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Autore: GuessWhat    09/09/2014    5 recensioni
LONG SOSPESA // Esiste Dio? Se esiste, è sordo e se mi sente, non mi vede. Così sono finito qui, dalla strada ai cessi di una scuola. Sempre e comunque sguazzo nella merda. Avete voglia di ascoltarmi? Bene. C'è spazio. Questa è la mia vita, questa è la mia storia.
[Levi POV]
Dal cap. 15:
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Irvin Smith, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Striscia fuori dal suo buco*
Ci sono. Sono viva. E' una vita che non aggiorno e mi sento arruginita per la scrittura; in più i capitoli di transizione non sono il mio forte, affatto. Spero comunque di avere fatto un buon lavoro e che la storia vi catturi ancora ♥
Grazie a chi rimane sintonizzato per gli aggiornamenti, vi voglio letterariamente bene :>

Sabato.
Un’ora prima dell’uscita da scuola ed ecco che suona la campana del secondo intervallo; non una novità, non durante le altre settimane.
Era un sabato particolare. No, non stavo andando dalla professoressa Zoe a chiederle di andare in discoteca e, per una volta, alle mie calcagna non c’era traccia di ragazzini che imploravano pietà per le loro monetine, cadute inesorabilmente nella macchinetta difettosa. Erano mesi che noi del corpo bidelli cercavamo di fare pressione ai piani alti affinché la macchinetta di merda venisse sostituita o riparata, solo per ricevere porte chiuse e alzate di spalle.
Ma comunque. Lasciamo perdere le macchinette delle merendine radioattive e concentriamoci, piuttosto, sul perché ci ho tenuto ad aprire questa finestra dei miei ricordi proprio qui.
Come ho già detto, era un sabato particolare.
Mi sfregai le mani al suono della campanella, mollai baracca e burattini –le coppe vinte dalla scuola, che stavo lucidando con tanto amore- e corsi giù nell’atrio. La mia classe preferita era al piano terra a rompersi l’anima con il frantumapalle professore di discipline plastiche e non c’era sabato in cui tutti quei ragazzi, puntualmente, scappassero via dall’aula almeno per la pausa dell’intervallo breve. Tutti, tranne alcuni; un trio che conosciamo fin troppo bene, direi, e che ci puzza anche parecchio, aggiungerei.
Perché preferissero starsene in un punto fisso tutti i dannati sabati era una faccenda che ignoravo – no, Dio, non sono così cretino, non la ignoravo affatto. Faceva comodo avere l’aula sostanzialmente vuota, con uno sgabuzzino in cui potersi eventualmente ritirare en privé e la fama di essere sempre lì, tutti i sabati. Cazzo, meglio del paninaro fisso all’intervallo di metà mattina!
Mi guardai intorno velocemente, giusto in caso i fantastici tre fossero usciti dal loro nascondiglio, ma di loro, nell’atrio, alcuna traccia: c’erano solo i miei soliti ragazzi, nelle loro faccende affaccendati, chi mangiava qualcosa, chi beveva, chi si lamentava della noia che era discipline plastiche; la solita scena vista di sfuggita più volte, con la sola differenza di Jean – era lì che tendeva il capo verso Eren come un ridicolo struzzo, quasi lo stesse tenendo d’occhio, di sicuro combattuto tra l’andargli a parlare oppure no. Che se la vedessero loro, limonassero, si facessero seghe e quant’altro, a me bastava non si malmenassero per il semplice fatto che non avrei comunque potuto agire di testa mia. Un bello schiaffone in faccia ad entrambi sarebbe stato l’ideale più volte, ma ahimè – non serve che io continui la frase.
Entrai in classe e li trovai in fondo all’aula, ben raccolti vicino al termosifone spento e lontani dalla visuale che si aveva dall’entrata. Lì per lì non sembrarono darmi peso. Annie continuava a leggere in silenzio, con la felpa pure a Maggio, Reiner disegnava (culi, presumibilmente) e Bertholdt, col braccio oblungo a sostegno del capo, lo guardava all’opera. Non dovevo avere attirato la loro attenzione più di una mosca che entra dalla finestra e vola all’altro capo della stanza: era quello un bidello in una scuola, una semplice presenza che aleggiava un po’ qui, un po’ lì; ovunque fosse non destava sospetti, non negli studenti.
