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Autore: skippingstone    21/09/2014    1 recensioni
"Mi avevano detto che pensare troppo fa male, mi avevano detto che sarebbe passato tutto eppure la testa mi scoppia, gli occhi bruciano e respirare sembra la cosa più difficile da fare. Rifletto sulla mia probabile morte e sorrido, almeno potremmo stare vicino. Posso affermare di aver combattuto per tutti quelli che non sono riusciti a farlo: ho combattuto anche per te.
Se, invece, riuscirò ad uscire da questa Arena, non sarò più lo stesso: tutte le cicatrici si stanno aprendo nell'interno della mia bocca lasciando un retrogusto di sangue e troppe sono nel cuore. Anche se uscissi da questa Arena, non ne uscirei vincitore. Ho già perso tutto.
Tutto tranne una cosa: la voglia di vendetta.
Possa la luce essere, ora, a mio favore!"
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Altri tributi, Presidente Snow, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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30. L’aiuto
 
Sono arrabbiato. Non è la prima volta che succede. Livius è stato picchiato, di nuovo. M’infastidisce un sacco questa cosa. Credo che ognuno si incazzerebbe, se sapesse che il loro migliore amico è vittima di bullismo. Che divertimento c’è in una cosa del genere? Picchiare una persona che non ti ha fatto niente, insultarlo, denigrarlo, che senso ha? Ognuno segue la propria strada, soprattutto Livius ed io, ma questi ragazzini hanno la spasmodica voglia di intralciare il nostro cammino.
«Sono stufo! Noi non siamo le loro vittime!» – sbotto. - «Tu dici che non devo preoccuparmi, ma stanno esagerando.»
«A me non hanno mai chiesto di tagliarmi le vene.» – esordisce con quella frase insensata, stupida. Adesso m’innervosisce più lui che i bulletti.
«Ma da che parte stai, scusa?» – gli chiedo seccato.
«La nostra.»
«E allora perché non vuoi che ti aiuti?»
«Perché non ti ho chiesto un aiuto. Loro sono solo piccoli pallini. Sono come api che vengono a prendersi il mio polline. Credi che io non ne abbia altro? Ne ho tantissimo! Quando avrò bisogno di te, urlerò disperatamente il tuo nome ma, ora, non c’è bisogno di preoccuparsi.»
Mi sorride.
Se solo avesse davvero urlato il mio nome disperatamente quando aveva bisogno di me…
 
Quando si entra nell’Arena, tutti i tributi sperano di ricevere un paracadute argentato. Perché? Perché è sinonimo di aiuto. Già, questo piccolo oggetto argentato è l’aiuto necessario per sopravvivere.
«Allora cosa c’è scritto?»
Søren è curiosa, vuole sapere cosa c’è in questo paracadute che può esserci utile.
«C’è scritto…»
Guardo il bigliettino, non so come dirglielo.
«Snow? Tutto bene?»
«C’è scritto che è solo per me.»
Søren è delusa, lo vedo perfettamente. Se non lo era prima, quando ha capito che era per me il paracadute, adesso lo è di sicuro. Vorrei far tornare quel paracadute in cielo e mandarlo lontano. Io non ho mai chiesto un paracadute e neanche lo voglio. Come detto, però, è necessario per la mia sopravvivenza.
«Noi siamo una squadra…» - me lo dice come una bambina a cui hai appena tolto un giocattolo.
«Io…» - sono in imbarazzo. Non so che dire o che fare. Søren subito mi dà il paracadute e sorride.
«Ma è per te. Lo capisco, tranquillo.» – lei continua a sorridere ma è un sorriso di circostanza, fatto solo per far tacere i sensi di colpa che mi divorano.
«Scusa, Søren…»
«E scusa di cosa?» – lei è ancora gentile, fin troppo.
 
Ho solo rubato un sorso del contenuto del paracadute, poi ho subito avvitato il tappo. Non so perché, ma mi sentivo sporco: usare un aiuto mentre Søren guardava me. Ora mantengo in mano il paracadute come se fosse un ordigno pronto a esplodere. Lo tengo stretto mentre cammino con Søren che guarda in avanti. Non ci rivolgiamo la parola da quando le ho detto cosa c’è scritto sul messaggio attaccato al paracadute. Nella mia testa rimbombano le sue parole: “noi siamo una squadra.” Quale squadra non condivide le cose? Io dovrei davvero farlo con lei, condividere le cose perché lei merita più di quel che merito io. Sono, però, costretto a non poterle dare il contenuto del paracadute.
«Penso tu debba usare quel che c’è là dentro, prima che diventi inutile.»
«Ehm…» - non riesco a parlarle di quest’argomento.
«Non so cosa ci sia ma, se ti han detto di usarlo solo tu, allora dovresti farlo. Purché non sia un’arma e…»
«Søren! Credi mi abbiano mandato un’arma per ucciderti?» – la interrompo: come può credere una cosa del genere?
«No, non credo questo.»
«E, allora, cosa credi?»
«Ti hanno dato una bomba?»
«E cosa dovrei farci io con una bomba?»
Søren si ferma: «Davanti al Palazzo della Giustizia, abbiamo detto che avremmo dovuto trovare il modo di far esplodere il Palazzo con i tributi dentro.»
«E se fosse una cosa del genere, credi non ne avrei parlato con te?»
«Sinceramente? Non lo so. Siamo rimasti in cinque e il vincitore è solo uno.»
Sentire queste parole mi pugnala il cuore.
«Dopo tutto quello che abbiamo passato, credi che io possa ucciderti così?»
«Allora perché non mi dici del paracadute?»
«Perché… non posso.»
«Oh, non puoi? Questa è la scusa dei bambini. Tu sei un bambino, Snow?»
«No, ma non posso dirti cosa c’è qui. Posso, però, dirti che non è per ferire te. Anzi, mi dà fastidio solo che tu possa pensare questo! È assurdo.»
«No, è assurdo che tu non possa fidarti di me!»
Flashback: queste parole mi ricordano Livius che si arrabbia con me perché non mi apro con lui. La testa inizia a farmi male maledettamente. Chiudo gli occhi, lascio cadere il paracadute a terra per potermi stringere le tempie.
«Snow, guarda che se è un modo per evitare la conversazione…»
Svengo.
 
