Questa è la fanfiction più lunga che io
abbia scritto finora. Alcune mie amiche, tra cui la mia adorabile sorellina
virtuale Soili (Sakura182blast), mi hanno consigliato di aspettare che Erika
indicesse il prossimo concorso ufficiale di EFP, per cercare di partecipare con
questa ff; fino a ieri ero ancora decisa a seguire il loro consiglio, ma una
serie di circostanze mi ha fatto cambiare idea. In primo luogo, mi sono resa
conto che in genere in questi concorsi si inviano ff ben più brevi di
questa; inoltre, ho promesso a me stessa di dimostrare qualcosa ad una persona
cui voglio molto bene, e credo che questa storia possa essere il modo migliore
per farlo.
Perciò, chiedo infinitamente scusa alle mie
dolcissime Melania, Francesca e Soili, che tanto hanno sostenuto questa ff e la possibilità
che facesse una bella figura in un concorso… Vi ringrazio ancora per
quanto credete in me, e spero solo che non ve la prendiate troppo se me ne sono
uscita così all’improvviso pubblicandola!
Ringrazio te in particolare, Soili, perché mi
hai sostenuta passo passo e ci hai creduto sempre. E anche se conosci
già la storia, non posso fare a meno di dedicartela, insieme a tutta la
mia amicizia.
Infine…
Un Grazie anche a Te…
Perché
so che la leggerai, e so che capirai.
Nota: per questa storia ho preso degli spunti, più o meno specifici,
da alcune fonti che ci tengo a citare.
La spada magica –
Alla ricerca di Camelot
Un film di animazione che personalmente adoro.
Una bambina, di Torey L. Hayden
Un libro duro come la realtà ma poetico come una favola.
Niente di vero
tranne gli occhi, di Giorgio
Faletti
Un capolavoro di uno dei miei scrittori preferiti.
Non mi resta che augurare a tutti una buona lettura…
E scusarmi per l’introduzione chilometrica!
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *
* * * * * * * * * * * * * * * * * * *
Through
your eyes
«Io
vedo con gli occhi tuoi…»
1
Everything’s changed
Que les choses ont changé
Que les fleures ont fané
Que le temps d’avant,
c’était le temps d’avant
Céline
Dion, Pour que tu m’aimes encore
Domenica 2
settembre
L’automobile
si fermò con un sibilo di pneumatici. Il ragazzo avvertì la lenta
frenata della vettura, ma rimase immobile. Nessuna reazione poteva sfiorarlo.
Era ancora fermamente contrario a quel viaggio.
«Siamo
arrivati.»
La
voce di sua madre. Bassa, dolce, affettuosa. Non era mai cambiata. Lei no.
Ancora
una volta non si mosse. Voleva restare lì, nel suo buio, per sempre. Non
aveva senso tentare. Non aveva nessun senso scendere da quella macchina,
inoltrarsi in quel paese sconosciuto, andare di nuovo incontro al mondo. Non
per lui. Non più.
Suo
malgrado, teneva i sensi all’erta. Si accorse subito che il vecchio
maggiordomo scendeva dall’auto, pronto ad aprirgli la portiera.
«L’aiuto
io, signorino.»
No,
lui non aveva bisogno d’aiuto. Tutto ciò di cui poteva aver
bisogno era andato perduto. Non aveva senso tutto questo. Non voleva scendere,
accidenti.
Tutto
era cambiato. E faceva male. E non sarebbe mai più stato come prima.
L’uomo
gli teneva aperto lo sportello, e ora gli sfiorava delicatamente una spalla.
Lui non si mosse. Non aveva intenzione di darsi per vinto, di piegarsi.
«Tesoro.»
La voce di sua madre vibrò di nuovo nell’abitacolo, intrisa di
quello che doveva essere pianto represso. «Shaoran. Ti prego.»
Odiava
sentirla così. Odiava sentirla e basta. Odiava sentire, sentire, e non
poter fare altro.
Tutto è cambiato.
Sospirò.
A quanto pareva, non aveva scelta. Non ce l’aveva più da un pezzo.
Scostando
la mano del maggiordomo, tese una gamba, incontrando con il piede il suolo
ghiaioso di un vialetto. Si alzò lentamente in piedi, uscendo
all’aperto, ascoltando l’ennesimo sospiro che sua madre aveva
emesso negli ultimi mesi.
Odiava
ascoltarla sospirare. Odiava ascoltarla e basta. Odiava ascoltare, ascoltare, e
non poter fare altro.
Tutto è cambiato.