 Di sospetti ne destai parecchi però, quando accostai la porta fino a chiuderla. Le tre teste si alzarono all’unisono e dapprima mi guardarono con evidente curiosità, poi le loro facce si diversificarono mano a mano che io mi avvicinavo. Annie storse il naso (..nasone) e si rabbuiò, chiudendo il libro. Bertholdt, al contrario, si tese come una corda di violino, sgranando gli occhi e Reiner, invece, si limitò a fissarmi con aria perplessa mentre io, sotto agli occhi del trio e senza avere detto una parola, prendevo una sedia libera, la giravo e mi sedevo di fronte a loro, le braccia incrociate sullo schienale.
Le loro facce da stronzi erano così ridicole che mi venne quasi voglia di sghignazzare. Sottolineo il quasi.
“..Mbè?” fu Reiner a parlare dopo una manciata di secondi di silenzio, facciamo una trentina.
“Mbè?” gli feci eco io.
Non soddisfatto della risposta, quello che istintivamente mi comunicava essere il portavoce del gruppo (e non il leader, lui era solo quello “io sono grande, io sono grosso”) posò la matita sul foglio e aggrottò i tre peli di sopracciglio che si ritrovava. “Cos’abbiamo fatto, adesso?”
Annie gli lanciò un’occhiataccia fredda, Bertholdt non diceva una parola. Si succhiava le labbra, nervoso.
“Perché” incalzai, “Avete già fatto qualcosa che non dovevate?”
Bertholdt si strinse nelle spalle e scomparve, per quanto possa scomparire un cristiano alto quasi due metri. Annie era distante, glaciale. Madonna, se metteva freddo quella ragazzina.
Reiner esitò, forse preso in contropiede da quanto avevo detto. Appoggiai il mento alle braccia e con un gesto annoiato della mano invitai l’armadio a due ante ad andare avanti. Muoviti pure, culomane, sono tutt’orecchie.
Si guardarono tra di loro e Dio mi fulmini se sapevo ciò che si stavano comunicando in silenzio. Da Annie non traspariva un’emozione che fosse una e Bertholdt doveva decisamente smetterla di agitarsi in silenzio sulla sedia. Reiner, né troppo distaccato né troppo nervoso, era il più equilibrato e più portato a recitare.
Non potei fare a meno di chiedermi cosa stessero provando in quel momento, indubbiamente paura. Ragazzini, bambini o adulti: non ha alcuna importanza, tutti ci caghiamo in mano se facciamo qualcosa di molto sbagliato e veniamo colti con le mani nel sacco. La prima cosa che ci si chiede, istintivamente, è la più patetica di sempre: ‘E adesso?’. Non ero un telepate, ma sulle loro facce si poteva leggere un chiarissimo ‘E adesso?’.
“La campanella suona tra otto minuti. Ti conviene rispondermi, Reiner.”
Reiner mi affrontò con una nuova luce negli occhi. Credeva di spaventarmi solo perché era un fascio di muscoli e nervi? Non sapeva con chi aveva a che fare. Oh, no, proprio non lo sapeva. “Perché le interessa?”
Rimasi buono e calmo, come spesso sono. E’ molto facile farmi incazzare, molto difficile farmi reagire. “Stavo facendo le pulizie in soffitta, qualche giorno fa. Sapete, quella che una volta era l’aula di disegno dal vero, e che ora è un dimenticatoio.”
Non ci sarebbe stato bisogno di continuare con la mia descrizione.
Alla parola soffitta calò un silenzio tombale. Era come se quei tre ragazzi avessero smesso all’unisono di produrre suoni, pure quelli corporei derivati dal battito cardiaco e dalla respirazione. Assurdamente, il mio cervello bruciato se ne uscì con un pensiero sulle linee di, Ecco, il tempo s’è fermato. Non avevo avuto idea di quanto potesse essere importante per loro quella roba fino a quel momento. Cominciai a temere che ci fosse qualcosa di molto più profondo, timore che già avevo – cazzo, quando mai dei ragazzini che vanno al liceo trovano il tempo di coltivare ed essiccare grandi quantità di marijuana indisturbati, senza che i genitori se ne accorgano?
Se la mia supposizione era reale, avevo messo piede in un campo minato. Ora ero io a chiedermi ‘E adesso?’.
Basta Levi, basta pensare come Erwin, mi dissi e continuai a parlare. Non potevo fare molto altro se non dettare le mie ‘condizioni’ per ora, e chiedermi fino a che punto quei ragazzi fossero nei guai. C’era da qualche parte nel mio cranio pure l’intenzione di interrogarmi sulla decisione che avevo preso e le sue conseguenze, ma mi imposi un secco basta. Una scelta è una scelta.
