isabella, invece, osservava i capelli neri e lunghi di Margherita, la
frangetta
che ricadeva sulla fronte, gli occhi verdi che sembravano vedere tutto
e non
temere niente, le labbra carnose, il corpo solido e vigoroso. Sembrava
già
donna. E lei avrebbe voluto essere come lei: fiera e sicura.
Il giorno dopo si erano scambiate qualche parola «Come ha
detto che si chiama
quella di matematica?» «La ragazza bionda non
è stata bocciata?» «Hai un
fazzoletto?» «Sai che ore sono?»
«Forse domani abbiamo un’ora buca»
Il giorno dopo Isa le aveva chiesto «Vieni al bagno con
me?»
Ed erano diventate amiche. Inseparabili. Ogni tanto litigavano, una
volta
persino per un ragazzo. Si chiamava Ivan ed era il più
carino della squadra di
calcetto, avevano tutte e due una cotta per lui, avevano riempito
intere pagine
di cuori all’ora di scienze e parlavano di lui al telefono
quasi ogni sabato.
Lui un giorno aveva chiesto a Margherita «Ciao, sei la
sorella di Luca?» e lei
aveva detto di sì anche se un fratello non ce lo aveva.
«Io mi chiamo Ivan, non è che potresti
salutarmelo?»
«Si, certo. Ti vedo spesso giocare, sei molto bravo»
«Grazie Francesca, allora ci vediamo alla prossima
partita» aveva fatto l’occhiolino
e se ne era andato.
«Francesca eh? Sei proprio una bugiarda! Avresti almeno
potuto presentarmelo»
aveva detto Isa che era rimasta in disparte.
«Dai, alla partita lo incontriamo e te lo presento. Ma hai
visto come mi
guardava? Credo di avere delle speranze»
L’amica però non le rivolse più la
parola e lei passava il tempo a fantasticare
sulla partita e sul loro incontro.
Il giorno fatidico arrivò e Ivan giocava magnificamente, lei
lo guardava e
sperava ricambiasse il suo sguardo, lo stesso faceva Isa
dall’altra parte degli
spalti.
All’uscita dagli spogliatoi, però, ad aspettarlo
c’era una certa Azzurra che lo
baciò davanti a tutti, aveva il rossetto rosso, la gonna
corta e qualche anno
in più di loro due, rimasero con la bocca aperta poi si
guardarono e si misero
a ridere.
La loro amicizia continuava imperterrita, le univa una
complicità unica e
sapevano capirsi con un solo sguardo.
Gli anni delle superiori erano passati così come quelli
dell’università e così
via e quasi 18 anni dopo quella stessa complicità era
rimasta imperturbata.
Margherita sorride amaramente al ricordo di quei tempi, alla
spensieratezza che
aleggiava nella sua vita, alla semplicità dei sentimenti,
mentre tutto ora è
terribilmente inquieto. Mille pensieri offuscano la sua mente e si
ritrova
incapace di comunicare ciò che prova agli altri ma,
soprattutto, a se stessa.
Cosa sta accadendo alla sua vita? Si trova in una stanza
d’ospedale da due
giorni, i dottori dicono che prima di procedere con la chemio deve
rimettersi
in forze, è ancora molto debole e tutto questo pensare e
piangere non l’aiuta.
Mai e poi mai avrebbe immaginato di trovarsi in una situazione simile,
lei che
aveva sempre avuto massime aspirazioni nella sua vita, che a 16 anni
aveva già scelto
la sua carriera, insegnante di lettere e storia, con una cattedra in un
liceo
di periferia, a contatto con i giovani, con la vita che si forma, si
immaginava
come una guida e un supporto per tutti, capace di ascoltare e
consigliare, così
come era stata per lei la sua professoressa, è
così era successo anche a lei.
Aveva sudato, lottato e faticato e ci era riuscita. Aveva una famiglia
orgogliosa, che si era dovuta ricredere su di lei, sua nipote
l’ammirava, era
per lei una madre, una sorella, un’amica e l’amava
moltissimo. Si trovava in
una situazione economica stabile che le permetteva di vivere in un
appartamento
arredato con gusto.
