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Autore: Marlene Ludovikovna    05/08/2014    3 recensioni
È il 1936 quando il giornalista inglese Thomas Bartley, durante un viaggio in Marocco, s'infatua della giovane Kitty Pfenning, una sognante ragazza austriaca sempre immersa nelle sue letture, in viaggio con i genitori.
Quando Kitty deve ripartire per l'Austria i due iniziano a scriversi condividendo tutto e continuando le loro vite. Thomas diventa un giornalista piuttosto acclamato mentre nel frattempo Kitty cresce e, con l'avvento del nazismo, è sempre più decisa a scappare per l'Inghilterra e a raggiungere Thomas.
Un legame intenso, insofferente, sincero e un po' egoistico unisce Kitty e Thomas, decisi a ritrovarsi e ad amarsi senza ritegno.
- La vide e si sentì pieno d'una gioia stridente; essa nacque spontanea dentro di lui, nel momento in cui potè risentire il corpo Kitty tra le sue braccia: ora poteva davvero sentire che era vera. Poteva toccarla, stringerla a sé e sentire il profumo dei suoi capelli.
Non erano più a Tangeri, erano a Londra. Il profumo speziato era sostituito da quello umido della stazione. Tantissimi avvenimenti si erano successi per arrivare alla loro unione e ora erano lì ed erano insieme.
“Chi tu non abbandoni, né tempesta né pioggia lo faranno tremare...” Sussurrò Kitty. -
Genere: Angst, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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PARTE PRIMA


Capitolo quinto

 

Quando tornarono all'albergo Kitty era profondamente scossa e contenta al tempo stesso. Era una gioia dolorosa e piacevole, quella che Kitty si portava addosso.

Si fece una lunga doccia e poi restò adagiata sul letto a baldacchino con ancora l'asciugamano addosso e i capelli bagnati che come rame fuso s'appoggiavano al materasso, bagnando il copriletto.

Sentiva ancora le labbra di Thomas che le sfioravano la mano: le sentiva e la cosa quasi la faceva piangere; aveva sempre avuto dei problemi con il contatto fisico.

Faceva fatica ad abbracciare o baciare i suoi genitori, a dimostrare il suo affetto alle amiche... Al contatto fisico s'irrigidiva.

Ricordava di una volta, che aveva quattordici anni e uno zio mai visto prima era venuto a trovarli a Vienna dalla Germania, perché lì di passaggio.

Le aveva accarezzato la guancia e Kitty era rimasta scossa e aveva sentito così a lungo la pressione della mano di lui sulla sua guancia.

La sentiva come se quel momento orribile si ripetesse di continuo e il contatto restasse, indelebile sulla sua pelle.

Tom era stato delicato e non voleva dargli nessuna colpa: non avrebbe mai potuto immaginare che quell'azione le avrebbe procurato un tale disagio, eppure sentiva una stretta allo stomaco. E allo stesso tempo questa volta era diversa da un normale momento di fastidio: sentiva il tocco persistente, sulla sua mano calda.

Malgrado questo inconveniente, Kitty era però felice.

Era sempre più appassionata da Cime tempestose e non vedeva l'ora di finirlo per poi incominciare una lettura nella sua lingua madre: La morte a Venezia di Thomas Mann.

Thomas.

Quel pensiero le strappò un sorriso, che la fece sentire ancor più patetica.

Nonostante fosse romantica nel senso letterario del termine aveva un blocco nei confronti di forzature nelle manifestazioni d'affetto che le sembravano fasulle.

Eppure quel nome continuava a risuonarle nella mente: Thomas, Thomas, Thomas.

Lo lesse mentalmente in francese, inglese e tedesco cambiando la pronuncia per ogni lingua.

E ripeté cento e cento volte darling quella parola così dolce, da una voce così raffinata. Ripensò alle parole che le piacevano di più, quando venivano pronunciate dalla bocca di lui.

Pensò ai vezzeggiativi che usava di continuo.

Quando le venne voglia di andare in terrazza a leggere un po', il desiderio fu unito alla paura di trovarlo. Quel fremito che la riempiva, la stordì, pietrificandola: aveva voglia di fare tutto e, al tempo stesso, tutto diventava niente.