“Vedo che ci siamo già capiti” lasciai che la frase si depositasse per bene nei loro piccoli crani. “Non troverete niente là.”
Il silenzio si ruppe. Era Bertholdt che, portatosi una mano alla bocca, si esibiva in un singhiozzo strozzato, non di pianto. Era puro stress.
“L’uccellino non ha intenzione di cantare” aggiunsi a mo’ di rassicurazione. Il silenzio che ci aveva attanagliati si sciolse un po’ ma la sensazione inquietante permase. Cominciavo a non sentirmi troppo bene lì, ma non erano Annie, Bertholdt né tantomeno Reiner a spaventarmi. Queste situazioni non mi piacciono, non mi piacciono i ricordi che mi rievocano, mi fanno salire quell’impulso di lavare e lavarmi, sfregare, insaponare, insieme ad un saporaccio orribile nella bocca.
Strinsi le labbra e deglutii giù l’amaro più amaro della bile. Mi rifiutai di scappare, puntai i piedi nella mente ben saldi sul terreno e mi piegai all’arrivo dell’ondata di sensi di colpa e di schifo. Non avrei mai potuto cancellare il passato. Quel mai una volta sembrava così enorme nella mia testa che spesso temevo mi sarebbe potuta esplodere, e invece eccomi lì – seduto all’incontrario davanti a tre ragazzini succubi di una realtà che non osavo neanche immaginare, a dare ciò che non mi era mai stato offerto: un ultimatum.
E volli ben sperare per quei tre figli di buona donna che l’avrebbero colto al volo. Da certe situazioni non si torna indietro. Si sa come ci entri – ma non come né se ci esci.
“Ma non ha intenzione di stare zitto per sempre. Non se trova altre uova nel suo nido.”
Reiner strinse e poi rilassò i pugni sul banco. Annie rimase algida e Bertholdt si sfregò la mano sulla faccia. Quest’ultimo cercò lo sguardo di lei e mi fece pena, pareva un disperato, ancor più disperato quando vide il profilo aquilino di Annie ignorarlo bellamente. Evidentemente, lei aveva altro per la testa che consolare lo stangone.
Dovetti riconoscere che Reiner aveva un’ottima gestione della rabbia, sempre se fosse arrabbiato. Sapete che idea mi dava, quel bestione? Mi ricordava alcuni animali che non attaccano mai, dato che la loro stazza o la loro corazza dice agli altri intorno ‘Io fossi in voi non ci proverei, sarò calmo ma sono comunque grosso, o protetto da qualcosa’
“Non era nostra intenzione” mi aspettavo una risposta pronta di Reiner e invece a sorprendermi fu Bertholdt. Il ragazzo aveva il tono di uno che è sull’orlo del pianto da crisi di nervi. “Ci costringono-“ ma s’interruppe. La manona di Reiner gli aveva stretto il polso e gli occhi di lui e di Annie non avevano bisogno di sottotitoli.
Sta’ zitto, Bertholdt.
Ora, non dico di avere provato empatia per quel ragazzo, ma senz’ombra di dubbio mi faceva pena più di prima. A guardarli, non avrei saputo indicare chi fosse più la vittima della situazione e subito dopo mi dissi che non aveva alcuna importanza l’essere più o meno vittime. C’era qualcosa di disgustoso in tutto questo e me ne volevo chiamare fuori.
Egoismo?
Molto probabilmente sì. Ma io preferisco chiamarlo spirito di conservazione.
Il grido d’aiuto di Bertholdt era un grido sordo, dato che lo urlava praticamente contro a un muro. Sul momento non riuscivo a trovare una via di mezzo su come gestire il senso di colpa che mi aveva investito pochi istanti prima: ero fottutamente insensibile. Avevo fatto quel che potevo, credendo fosse stata una buona idea – ma non esiste una scelta senza conseguenze, per me o per gli altri. Il mio timore era avere ulteriori conseguenze per me. 
Avevo la sensazione che un giorno o l’altro sarebbero arrivate. Forse stavo solo diventando molto paranoico. Forse dovevo andare a casa, uscire con Auruo, bere e riflettere a mente fredda dopo una sbronza.