Riapro gli occhi.
La luce del sole prende il possesso della mia visuale.
Li richiudo e vedo il volto di Søren preoccupato. Lei mi stringe la mano.
«Snow!» – ripete più volte il mio nome. È in lacrime.
«Mi hai spaventato! Credevo che stessi morendo…»
Flashback: io che dico a Søren di non morire, di non lasciarmi. Presumo che lei si sia sentita come me.
Non la rispondo, non ce la faccio. Devo un attimo riprendermi. Mi giro e… il tappo della parte inferiore del paracadute è stato svitato.
Richiudo gli occhi ma, pensando che il paracadute è stato aperto, li riapro. Mi alzo velocemente. La testa scoppia. Non provavo un dolore così intenso da quando mi sono risvegliato nella casa rossa. In realtà, anche dopo la bomba, mi sono sentito frastornato come adesso.
«Il…» - indico il paracadute argentato.
«L’ho usato io.»
Sbarro gli occhi. Cos’ha combinato? Spalanco la bocca e le ferite che vi sono all’interno tornano ad aprirsi. Sputo sangue. Søren si spaventa.
«Ma che…!»
Svengo, di nuovo.
 
Quando mi risveglio, nella mia bocca c’è una specie di fazzoletto. Riaprendo gli occhi, vedo due nuovi volti. Cerco velocemente Søren. Dov’è? Cosa le hanno fatto? Dove mi trovo? Che ci fanno loro qua? Le pupille viaggiano alla velocità della luce perché sono spaventato. Non sono sicuro del fatto del paracadute ma, ora, son sicuro del fatto che Søren non è qui, accanto a me. Ci sono solo questi due ragazzi. Guardo a destra, lei non c’è. Guardo a sinistra, lei non c’è. Quando, però, rivolgo lo sguardo all’indietro, la trovo. Vedo Søren, sospiro e mi tranquillizzo. Mi sta accarezzando i capelli.
«Si sta svegliando!» – dice il ragazzo del distretto 11.
Il ragazzo del distretto 12 mi sfila il fazzoletto dalla bocca delicatamente, prova a non farmi del male sollevando il fazzoletto pregno del mio sangue. Mi controlla le ferite che non sanguinano più.
«Deve riposare. Tutto qua.»
«Resto io con lui.» – afferma Søren. I due fanno un cenno con la testa, sorridono, si alzano e si allontanano. Io torno a chiudere gli occhi e, sottovoce, chiedo alla mia vera alleata perché ci sono quei due qua. Lei, però, non mi sente. Mi chiede di ripetere.
«Cosa ci fanno loro qui?» – compio una fatica immane per parlare.
«Mi hanno aiutato. Non sapevo cosa fare con te. Sono abituata al sangue, ho visto animali sgozzati dalla nascita, ma non so cosa fare quando è un umano a sanguinare, dalla bocca poi. Io non sono Chimio.»
«Ma…»
«Ci hanno trovato grazie al tuo paracadute. Credendo fosse per loro, l’hanno cercato e mi hanno trovato.»
Anche da mezzo rimbambito, sento che questa storia fa acqua da tutti i pori.
«Hanno del cibo che vogliono condividere con noi.» – continua Søren. – «Ti abbiamo fatto bere della minestra di verdure. Ho mangiato anch’io.»
Ricordo del paracadute argentato e lo cerco con lo sguardo. Spero che quello che ho visto prima sia solo una bugia, un’illusione della mia mente.
«Il paracadute non era per loro e, quando sono arrivati qui, ormai avevo già usato il paracadute su di te.» - Søren conferma che il paracadute era aperto.
«Co…»
«Quello che c’era là dentro l’ho dato a te. Non aveva un ottimo odore ma, se era solo per te, ci sarà un perché. Siamo una squadra e ti sostengo.»
Ritorna quella frase che la mia testa ripete all’infinito. Sono ancora stordito.
«Mi senti?» – Søren mi sussurra all’orecchio.
Faccio cenno di no con la testa.
«Come puoi dirmi no, se non senti? Vuol dire che ci senti eccome!»
Accenno un sorriso divertito.
«Ma…»
«Ora, riposa.»
«Dimmi che…» – respiro. - «Possiamo fidarci… di loro.» – con le poche forze che ho, afferro la mano di Søren.
«Non posso dirtelo perché non possiamo fidarci di loro.»
Mi basta questo per non chiudere più occhio.
 
  
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