Restò ancora un po' sul letto e poi si decise ad alzarsi; la sua inquietudine non riguardava solo Thomas.

Era così contenta per quello che aveva appena vissuto eppure sentiva piombare su di lei, inevitabile, uno di quei momenti di inquietudine e noia.

Non sapeva cosa voleva realmente fare e appena provava a leggere sentiva di aver troppi pensieri per la testa per continuare a farlo.

E allora metteva giù il libro.

E allora si alzava e si sentiva incredibilmente sciocca perché non sapeva cosa voleva.

Tom non era in terrazza, ma ciò non significava che quel posto fosse privo di vita.

Un gruppo di francesi era seduto a conversare animatamente bevendo tè alla menta.

Ne ordinò un bicchiere anche Kitty che era diventata davvero appassionata della bevanda marocchina.

Si sedette su un divano bianco con il libro in grembo, nonostante non riuscisse a leggerlo.

La sua attenzione era focalizzata sui tetti e le terrazze che si estendevano davanti a lei, culminando con il mare: il sapore fresco – e tiepido al tempo stesso - e dolce della menta le riempiva il palato mentre l'aria marina echeggiava di tanto intanto, trasportata dalle calde folate di vento.

Sua madre la raggiunse per il tè, raccomandandole di non berne troppo perché se no non sarebbe riuscita a dormire.

Kitty disse di avere quasi diciassette anni e non cinque.

In fondo però sua madre non era così antipatica, per quanto fosse mentalmente limitata e un po' isterica. Le voleva bene e in fatto di vestiti aveva ottimi gusti.

Quel pomeriggio per esempio era tutta contenta per aver comprato delle scarpe francesi che le piacevano tanto.

“E...” fece una pausa per frugare nella borsa, “Ti ho anche comprato una borsa!”

Kitty sorrise contenta, vedendo il regalo della madre.

Era una borsetta a tracolla in cuoio chiaro, che si chiudeva con una cinghietta e che aveva due tasche sul davanti e due ai lati.

“Anche se è piccola ci stanno tantissime cose” commentò Helene.

A Kitty piacevano le sorprese e i regali inaspettati e ancor più le piaceva quando sua madre se lo ricordava.

Kitty e sua madre chiacchierarono un po', poi Helene andò a prepararsi.

Katharine, che ormai si era svagata abbastanza, prese in mano il suo libro.

Un conoscente di Tom giunse da Marrakech proprio quel pomeriggio. Il suo nome era Scott Kingsley: era un uomo alto, baffuto e dai folti capelli neri.

Tom era stato in classe con lui alle superiori e non si erano sentiti finché lui, appena arrivato al Grand Hotel du Savoy con la moglie Lucy, non l'aveva visto al bancone, mentre sorseggiava dello scotch.

Allora si erano salutati calorosamente.

Scott Kingsley era un giocatore di golf, Lucy Waughan una ereditiera e entrambi nella vita non avevano fatto altro che vivere con i soldi dei loro genitori, che invece – nati bassi borghesi – si erano arricchiti con l'imprenditoria e i loro sforzi. Scott Kingsley aveva infatti ereditato una fabbrica di cioccolato e Lucy, non avendo fratelli, un negozio di cappelli, Waughan's, in Oxford Street.

Thomas si mostrò davvero interessato alle vicende dei due in viaggio e c'era da dire che era così bravo a fingere che avrebbe potuto fare l'attore o il politico. Sorrideva così radiosamente che anche Lucy per un istante dovette ammettere che era decisamente più affascinante del suo amato marito – il quale non era proprio il massimo, dal punto di vista dell'estetica, ma che lei amava enormemente e ciò si percepiva talmente tanto che Tom arrivò a pensare alla differenza tra una coppia così e i suoi amatissimi Fane.

Quando finalmente i due se ne furono andati a sistemarsi nelle loro camere, Tom potè sedersi in una bella poltrona rivestita in cuoio e fumare la sua pipa.

Misero su della musica americana degli anni 20.