Forse dovevo piantarla di leggere troppo tra le righe e smetterla di vedere tutto così tragico perché, cazzo, possibile che avessero davvero una vita così grama? Possibile che Bertholdt non fosse semplicemente un ragazzino così spaventato dalle conseguenze da fare immediatamente scaricabarile? Non era detto che dietro ogni ‘ci costringono’ ci fosse un genitore che pesta il figlio o un amico del genitore che fa le sue veci. Non era detto.
Più ci pensavo, più il ragionamento non stava affatto in piedi. La verità è che non sapevo cosa fare. Dovevo trovare il giusto equilibro tra l’Erwin Smith e il Levi Ackerman, tra  la necessità di aiutare qualcuno e il bisogno, una volta per tutte, di vivere una vita serena e tranquilla lontana dai casini degli altri. A volte non chiedevo altro.
“Niente uova nel suo nido” disse Reiner lasciando il polso di Bertholdt, che tornò a scomparire sulla sedia. Il nostro discorso era stato breve ma intenso e alla fine aveva pure assunto dei toni ridicoli, con tutte quelle immagini di uccellini, di uova e nidi.
Restai a fissarlo negli occhi, ad assicurarmi che il concetto fosse ben chiaro ad entrambi. Alla fine, vinse il Levi Ackerman –come avevo previsto-, l’uomo che cerca solo una stracazzo di vita tranquilla ed è troppo stanco, troppo vecchio, troppo consumato per promuoversi a paladino della giustizia. “Per quel che mi riguarda, potete continuare a covare in altri nidi. Ma qui non ne voglio sapere. Sono stato chiaro?”
“Come il sole.”
“Molto bene.”
Bertholdt mi guardava fisso, con l’aria di chi spera in qualcosa. Sono spiacente. Non ero io il suo dio salvatore. Seriamente, con tutto il bene del mondo, che potere avevo, a parte la denuncia alle autorità? In un modo o nell’altro, tre ragazzini –forse- plagiati ci sarebbero andati in mezzo. No. Quello era il massimo della giustizia e dell’aiuto che potevo dare e dal basso della mia superbia, quel pensiero mi fece stare meglio con me stesso e con loro. Pure se io, in realtà, con quei tre non avevo niente da spartire.
Mi alzai, rimisi la sedia a posto e me ne andai esattamente com’ero arrivato: senza un saluto, un commento, un cenno. Mi portai dietro l’aria greve e puzzolente dell’aula e non mi riferisco all’odore stagnante dell’argilla. Non appena richiusi la porta alle mie spalle, suonò la campanella: un trillo che a me, stordito, risultò assordante e sgradevole e che mi fece scendere brividi lungo la schiena.
Mi scostai dall’aula per lasciare entrare i ragazzini. A malapena guardai quelle facce conosciute, a malapena loro mi notarono –ad esclusione di Eren, che mi passò di fianco e mi sembrò vagamente preoccupato- e ne fui quasi sollevato.
Mi accorsi che mi batteva forte il cuore e non mi sentivo tanto bene. Mi allontanai da lì e mi sedetti al bancone vicino all’ingresso per un paio di minuti, braccia conserte, ad attendere che la tachicardia si abbassasse. Il passato era, appunto, il passato: parlarne con chi dicevo io non mi disturbava granché. Vedermelo spiattellato davanti agli occhi, invece, mi disturbava un casino.
 
******
 
Il pomeriggio passò come passano tutti i pomeriggi noiosi. Mandai solo un paio di messaggi ad Auruo per chiedergli se gli andava di uscire in serata e mi buttai sul divano a guardare un po’ di televisione. Mi sentivo la lingua impastata e attaccata al palato: avevo un forte bisogno di parlare, anche se lì per lì non riuscivo a comprendere se il disagio fosse dovuto a quello o alla stanchezza. Nel dubbio, lasciai morire il mio cervello; lavorava troppo, mi convinsi, aveva bisogno solo di un’accidenti di pausa.
L’ho detto precedentemente, credo, che il senso di non volere provare più niente mi accompagnava, e accompagna, molto spesso. Chiariamoci, la terapia t’aiuta ad uscire da certe situazioni e l’amore ti può fare sentire meglio, ma non sono affatto le cure per tutti i mali. Non m’illudevo che la mia.. ‘relazione’ con Erwin avrebbe cambiato qualcosa, dato che di fondo mi sentivo sempre lo stesso Levi. Senza dubbio mi ero svuotato da alcune frustrazioni, ma ciò che c’era tra di noi non aveva cancellato altro – soprattutto il passato.