Shaoran
sollevò di poco il viso, incontrando una brezza leggera. I suoi occhi
vuoti erano fissi sulla città straniera di Tomoeda, ma non erano in
grado di vederla.
a
Quella casa doveva
essere un’altra delle numerose residenze estive della famiglia Li. E
pensare che lui non ne aveva mai saputo nulla. Ma ciò non toglieva il
fatto che lui non voleva averci niente a che fare.
Non
voleva starsene lì ad aspettare. Non aveva senso. Per quanto sua madre fosse convinta che quella fosse la cosa
giusta, lui voleva solo abbandonarsi al buio, all’oblio, al silenzio. Non
voleva tornare a ciò che non aveva più, non voleva nemmeno
sperarlo. Non sarebbe mai più stata la stessa cosa. Lo sapevano tutti,
maledizione. Allora perché costringerlo in quella stupida, assurda,
inutile aspettativa?
Il
letto era comodo, ma non era il suo
letto.
La
casa apparteneva alla sua famiglia, ma non era sua.
Lui
non aveva niente, non era niente, non vedeva niente.
Rimase
seduto sul soffice materasso ancora per qualche minuto, ascoltando i passi
cadenzati del maggiordomo, dall’altra parte del muro, intento a sistemare
i bagagli. Con ogni probabilità, sua madre si era rinchiusa in una delle
stanze di quella villa apparentemente sconosciuta, e ora si abbandonava al
sonno per non soccombere alle solite lacrime che tentava di tenergli nascoste.
E
lui? Dov’era lui? Cosa faceva, cosa pensava, cos’era?
Era
tutto sbagliato, solo di questo era certo.
Tutto è cambiato.
Si
decise. Si alzò cautamente, saggiando il pavimento con i piedi. Percorse
il perimetro della stanza che gli avevano affidato, una mano costantemente al
muro, fino a trovare la porta. Cercò la maniglia, la sfiorò,
aprì lentamente l’uscio e percorse a ritroso il tragitto che lo
aveva condotto lassù, scendendo dalla scalinata con prudenza.
Quando
si sentì giunto al piano inferiore, la voce affannata del solitamente
imperturbabile maggiordomo lo raggiunse.
«Signorino
Shaoran? Dove sta andando?»
Fuori, fuori da tutto questo!
Non
rispose. Si limitò a riprendere a camminare lentamente, sempre accanto
alla parete.
«Signorino
Shaoran, sua madre non sarebbe affatto contenta. Lasci almeno che io
l’aiuti…»
Si
irrigidì all’istante, fermandosi, percependo la vicinanza solerte
dell’uomo alle proprie spalle.
«No,
Wei, lasciami andare da solo.»
«Ma
signorino…»
«Niente
ma. Almeno tu, lasciami fare
ciò che voglio!»
Silenzio.
Aspettò una reazione, cercando di non lasciar fluire la propria collera frustrata.
Quando
parlò di nuovo, il maggiordomo aveva un tono sommesso e rattristato.
«Come
preferisce, signorino.»
Con
un brusco cenno del capo, il ragazzo riprese a muoversi. Arrivò infine
all’uscio principale, che tirò a sé e spalancò.
Uscì, impaziente, chiudendosi la porta alle spalle, lasciandosi dietro
tutto, la casa silenziosa, il sonno fiducioso e ristoratore di sua madre, lo
zelo preoccupato del maggiordomo, tutto,
come aveva già fatto prima, quando tutto era cominciato.
L’aria
di Tomoeda era quella di una tranquilla cittadina giapponese, in una comune
domenica mattina degli inizi di settembre, e sembrava volerlo accogliere a
sé, al pari della stessa speranza che aveva mosso sua madre, quella che
lo aveva indotto ad accettare di lasciare Hong Kong. Ma lui non apparteneva a
tutto questo. Lui non vedeva tutto questo… Non vedeva.
Con
la stessa cautela, portando un piede davanti all’altro, Li Shaoran
percorse il vialetto della villa che non sapeva di possedere, addentrandosi su
un cammino invisibile ai suoi vani occhi vuoti, ancora una volta solo con i
propri pensieri e i propri ricordi.
* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *
* * * * * * * * * * * * * * * * * * *
Lo
so, come inizio è un po’ enigmatico… I primi capitoli
saranno ugualmente brevi, spero solo che non vi annoino troppo.
Un’altra
cosa (più che altro, una preghiera che vi rivolgo fin da subito): non
uccidetemi per ciò che ho fatto a Shaoran…
Grazie
ancora per l’attenzione e a chi deciderà di recensire.
Sayonara
minna!