A Tom sembrò di riconoscere quella melodia... Che tempi belli erano stati quelli prima della crisi in cui gli Alleati avevano appena vinto la guerra e si faceva festa ovunque. Allora studiava letteratura inglese e si preparava ad ereditare una casa editrice, la Bartley and Collins, aveva appena scritto un romanzetto su una storia d'amore tra un'inglese e un cinese e di tanto in tanto scriveva articoli per il giornale di Cambridge.

Non era la celebrità della scuola, ma era di più: era il tipo di persona che la gente si fermava ad ascoltare e non c'era nessuno che non ne fosse stregato, tranne Dorothy Haddleton, una maschietta che non voleva fare altro che leggere, ballare e andare al cinematografo e che viveva la sua vita come un'allegra perditempo.

Dorothy era la studentessa più bella di Cambridge, con i suoi bei boccoli biondi che le incorniciavano il viso luminoso, ma non era di certo la più brava, al contrario di Thomas, che accumulava sempre più successi.

Fu in quel periodo che i due cugini diventarono sempre più legati: passavano pomeriggi nei magazzini di Londra e organizzarono feste.

Dorothy Haddleton e Thomas Bartley erano nomi sulla bocca di tutti, nell'ambiente giovanile di Cambridge, e anche in quello di Londra, quando i due vi facevano visita.

Fu in quel periodo che Dott venne a conoscenza di tutti i punti deboli di Tom cosicché c'era una cosa che sapeva e ammetteva solo lei: Thomas Bartley era un uomo vanitoso.

“Se potessi ti scoperesti da solo” gli aveva detto una volta Dott con un sopracciglio alzato e uno sguardo ironicamente sprezzante, guardandolo scegliere che cravatta indossare. 
Così lui le era venuto sinuosamente vicino e le aveva dato un bacio sul collo, ridendo e le braccia di peso, facendo cadere entrambi sul letto - “Stai ferma che non ti riesco a baciare bene... Ah, per punizione ti darò altri tre baci.” 
Lei aveva riso fragorosamente. 
"Bevi, bimba, bevi" scherzò lui versandole del brandy e lei gli aveva risposto con una smorfia. 
"Ammettilo che ti ami, Tom. Sei un narcisista." 
“Dott, - l'aveva guardata poi lui con un sorrisetto - dimentichi che io non posso essere più giovane di me stesso.”

Quando andava all'università e aveva vent'anni, gli oggetti desiderio di Tom Bartley ne avevano anche quindici: c'era stata un'omonima di Dott, Dorothy Leach, che andava al liceo a Cambridge e che viveva lì e un'altra, di sedici anni, di nome Lily Brunty, la figlia di degli amici di famiglia che vivevano a Edimburgo.

Poi, avendo superato i vent'anni di età, l'età delle sue piccole amanti era sempre stata tra i sedici e i venti. Tra loro c'era però stata un'eccezione e il suo nome era Daisy Lancester, un'affascinante signora sulla cinquantina, che gli aveva dato una buona educazione al sesso.

Dorothy conosceva ogni donna di Tom. Le piaceva, anche se non lo ammetteva, che lui ne parlasse; non avrebbe mai voluto averlo come fidanzato, si amava troppo e sarebbe stato disgustoso, essendo per lei un fratello e un amico, però una volta sposata i suoi racconti si erano fatti sempre più piacevoli alle sue orecchie.

A Dorothy Haddleton Fane mancava di essere una maschietta in ogni momento della sua vita di donna noiosa e sposata, e in ogni momento, lottava disperata per la sua felicità e s'avvinghiava e si dimenava per conquistare quello che per anni le avevano negato per poi toglierglielo non appena ne aveva avuto l'assaggio e il suo buon sapore s'era sparso sul suo palato: un attimo di libera fanciullezza.

Thomas lo sapeva. E il loro rapporto consisteva anche in questo: un avvinghiamento tramite segreti e confidenze. Erano amici pericolosi e ad esserlo si divertivano tremendamente.

Quando Dorothy lo raggiunse Tom si meravigliò di quanto fosse diventata fredda rispetto a poco prima, quando erano a Tarifa; non era la sua dolce superbia o il suo mielato disprezzo ma era vera freddezza.