Erwin stesso era il promemoria di quel che era stato.
Deglutii amaramente lasciando che la televisione andasse da sé. Seguivo a malapena ciò che veniva trasmesso, troppo preso dal vortice dei miei pensieri. Quella consapevolezza improvvisa – cioè che Erwin stesso costituiva un ricordo concreto – mi colpì con la violenza di un pugno allo stomaco. Annaspai silenziosamente e scivolai di fianco, poco alla volta, con la netta sensazione di avere fatto un passo indietro. Non c’era lui con me e mi sentivo perso, come codipendente, e la cosa mi disgustava. Allora non riuscii a capire che era solo sana, genuina mancanza della sua presenza e preoccupazione per la malattia.
Maledettissimi, fottutissimi ragazzini e i loro problemi di spaccio. Maledettissimo, fottutissimo me per non essermi voluto fare i cazzi miei.
Avrei potuto lasciare stare ogni cosa e far sì che gli eventi marciassero dove dovessero marciare, ma per tutti i milioni di motivi che già ho spiegato (e perdonatemi, ma stavolta abolirò la logorrea) non avevo voluto farlo. E non era ciò che ho sempre sbanderiato? Le scelte, le conseguenze delle proprie azioni, le responsabilità?
È facile dire che andrà tutto bene e che mi riprenderò, che era solo lo sconforto di un momento –ed infatti lo fu. Nei miei panni non era semplice capirlo, abituato fino a pochi anni prima agli alti e ai bassi più violenti, sempre in bilico tra il desiderio di sparire e il bisogno di ricominciare, istintivo e viscerale.
Mi grattai la guancia pigramente e strinsi gli occhi un paio di volte, a dir poco insensibile al gatto di Erwin che cercava di attirare la mia attenzione con gli artiglietti e i miagolii. Scacciai Bobbo con la mano, molto poco convinto. Meno male che volevo solo spegnere il cervello. Non era andata tanto bene: dovevo sembrare uno zombie steso sul divano.
Ad essere sincero non ricordo né come né quando, ma so per certo che mi addormentai. Alla fine mi spensi, sopraffatto da tutto; forse il mio corpo ritenne che scaricare le batterie fosse la scelta migliore. E devo dire che fu un’ottima decisione.
Mi svegliai ed il televisore era ancora acceso. Avevo una fame dannata, di quelle che ti mangeresti pure tuo nonno. Era qualcosa di talmente fisico che stetti subito meglio a dispetto dei crampi allo stomaco; a giudicare da come il gatto mi miagolava dalla porta, non ero il solo a morire di fame!
Mi alzai dal divano e mi accorsi immediatamente di come fossi già più reattivo, dopo un meritato pisolino. Mi azzardai perfino a pensare che avrei potuto concedermeli più spesso, quei meritati pisolini, mentre guardavo in frigo in cerca di qualcosa da mangiare che non fosse precotto o già pronto: optai per una semplice insalata con varietà di verdure, un piatto che immaginavo avrebbe reso contento il mio caro, piccolo assistente sociale. Sorrisi a quel pensiero.
Auruo, comunque, mi aveva scritto. Mi venne a prendere verso le dieci e mi trovò già sul portone di casa, a fumare una sigaretta mentre aspettavo il mio cavaliere a bordo della sua Punto bianca.
Chiariamoci; Auruo non è la migliore delle compagnie, perché è un tipo un po’ strano e che mi faceva sentire osservato al punto di essere persino.. Boh, oggetto di studio, diciamo. Nonostante ciò, era da un pezzo che non uscivamo solo io e lui, senza contare che avevo la necessità di stare in compagnia (ma guai ad ammetterlo, e fottesega il fatto che siamo animali sociali) e c’erano un paio di cose che volevo dirgli. Sempre se Petra non gliele aveva già spifferate!
Mi accolse con The Passenger, versione originale del signor Iggy Pop, nelle casse dell’auto e mi salutò calorosamente per i suoi standard. Credo che fosse contento di vedermi, il suo sorriso mi fece realizzare che b era reciproco. Lungo la strada che portava al Lobo Loco, solito Irish pub fuori città, parlammo molto poco, occupati a cantare e battere il ritmo delle canzoni nel suo mp3 – i Rolling Stones, The Knack, Social Distortion, Rancid, Clash. Pure un inaspettato Bublé con Home, che Auruo mandò avanti dissimulando malamente l’imbarazzo. Quante pare inutili! A che gli servisse fare il duro, figo uomo che non deve chiedere mai con me, poi.