Che cosa è rimasto di lei? Una cartellina gialla ha
distrutto tutto quello che
aveva costruito.
A scuola viene sostituita da una bionda cotonata alla quale non importa
niente eccetto
l’integrità e la perfezione delle proprie unghie.
I suoi genitori e l’intera
famiglia la guardano con occhi colmi di pietà, come se fosse
una lebbrosa. Ed è
certa che Alice non dice più «Voglio essere come
la zia da grande». La casa e i
soldi, poi, sono l’ultimo dei suoi pensieri.
Per tutta la vita aveva inseguito l’idea di sentirsi
realizzata e indipendente.
Ed ora si sente una fallita e fatica ad alzarsi dal letto senza
l’aiuto di
qualcuno.
«E’ forse questo che devo far sapere ad Alice con
la storia delle lettere? Che sua
zia è solo una fallita?» si dice mentre dagli
occhi sgorgano lacrime che le
rinfrescano il viso.
«Oppure dovrei farle sapere che mi piango addosso tutto il
tempo?» continua.
«O forse potrei dirle che sto diventando pazza e che parlo da
sola» le lacrime
non scendono più, forse si sono esaurite.
«Ma lo vedi come ti sei ridotta?» chiude gli occhi
e nasconde la testa sotto il
cuscino.
Poco dopo rende carta e penna dal cassetto e inizia a scrivere.
Cara Alice,
ti
scrivo una lettera per dirti che sono una fallita.
Ho il cancro e non vorrei averlo, non mi piace stare chiusa in
ospedale, non mi
piace l’odore che si respira, non mi piacciono le lenzuola
bianche e la coperta
marrone, non mi piace stare chiusa qui, non mi piace pensare che forse
la mia
vita ha le ore contate, che tutto potrebbe finire da un momento
all’altro.
Mi manca la mia vita e sono passati solo due giorni.
Mi manca alzarmi presto la mattina, fare colazione in fretta con un
caffè mai
zuccherato alla perfezione, mi manca il traffico, mi manca arrivare a
scuola di
corsa, mi mancano i colleghi psicopatici, mi mancano i miei alunni, mi
mancano
i “non sono preparato prof” e i
“9” sul registro, mi mancano le urla e i
silenzi, mi manca tornare a casa esausta, mi manca leggere a letto, mi
manca
bere un bicchiere di vino guardando la tv, mi manca abbandonarmi al
sonno nel
mio letto.
Alla tua età sapevo già cosa avrei fatto nella
vita, chi sarei stata e cosa avrei
fatto e la leucemia che non era presente nel progetto.
Qualcuno diceva “ le cose che accadono quando meno te lo
aspetti sono le più
belle”, il cancro non è per niente bello, e questa
probabilmente è un’altra
frasetta che ci propinavamo a vicenda nei bagni della scuola quando
ancora
nessun ragazzino ci aveva dato il primo bacio.
La vita in ospedale fa schifo, le infermiere sono scorbutiche e il cibo
è
orribile.
Ma quello che odio di più è l’orario
delle visite, gente che arriva con un
mazzo di fiori (come se fossi già morta) e un sorriso
sofferente di
circostanza.
Vorrei proprio sapere, poi, perché tra 7 milioni di persone
doveva succedere proprio
a me.
Credo che Dio me l’abbia fatta pagare per qualcosa.
Non saprei su chi altro scaricare la colpa..
Tanti cari saluti dalla malata e psicopatica
Zia Margherita.
Piega il foglio in tre parti e poi lo spezza più volte,
butta in aria i
pezzetti bianchi come coriandoli, «Adesso mi sento
meglio» e si addormenta.
Angolo
Endanger
Ciao
a tutti e grazie
per aver letto la mia storia.
Chiunque volesse contattarmi/richiedere l’amicizia/avere
curiosità mi trova su
facebook Endanger
Efp.
Non so quando aggiornerò la storia di nuovo, credo presto
perché l’ispirazione
c’è grazie anche a De Gregori e ai Queen.
A
presto.