Appena arrivata si sedette accanto a lui – o meglio si accasciò – e trasse un sospiro. Poi ordino un whisky.

Rimanerono in silenzio per un po': Tom era preso dal libro che stava leggendo, I fratelli Karamazov, mentre Dott restava ferma a fissare il vuoto.

Di tanto in tanto Tom alzava gli occhi dal libro per non trovare quelli di Dorothy, che erano fermi sul tavolino.

“Cosa c'è Dott?” chiese dopo un po'.

“Sono un po' assonnata” rispose lei con freddezza.

“Dov'è Maxwell?”

“Non ne ho la minima idea.”

“Oh, perfetto.”

Dorothy s'irrigidì; spesso Tom usava essere cinico nei suo confronti sminuendo i suoi problemi con Maxwell, nonostante in fondo la comprendesse.

“Thomas, sei un idiota.”

Lui fece una smorfia e bevve un sorso di scotch: di tanto in tanto osservava la stanza attraverso il vetro del bicchiere.

Il bar dell'albergo era davvero bello. Le ampie poltrone erano messe intorno ai tavolini bassi e il bancone era ampio e in legno di mogano.

“Dorothy, non posso essere empatico nei tuoi confronti, se fai la gran dama e non mi dici neanche qual è il tuo problema” ribatté lui, quasi bofonchiando, nonostante le parole arrivassero con estrema chiarezza.

“Dorothy?” disse lei con un sorrisetto carico di rabbia.

“Mi spieghi qual è il motivo della tua rabbia?” chiese lei, ora cinica.

Tom si voltò verso l'amica e sibilò: “Non è rabbia, ma fastidio.”

“E cosa ti reca fastidio, Thomas?”

“Il tuo comportamento.”

“A me dà fastidio essere sposata con una persona che detesto e che tu domandi quale sia il mio problema nonostante lo sappia già!” sbottò lei.

Fu allora che Tom si pentì di ogni parola detta fino a quel momento e si accasciò sulla sedia, con una mano sulle tempie.

“Oggi ho mal di testa” disse sofferente.

Dott si alzò, in un frusciare di scialli bianchi e se ne andò senza dire una parola, il labbro inferiore un po' abbassato in una smorfia altera.

Tom restò per un po' lì seduto. Avrebbe tanto desiderato stare con la sua nuova conoscente, in quel momento, di cui non vedeva l'ora di apprendere passioni e giovanili desideri.

Sperò di trovarla in terrazza e così ci si recò, ma lei era già uscita da almeno un'ora per andare a mangiare fuori con i suoi genitori, così Tom ordinò un altro scotch.

Kitty si addormentò non appena sfiorato il cuscino, quella sera.

La sua giornata era stata splendida e, al contrario di com'era successo a Tom e Dott, non si era guastata con il ritorno a Tangeri, anzi, del bel tempo passato erano rimasti i dolci echi nella mente di Kitty.

La notte cullava Tangeri, pacata e tranquilla, mentre il buio riempiva le vie e la luce delle poche case che la possedevano, si intravedeva da lontano.

Fece sogni strani: immaginò di perdersi nel souk vagando tra stoffe e colori che nel suo sogno assumevano tinte demoniache – e continuava ad inciampare e cadere a terra, per poi essere coperta dal flusso di persone che camminava veloce per le strade - poi, dopo nemmeno un secondo, si trovava con un signore inglese.

Lo vedeva prima da lontano – seduto sulla terrazza, vestito di bianco, con la pipa in mano – e poi da vicino – mano a mano che lei si avvicinava.

Katharine vedeva la scena con la prospettiva di un osservatore morboso e dallos guardo carico di malvagità.

I colori caldi del Marocco si alternavano alle ombre fosche dell'umanità.

E poi lei si trovava sdraiata su un letto canuta, in una stanza dalla quale si vedeva il mare.

C'era anche il signore inglese, il cui viso era sempre oscurato e di cui spesso si intravedevano gli occhi spietati e azzurrini che luccicavano di un insano bagliore.

Lui...

Lui le baciava un ginocchio.