“T’avevamo quasi dato per morto, Levi!” disse, dietro ad una pinta di Guiness.
Io bevvi piano la schiuma della mia bionda. “Addirittura.”
“A momenti non ti si sentiva più. Non dico che ti si vedesse, l’ultima volta che ci siamo visti tutti insieme, cos’era? Febbraio, Marzo?”
“Giù di lì.”
C’era una bella atmosfera rilassata dentro al Lobo Loco. Era un Irish pub in tutto e per tutto, dal mobilio in legno e l’ambiente accogliente. In sottofondo, musica rock e simili. Si stava bene lì dentro, pure di sabato sera, quando non beccavi troppa caciara o i metallari ubriachi, per nulla molesti ma molto rumorosi. Noi due ce ne stavamo in uno degli ultimi tavolini della saletta più lontana dall’ingresso, ritirati ed appartati.
Auruo guardò prima me e poi la birra, si sfregò una mano sulla faccia e stirò i muscoli del viso in una sorta di sorriso. Era da quando ero salito in macchina che mi era parso particolarmente in imbarazzo, ma lo era ancora per la canzone di Bublé?
“Guarda che a me Bublé piace” esordii dal nulla, con il mio tono che spesso e volentieri può risultare piatto.
Lui sollevò un sopracciglio e storse tutta la bocca. “..Serio?”
“Come cantante è bravo. E fa conoscere ai giovani le canzoni di Sinatra e amici.”
“..Io pensavo che ti facesse cagare.”
Bevvi un altro sorso della mia birra. Bublé aveva una voce piacevole, rilassante e molto morbida, dal mio punto di vista non c’era nulla che facesse cagare. “Non ci vado matto ma non mi fa cagare.”
Auruo giunse le mani davanti al viso e si mise a fissare con ostinazione la sua birra. Credetti di sapere a cosa – o sarebbe meglio dire a chi – stesse pensando l’amico Bossard.
“A Petra piace molto Sol Seppy.”
Lo colsi di sorpresa un’altra volta, ma la reazione che ottenni a ‘sto giro fu molto diversa. Auruo si ritirò sulla sedia con le braccia strette al petto, la faccia tutta scura, e anche nella penombra del Lobo, le guance rosse spiccavano come due semafori nella notte.
“Che c’entra Petra?”
“Petra c’entra sempre.”
“..Che cazzo dici.”
“Sei sordo?” Mandai giù altra birra, pacifico, “Petra c’entra sempre.”
“Non c’entrava col discorso.”
“C’entrava eccome” e bevvi ancora. Se Auruo non si muoveva, avrei attaccato anche la sua birra.
“Non si stava parlando di Petra!”
“Infatti no.”
“E allora, perché la tiri fuori?” Auruo era uno spettacolo insieme buffo e commovente, nel senso che era fin troppo evidente quali fossero i suoi sentimenti per la ragazza. E a suo modo, cercava di convincere noialtri che non erano veri.
“Gusti musicali. T’informavo.”
“Grazie, ma non mi serviva saperlo” fu la risposta secca e molto poco convinta dell’amico Bossard. Afferrò il suo boccale e lo avvicinò alle labbra, ma bevve così velocemente che si fece male alla lingua. Non so come avesse fatto di preciso a farsi male alla lingua bevendo, ma lo fece. Auruo si lagnò un pochino sotto al mio sguardo indifferente e divertito e si tamponò la lingua, graffiata sulla punta, con un fazzolettino di carta.
Ci fu un momento di silenzio interrotto solamente da Ozzy Osbourne che cantava Children of the grave, il parlottare random degli avventori del Lobo e il tintinnare di boccali e bottiglie. Aspettavo con ansia che lui dicesse qualcosa perché sì, era abbastanza chiaro che il discorso non era chiuso. Per la precisione, era spalancato.
“..Quali canzoni le piacciono di Sol Seppy, hai detto?”
Nascosi il sorriso che rischiava di nascermi sulla bocca con il boccale di birra. Stavo bevendo forse un po’ troppo in fretta, è solo che mi piaceva e ne avevo quasi sentito la mancanza. Dell’alcool, dico. “Non ne ho idea” ammisi, dopo un grosso e grasso sorso, “Perché non glielo chiedi tu?” domandai, fissandolo.
