Ventuno settembre: troppo (presa dagli avverbi).
Dovrei e scrivere e leggere e tradurre;
frasi intrecciate in abbracci mordaci
ad altre frasi; parole saldate, ancorate,
l’una all’altra in un cerchio infinito;
un legame dai sottili bordi frastagliati
ed increspati da tenui sbadigli croccanti.
(E i sorrisi che s’annegano in caffè deliziosi
sono e resteranno sempre indimenticabili.)
Le ciocche sfumate scivolano arcuate
sulle spalle; storco il naso davanti al riflesso
che mi restituisce lo stesso sguardo perduto –
Ma ho le palpebre pesanti e le ciglia che
piangono postille in una lingua dimenticata;
leggere e delicate lettere trapuntate di sogni.
Sono troppo stanca per pensare
tanto; troppo; per niente.
Sciolgo i nodi, i garbugli, davanti ad un foglio
marmoreo tra un sospiro ed un sorriso sbagliato;
non c’è luna e non ci sono nemmeno le stelle –
che notte sarà mai questa?
S’ode solo un tintinnante aroma che, stucchevole,
aleggia nell’oscurità piacevole, amorevole:
si è troppo stanchi perché è troppo tardi;
è troppo tardi perché si è troppo stanchi;
è troppo un po’ tutto – persino questa notte fasulla.
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