Si chinava accanto a lei, famelico, e prendeva la gamba con entrambe le mani, accarezzandole la pelle.

E Kitty rabbrividiva, e più i brividi si facevano strada attraverso la sua schiena, più il suo cuore sussultava: voleva ancora di più.

Poi l'osservatore si fermò per un istante sul viso di Kitty: in quel sogno era molto più bella di come non si fosse mai vista in tutta la sua vita.

In un'altra dimensione inconscia era una segretaria e continuava a sbagliare ciò che le veniva dettato e ci riprovava e sbagliava e poi sbagliava ancora e di nuovo. Vedeva tutto come se stessa: gli occhi chini sulla macchina da scrivere, il cui sguardo veniva ogni tanto attirato dall'uomo davanti a lei, la cui voce vibrava nella stanza.

Le parole che ricordava dal sogno una volta sveglia erano quelle che era certa di aver già sentito e che a quanto pare l'avevano turbata, secondo l'interpretazione dei sogni di Freud, che le aveva spiegato suo padre in un raro momento d'affetto paterno.

Le parole, aspre, rimbombavano nella stretta stanza.

Vernichtung, Freirheit, Juden.

Sterminio, libertà, ebrei.

Quella prima parola continuava a scivolarle via dalle mani incapaci di battere sui tasti, all'improvviso scivolosi.

A dettare quelle parole non c'era il signore inglese.

Era un'altro uomo, - la divisa inamidata, l'aria impettita - di cui dall'ombra del cappello militare emergevano solamente due labbra rettilinee. Aveva un accento fastidioso che calcava le r rendendole lunghe ed estenuanti alle orecchie degli ascoltatori, che a quanto pare però ascoltavano senza badarvi.

Einigkeit, Recht, Freihreit.

Unione, correttezza, libertà.

Vernichtung.

Le prime tre parole provenivano dall'inno tedesco, la quarta no.

Kitty si confondeva, le sue dita incespicavano sui tasti, fece per alzarsi, stanca.

L'unica parola che avrebbe voluto scrivere era Tod, morte.

Ma ad un certo punto del sogno si rendeva conto che non contava cosa volesse scrivere, ma cosa gli altri volevano che lei scrivesse. E allora la stanza si riempiva di voci che inveivano contro di lei.

Unione, correttezza e libertà.

E poi, di nuovo... Sterminio.

Einigkeit macht stark.

L'unione fa la forza.

Vernichtung. Sterminio.

Nell'inconscio di Kitty Pfenning rimbombò il suono di un singhiozzo strozzato.

Sterminio.

Quando si svegliò, aveva gli occhi lucidi e non il più sbiadito ricordo del sogno, ma nella sua mente venivano pronunciate quelle parole, da una voce maschile, che ruggiva, desiderosa di estirpare quanta più umanità Kitty potesse contenere: sospirò. Erano le undici, eppure si sentiva come se non si fosse mai addormentata. 

 




angolo autrice

Eccomi qui ad aggiornare!
Prima di tutto volevo fare una piccola comunicazione di servizio:
dato che partirò per le vacanze e sarò senza computer probabilmente non potrò aggiornare fino al 20 di agosto, poi gli aggiornamenti riprenderanno ad essere ogni martedì della settimana.
E ora passiamo alla storia! :')
Questo è stato un capitolo molto riflessivo e ho iniziato ad addentrarmi in una parte di Kitty molto ardua: quella che deve affrontare l'avvento del nazismo nel paese della madre - e che poi la toccherà ancor più da vicino con l'Anschluss nel 1938.
Kitty è spesso a contatto con l'ideologia nazionalsocialista e ne rimane turbata, nonostante ciò appaia solamente nel lato più profondo del suo inconscio: nei suoi sogni.
Inoltre ho voluto fare un piccolo focus su Dorothy e spero che lo abbiate gradito.
Chiedo scusa se non c'è molta "tensione sessuale" per ora, ma arriverà. Voglio solamente dare ai protagonsiti tempo per conoscersi, in modo da rendere la vicenda il più realistico possibile.

Questo è tutto.
Un bacio e alla prossima,

Marlene Ludovikovna

 
   
 
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