Notai che torceva un po’ le mani tra di loro e che non parlava, penso perché schiacciato dall’imbarazzo. Era una situazione inusuale, che non avevo la più pallida idea di come sbloccare; ma al Diavolo, lo sapevo benissimo.
“L’hanno capito anche i muri.”
“Eh?!” scattò subito Auruo.
“Che ti piace.”
“Chi?!”
“Petra.”
Auruo si chiuse nella negazione o almeno così presunsi. Faceva esattamente come me, non molto tempo prima, se pensavo al muso di Erwin Smith – e c’è da dire, non avevo ancora del tutto smesso.
“Lei non mi piace…” sborbottò Auruo, gli occhi fissi sulla birra. La mia nel frattempo era bella che finita. “Non è.. Non è solo questo. Non è che Petra mi piace perché sì, è che io le voglio bene. Vedi anche tu com’è, no? Vorrei aiutarla, tutto qua. Però non voglio che lei pensi che voglio fare il cavaliere, cioè, è chiaro che lei è in grado di cavarsela da sola, ma quando la vedo in difficoltà sento che la devo aiutare. Poi vorrei che ogni tanto staccasse la spina dai fratelli. Per questo qualche volta vado a casa sua, così può uscire da sola o con le sue amiche. Anche se in realtà a me i suoi fratellini stanno abbastanza su. Dicono che sono vecchio! Ti rendi conto? Io vecchio! Le tirate d’orecchie che non gli darei, ma se poi lo dicessero a Petra? Non mi lascerebbe più entrare in casa sua! S’incazzerebbe a morte con me, per questo sopporto. Non voglio che mi odi, solo che mi apprezzi. Poi— Quella è la mia birra!”
Posai il suo boccale che avevo provveduto a svuotare per metà ed incrociai le braccia sul tavolo. Auruo aveva parlato a sufficienza da scoprirsi senza mettersi a nudo e, sì, lo trovavo (sparatemi) tenero. Lo sapete meglio di me che non sono una cima in questioni amorose e sentimentali, ciò non significa che io sia sprovvisto d’istinto: i sentimenti di lui per lei erano genuini, come dei biscotti fatti in casa.
Auruo aveva un atteggiamento molto filosofico della faccenda. Non l’avevo mai visto fare il ‘good guy’, il classico bravo ragazzo solo in apparenza che pensa gli sia tutto dovuto, fica compresa, solo per essersi comportato come un essere umano decente, e al rifiuto di lei, le appioppa un’etichetta di zoccola.
No, Auruo non era così. Si comportava da brav’uomo con Petra e la trattava con affetto perché era così che lui le ‘voleva bene’. Mai una volta che l’avessi sentito lamentarsi del fatto che lei non volesse uscire con lui per una cena insieme o non gliela desse. Mi piaceva molto Auruo, in questo senso.
Ma non mi sentii in colpa, non stavolta, e approcciai il discorso con la testa leggera. Avevo già chiarito questi punti con Petra e ora la strada per lui era spianata, in un certo senso. S’intende, se son rose sbocceranno. “Lei non ti piace. Tu la ami.”
Gretto e diretto, così si fa. E meno male che non capivo niente di sentimenti.
Auruo ridacchiò debolmente e chinò il capo, che sorresse con le mani tra i capelli biondo spento. Lo so, amico, lo so, fa strano quando realizzi che è vero per davvero. Giochi di parole del cazzo.
“Pensa te, uno esce per una birra con un amico e si trova a parlare di ‘ste cose” non c’era rassegnazione nel suo tono, o forse sì, ma a me suonò vagamente divertito – quasi svuotato da un grande peso. Guardò in su verso di me e sorrise amareggiato. “Non capisco perché mi fai ‘sti discorsi. Visto che Petra ama te.”
Minacciai con la mano il suo boccale di birra e, dato che lui non se n’era accorto, bevvi un altro sorso. Iniziai a sentire la lingua più sciolta, merito del mix di birra bionda e rossa e della mia altezza. “Ma io non amo lei” e mi morsi quella maledetta lingua sciolta prima di ammettere, Io amo Erwin.
Auruo ci rimase di sasso. Gli si doveva essere aperto un mondo. “Io credevo..”
Scossi il capo. “Lascia perdere che facevamo sesso e limonavamo. Non amo Petra. Saranno anni che non facciamo più nulla del genere, noi due.”
“Io pensavo..”
“Smettila di pensare, Auruo” gli intimai, in tono fermo. Lui si zittì subito, si tappò la bocca e stette a guardarmi concentrato. Cazzo, non pensavo che fare l’autoritario facesse quell’effetto – forse in un’altra vita ero stato tipo, che so, un capitano di qualche esercito. “E agisci. Mandale un messaggio, o meglio chiamala e chiedile di uscire.”
“..Adesso?”
Io, il Cupido della situazione, riflettei un momento. Forse una chiamata alla soglia della mezzanotte avrebbe un po’ alterato Petra, ma Auruo era un tipo che non insisteva e che sapeva accettare i no. Così annuii.
“Ma qui dentro?”
“Magari riaccompagnami a casa prima, o almeno fammi uscire da qui.”
“..Ok, ok. La smetti di bere la mia birra?”
“Lascia stare, per stavolta pago io” e poi che ci potevo fare se lui non la beveva, scusate.
 
******
 
Con ‘dispiacere’ della mia curiosità, non assistetti alla telefonata galeotta. Auruo non se la sentiva molto in mia presenza – diceva di essere in imbarazzo. Fa niente, mi dissi, capii il suo punto di vista. Per il vero non ero a mia volta il tipo di persona che insiste, non con gli amici. Con Erwin il discorso era un po’ diverso.
…Troppe cose erano un po’ diverse con lui, ma lasciamo stare. Senza bisogno di metterlo sul piedistallo o osannare la nostra relazione come migliore, salvifica e tante altre stronzate, nel nostro rapporto c’erano ritmi diversi dall’amicizia. E grazie al cazzo, direte voi!
Passo dopo passo, capivo. Iniziava a dipanarsi la nube del dubbio su come funzionano le relazioni di un certo tipo e la cosa un po’ mi rincuorava: l’impressione netta era che stessi andando nella direzione giusta, magari incespicando. Fintanto che si trattava del sentiero da seguire, non mi sarei tirato indietro; tirandomi il gatto vicino, sbadigliando rumorosamente ed affondando la testa nel cuscino, chiesi a me stesso se non mi facessi un po’ schifo. A volte avrei voluto strozzare con rabbia quel piccolo me che si divertiva a buttarmi giù di morale: per una volta ero felice anche senza avere rotto i coglioni a Erwin per un po’, era un traguardo dell’autostima. Vaffanculo, me stesso!
In fondo in fondo, però, ero piuttosto consapevole della ragione di tanto volermi buttare giù: alla paura di star male, signori, non si scappa. Baciai il gatto sulla testa e borbottai ad alta voce, “La felicità fa male, Bobbo, fa un male cane”. Frase confermata dal gatto che cercava di scappare via da me, piantandomi i suoi artiglietti nelle braccia.
“Non si può dire neanche ‘cane’ in questa casa, adesso?”
Guardati come ti sei ridotto, Levi. A parlare da solo col gatto dell’assistente sociale e a fare il Cupido della domenica. No, del sabato, ma comunque.
Il pensiero non fu abbastanza intenso da abbattermi. Non lo fu nemmeno la giornata appena trascorsa, con quei tre ragazzini ed il pomeriggio morto e triste. Lasciai che tutto ciò si posasse sul fondo del mio cervello e lo trovai quasi riposante: non era poi così male, quest’immagine di me che parlavo con Bobbo, ad ottima chiusura di un giorno abbastanza nero.
Sussultai di colpo per via della suoneria di un messaggio inaspettato. Erwin! Dev’essere lui. Sperai ardentemente che fosse lui mentre acchiappavo l’apparecchio nella mano, cercando di non farlo cadere perché mi stavo addormentando e i miei riflessi facevano piangere. Non dimentichiamo che avevo anche un po’ bevuto, eh. Diciamoci le cose come stanno.
Auruo.
Sulle prime, a leggere il mittente, rimasi un tantino deluso ma poi mi si riattivò il meccanismo della curiosità da scimmia ed aprii l’sms. In tutta onestà, ignoravo cosa aspettarmi da Petra: la nostra amica non era il tipo di ragazza che si mette con te o spreca il suo tempo in un appuntamento pur di non stare da sola.
Strizzai gli occhi sofferenti alla luce dello schermo e cercai di afferrare le poche righe che Auruo mi aveva mandato.

[ Ha accettato! Usciamo sabato prossimo al Lobo! Vedi di non venire tu e pure gli altri due. È un’uscita tetta-a-tetta. ]

Devo dirvi la verità.
Risi molto forte per quel ‘tetta-a-tetta’.
   
 
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